Le lettere rubate di Sophie Calle

Difficile classificare l’opera di Sophie Calle. Eccentrica, instabile e ripetitiva al tempo stesso, suscita continue domande e oscillazioni. Abita un territorio non solo e non tanto di confine ma di deliberata trasgressione dei confini, a molteplici livelli: formale, operativo, istituzionale, tematico. E in questo tratto trasgressivo sta molto del suo fascino e della sua forza.

Per cominciare, arti visive, performance, fotografia o letteratura? Così scrive Paul Auster in Leviatano a proposito del personaggio di Maria, avatar di Sophie Calle e su Calle modellato: “Maria era un’artista, ma la sua attività non aveva nulla a che vedere con la creazione di quegli oggetti comunemente definiti arte. Secondo alcuni era una fotografa, secondo altri un’artista concettuale, mentre altri ancora la consideravano una scrittrice, ma nessuna di queste definizioni era esatta, e alla fine non credo si presti ad essere etichettata in alcun modo. Il suo lavoro era troppo folle, troppo idiosincratico, troppo personale per poter essere associato a un particolare mezzo espressivo o ambito”.

Molti progetti di Calle nascono da un agire, da un gesto più o meno deflagrante (ci tornerò), da una contrainte che genera una situazione, da un dispositivo strutturale/processuale i cui esiti verranno documentati: farsi assumere come cameriera in un hotel per frugare nelle camere di sconosciuti, chiamare tutti i numeri elencati in una rubrica telefonica trovata per caso e ricostruire un ritratto indiretto del suo possessore da pubblicare – a sua insaputa – nelle pagine di Libération, installarsi per alcuni giorni in una cabina telefonica di New York, recarsi in Giappone in treno per dilatare quanto più possibile la durata del tragitto. E anche quando tale dispositivo è assente, nel suo lavoro rimane sempre l’ombra, per quanto debole, di tale dimensione performativa. Le cose, poi, sono ulteriormente complicate dal fatto che tutti i lavori di Calle si presentano in una duplice veste o, meglio, in due spazi distinti e in diverse versioni, non necessariamente l’una lo specchio dell’altra. Da una parte, le pareti del museo o della galleria, dunque lo spazio istituzionale dell’arte, nella forma effimera, ogni volta modificabile dell’allestimento, dove il più delle volte il materiale è appeso a un muro, dove può essere prodotto materialmente di fronte agli spettatori (gli oggetti nelle teche in Le rituel d’anniversaire, per esempio) e ambientato in sempre nuove messe in scena. Dall’altra, il libro (attenzione, non il catalogo ma proprio il libro in quanto tale, la forma-libro), lo spazio della pagina stampata, forma stabile, se non fissata una volta per tutte, in cui ogni elemento non può che essere ri-prodotto, e che per la sua stessa natura enfatizza il carattere non solo narrativo ma letterario del lavoro di Calle: un carattere che l’artista ha più volte rivendicato, sottolineando il ruolo cruciale della scrittura nella sua pratica.

Sophie Calle, Les Dormeurs, 1979 (particolare)

Ciò solleva domande specifiche, che vertono sullo statuto del libro d’artista in quanto genere, su altri modelli letterari o paraletterari (fotoromanzo, foto-giornalismo, libro di viaggio, lettera d’amore, poliziesco, autobiografia, nonché la “grande” letteratura; i primi riferimenti che vengono in mente sono il surrealismo e Perec) coi quali i progetti di Calle variamente giocano, sulla possibilità di pensare il muro come una pagina o viceversa, sulle contaminazioni tra immaginario letterario e arti visive. La forma-libro, in ogni caso, ha tutto fuorché un ruolo ancillare o derivato per Calle: al contrario, talvolta si ha l’impressione che costituisca una matrice originaria, o la realizzazione più “felice” – vale a dire più efficace e riuscita – di quei progetti. Le parole con cui Calle ha evocato la collaborazione con uno dei suoi editori storici, Xavier Barral, confermano tale centralità del libro (intervista a Radio France/France Culture, 22 febbraio 2019).

Ma a monte ci sono altre polarità, ancora più rilevanti. Estetica o etnografia? Azione o rappresentazione? Registrazione o espressione? Finzione o verità? Privato o pubblico (o addirittura politico)? Visuale o verbale? Tutta l’opera di Calle non fa altro che interrogare queste distinzioni e soprattutto le soglie tra un polo e l’altro, per spostarle, sabotarle, rovesciarle. Non è solo un’artista trans- e multi-mediale: questo sarebbe banale, tanto più oggi, sebbene quando Calle ha cominciato a lavorare, la transmedialità non fosse ancora diventata una specie un mantra, un valore in sé, un pedaggio da pagare per entrare praticamente ovunque. Più ancora che i rapporti tra diversi media, a interessarla sono le transazioni, le commistioni, le tensioni, i conflitti e le frontiere problematiche tra diversi domini, tra diversi ordini sociali (e discorsivi). È vero però che la polarità visuale/verbale ha uno statuto speciale: perché è sia oggetto che strumento di indagine, perché taglia trasversalmente tutte le altre, arrivando a costituire una delle cifre di Calle. Come lei stessa ha scritto una volta, “Testo e immagine. Il mio marchio di fabbrica” (En finir, in collaborazione con Fabio Balducci, 2005).  

Molto di quanto abbiamo detto si ritrova, come antologizzato, citato o miniaturizzato, in Storie vere, primo libro di Calle ad essere tradotto in italiano, raccolta di microracconti ciascuno accompagnato da una fotografia, o di fotografie ciascuna accompagnata da un microracconto, senza che sia mai chiaro se è l’immagine a illustrare il testo, o se è il testo a fungere da didascalia all’immagine. Più che di un libro chiuso in sé stesso o di un progetto compiuto, si tratta di un work in progress, di un modulo, più volte ripubblicato (dalla prima edizione nel 1994 fino alla più recente, nel 2021, sulla quale è condotta la traduzione italiana) con rielaborazioni e soprattutto aggiunte che rimandano ad altri lavori di Calle, rinforzando così la rete intertestuale sottesa a tutto il suo lavoro e creando uno spazio autobiografico unitario per quanto contraddittorio e fitto di tensioni. Repertorio, dunque, in cui sfilano temi e oggetti ossessivi (la sessualità, il corpo, il rituale, la morte, la dialettica tra verità e finzione, il gioco tra caso, contrainte e pensiero magico, l’esibizionismo e la sorveglianza, la violazione dell’intimità, la lettera, il letto e il lenzuolo, l’abito da sposa… veri e propri revenants, nel duplice senso di fantasmi e ritorni martellanti); e repertorio in cui affiorano anche le tracce di quei dispositivi strutturali/processuali a cui abbiamo accennato: regalare a un uomo un capo di vestiario ogni anno finché non lo avremo reso conforme ai nostri gusti, finché non lo avremo vestito di tutto punto e sarà pronto, magari per essere spogliato (“La cravatta”).

Storie vere, però, è molto più di un’antologia. Ha un suo posto specifico nel contesto dell’opera di Calle. Intanto tra i suoi progetti è il più immediatamente narrativo, quello che si realizza in modo più naturale e diretto nella forma-libro, che si avvicina maggiormente a un foto-testo e, più in generale, alla (foto)letteratura. Ed è anche quello in cui il rapporto tra testo e immagine appare come semplificato, ridotto a uno schema elementare, almeno dal punto di vista tipografico e ritmico: un’immagine e un segmento testuale, una accanto all’altro, l’immagine a sinistra, il testo a destra; oppure, in alternativa, entrambi squadernati sulle due pagine e composti secondo un orientamento orizzontale, dove la pagina in quanto unità di misura del libro spezza l’immagine. Per questa regolarità e (apparente) semplicità, è forse un luogo esemplare per riflettere sui rapporti che si stabiliscono tra le immagini e i testi.

In Storie vere (e forse anche altrove), il rapporto tra testo e immagine oscilla tra senso ovvio e senso ottuso, per dirla con Barthes; è sempre in bilico tra solidarietà e disgiunzione, tra mera documentazione e straniamento. Il primo racconto s’intitola Il ritratto, e a sinistra vediamo in effetti un ritratto appeso a un muro. La storia narrata, però, parla solo incidentalmente di un ritratto; è centrata su una lettera rubata nascosta dietro al ritratto, lettera che l’immagine occulta invece di esibire. Ci sono altre lettere rubate nel libro di Calle: quelle indirizzate a una donna di nome H. che l’io narrante sottrae al marito, cancellando la H posta in alto a sinistra e sostituendola con una S; la lettera d’amore commissionata a uno scrittore; il messaggio di risposta automatica strappato al cellulare del padre già morto. Possibile che non si tratti di una ricorrenza casuale. Perché l’oggetto del racconto, che l’immagine dovrebbe visualizzare, somiglia un po’ alla lettera rubata di Poe: sta lì, in superficie, e al tempo stesso non si vede; è lo stesso e insieme un altro. L’immagine interroga cosa è centrale in una storia, ne negozia i valori, mentre a sua volta il testo interroga la pertinenza dell’immagine. L’abilità di Calle sta nel tenere perpetuamente in moto una tale circolarità, sempre aperto lo spazio interstiziale tra evidenza e segreto. Fotografare l’assenza, che spesso coincide con solitudine, desolazione, abbandono, oppure renderla enigmaticamente presente, è l’uso peculiare che Calle fa della fotografia. “Non si è visto niente – nessuno”, recita il titolo emblematico di un altro racconto, a cui sono associate le figure tragicomiche di due donne senza età.

Sophie Calle

Anche in questo caso Calle si situa su un confine, per trasgredirlo. Il confine tra due nozioni antitetiche dell’immagine fotografica, che hanno entrambe una lunga storia alle spalle. Fotografia come impronta, attestazione, certificazione, aderenza del referente: il letto impacchettato, la tazza, la scarpa rossa, la cravatta. Fotografia come spettralità, rito magico, feticcio, legata alla mancanza, al passato e alla morte: l’ombra sgranata dell’autrice che accompagna la storia dell’acquisto di una concessione al cimitero di Bolinas in California, i matrimoni moltiplicati, di cui non si sa più quale sia vero e quale sia falso, la madre-statua. Da una parte, potremmo dire, The Pencil of Nature di Fox Talbot, dall’altra la fotografia inquietante e sinistra evocata nel romanzo di Hawthorne The House of the Seven Gables. Il punto è che Hawthorne e Fox Talbot, in Calle, sono reversibili, sempre sul punto di trasformarsi l’uno nell’altro. Non solo infatti ci sono immagini che gravitano più su un versante e altre che gravitano più su un altro, ma la stessa immagine può essere entrambe le cose, può appartenere simultaneamente a entrambe le giurisdizioni: l’abito da sposa per esempio, pegno di un’esperienza che diventa sotto in nostri occhi pietra tombale o sudario.

Ma non è tutto. La tensione tra parola e immagine, tra simbolo e icona se vogliamo seguire Peirce, serve a Calle per interrogare lo statuto del visibile, per non darlo mai per scontato. Si tratta di una questione che attraversa l’intero suo lavoro e che Calle ha affrontato in maniera specifica nel trittico L’absence (2000), il cui baricentro è costituito dalla descrizione di oggetti assenti o cancellati. Una questione che il racconto, con la sua dinamica, con il suo movimento e mutamento, con la sua forza dialogica e performativa, rende ancora più intricata.    

Il racconto, si dice, è una forma di esorcismo: raccontare un evento è un modo per riprendere su di esso il controllo, oggettivarlo, renderlo inoffensivo, guarire la ferita che ha generato. Il lavoro in cui Calle mette in scena tale vocazione del racconto in maniera più esplicita e programmatica è Douleur exquise (2003), che ha come detonatore una “rottura banale” vissuta però dall’artista come il momento più doloroso della sua vita. Douleur exquise ha un’architettura molto complessa, dovuta principalmente all’iscrizione della temporalità nel cuore del progetto: la prima parte costruita come un conto alla rovescia dei giorni che conducono verso il dolore (exquis anche perché così precisamente localizzabile), la seconda invece come un vettore orientato in avanti, che segna il progressivo distacco da quel momento cardinale. In questa seconda parte, all’immagine del telefono rosso in un albergo di New Delhi, strumento tramite il quale la rottura è stata annunciata, si associa la narrazione, ripetuta per una settantina di volte, di quella stessa rottura. Via via che il tempo (e il testo) passa, il racconto si fa sempre più breve, stenografico, e l’inchiostro bianco dei caratteri si confonde sempre di più con il fondo nero della pagina, fino a diventare invisibile. Attraverso la ripetizione, la storia – e il dolore – si consumano, si banalizzano, un effetto incrementato dalla giustapposizione di altri racconti in cui soggetti anonimi narrano il momento più doloroso della loro vita. Anche il telefono rosso, sebbene apparentemente sempre uguale, cambia di segno: da grumo di sangue vivo quale era all’inizio, o oggetto rovente, intoccabile, si è trasformato progressivamente in memoria, archivio: quasi una foto-ricordo. “Il metodo è stato radicale: in capo a tre mesi ero guarita”, scrive Calle; l’esorcismo era “riuscito”.

Il racconto come esorcismo, e gli stratificati rapporti che stabilisce con l’immagine, è un elemento primario anche in Storie vere, seppure – ancora una volta – semplificato, e non sempre con esiti così trionfanti. Gli scheletri dei tre gatti morti, che sono in realtà lo stesso scheletro ripetuto tre volte, come se non volesse o non potesse andarsene, non potesse essere cancellato (I gatti), l’abito da sposa-sudario di cui abbiamo già parlato, la bambina sulla spiaggia:

Avevo due anni. Accadeva sulla spiaggia. A Deauville, mi pare. Mia madre mi aveva affidato a un gruppo di bambini. Ero la più piccola, giocarono a liberarsi di me. Si raggruppavano, si parlavano sussurrando, scoppiavano a ridere e scappavano via ogni volta che io mi avvicinavo. Io gli correvo dietro gridando: “Aspettatemi, aspettatemi!”. E questo è rimasto.

In altre parole, quella bambina dal volto infelice che grida “Aspettatemi” è ancora lì, la fotografia non è solo la traccia di qualcosa che “è stato”, ma il segno di una persistenza, di un resto – in tutti i sensi del termine – che non è possibile scacciare o liquidare.

Le sezioni sulla morte del padre Bob e della madre Monique – che riprendono variamente lavori precedenti, tra cui Elle s’est appelée successivement Rachel, Monique, Szyndler, Calle…, 2012, o Que faites-vous de vos morts?, 2019, interrogazione sui riti individuali o collettivi che accompagnano la morte – sono ovviamente l’esempio più eclatante di un tentativo di elaborazione del lutto attraverso la (foto)narrazione. Anche in questo caso la dialettica tra parola e immagine resta in bilico tra l’ovvio e l’ottuso, si sviluppa negli interstizi tra documentazione, coerenza, simbolo, incongruità, discordanza: il piccolo solco rotondo nel terreno, forse il posto per un cero, davanti alla pietra tombale su cui è incisa la parola “FATHER” che diventa pupilla e sguardo, o la madre-giraffa impagliata, animale totem, sostituto un po’ grottesco che le parole in verità non spiegano, che si limitano in qualche modo ad “asserire”: “Quando mia madre è morta, ho comprato una giraffa impagliata. Le ho dato il suo nome e l’ho sistemata nel mio studio. Monique mi guarda dall’alto, ironica e triste”.

Ma gli esorcismi di Sophie Calle non si riducono alla banalità di racconti liberatori. Di una poetica della trasgressione fa parte anche l’impossibilità di tenere distinti temi, procedimenti e pratiche. Immancabilmente, a proposito di Calle, si chiamano in causa l’autobiografia e l’autofiction, e viene invocata la categoria del vissuto. E questo è del tutto naturale, persino ovvio. Il suo lavoro tocca spesso la sfera dell’intimità (la propria e quella degli altri), dell’esperienza personale, prendendo come “materiale da costruzione” la biografia dell’autrice, in quella che Johnnie Gratton ha chiamato “auto-photo-biography”. Il libro di cui stiamo parlando traccia del resto un mosaico autobiografico, per quanto frammentario e discontinuo, e si intitola Storie vere, a voler siglare con chi legge un patto preliminare: it’s all true… Quel materiale però è variamente manipolato, sottratto a verifiche, teatralizzato in modi molteplici e quindi finzionalizzato, sospinto nei territori della maschera.

L’attrito – o la complicità – tra verità e finzione è quasi un transito obbligato parlando di Calle, un topos critico inaggirabile. Eppure, forse perché il gioco va avanti ormai da alcuni decenni, o perché anche l’autofiction è diventata una specie di passepartout, perdendo molto del suo potenziale dissacrante, non mi sembra l’aspetto più significativo del suo lavoro. Assai più rilevante è il rapporto tra autobiografia e performance, nel senso di azione, non di messa in scena. Per quanto i suoi progetti partano da un vissuto, si tratta di un vissuto che viene rovesciato, convertito nel suo opposto: di un vissuto trasformato in programma, come mostra in maniera paradigmatica Prenez soin de vous (2007), dove centosette donne diverse sono state chiamate a reinterpretare, analizzare, recitare, cantare, commentare un messaggio mail di rottura ricevuto da un uomo chiamato G. Nel lungo saggio-intervista con Christine Macel, Calle dichiara: “Gli eventi felici, li vivo, quelli infelici, li sfrutto. Prima di tutto per interesse artistico, ma anche per trasformarli, per farne qualcosa, per trarne profitto: vendicarsi della situazione” (Sophie Calle, M’as-tu vue, catalogo della mostra al Centre Pompidou, 2003). E alcuni anni dopo, in un’intervista più breve rilasciata a “Panorama” in occasione della mostra MAdRE al Castello di Rivoli: “Non parlo della mia vita, tranne quando la uso in un progetto. La maggior parte dei miei progetti, però, ha cambiato la mia vita”.

L’evento traumatico va preso per le corna, va come rivendicato, cambiato di segno attraverso l’agency, proiettato al di fuori di sé, instaurando una distanza emotiva che passa proprio per il rituale e la contrainte: una contrainte che non si applica al “testo” ma alla “vita”, o alla vita ancor prima che al testo. Torniamo ai dispositivi strutturali/processuali già citati. Una tale trasformazione del vissuto in programma, che insieme lo celebra e lo nega in quanto tale, vale a dire in quanto dimensione che ci determina, è già in sé deflagrante. Lo diventa ancora di più quando implica, come avviene in molti casi, la trasgressione di piccoli o grandi tabù, e ha per questa stessa ragione un portato – verrebbe da dire – politico.

Potremmo citare l’esplicita spettacolarizzazione del dolore – proprio e altrui – in Douleur exquise, per esempio: come ha scritto Anneelen Masschelein, “una sorta di tabù si lega alla narrazione dell’esperienza del dolore, come se il raccontarlo e il mostrarlo contaminassero l’autenticità e la purezza di quell’esperienza” (Can Pain Be Exquisite?, “Image [&] Narrative”, 2007). Oppure l’esibizione di sé stessa sulla scena pubblica in quanto donna abbandonata, tradita, non amata, rifiutata, dunque in quanto vittima, in Prenez soin de vous. O ancora il seguire le persone per strada, il tentare di entrare a forza nella loro intimità. Anche in Storie vere ci troviamo di fronte a un fenomeno analogo. Nell’ultima parte, come già detto, ci sono due sezioni dedicate alla morte rispettivamente della madre e del padre. Ci siamo però dimenticati di aggiungere che in mezzo ce n’è un’altra, dedicata alla morte del gatto di Calle, Souris. Queste tre sezioni si richiamano a un progetto del 2017 che si intitola molto significativamente Ma mère, mon chat, mon père, dans cet ordre (“Mia madre, il mio gatto, mio padre, in quest’ordine”), dove l’“ordine” di apparizione è in effetti il fulcro dell’operazione: porre la morte di un animale e quella dei propri genitori sullo stesso piano, dare addirittura la precedenza al gatto rispetto al padre, ribaltare il senso comune e i valori acquisiti. Così leggiamo nella penultima pagina di Storie vere, accanto all’immagine del cartello con l’indicazione “END”:

Ho tralasciato di tagliar loro una ciocca di capelli e questo non è da me. Quando è morto il mio gatto, avevo conservato un ciuffo dei suoi peli. Florence si è felicitata con me: “Mi fa piacere vedere che fai comunque una differenza tra le bestie e gli uomini”.

Lo spazio dell’elaborazione del lutto è anche lo spazio della trasgressione, del tabù violato.

Sophie Calle
Storie vere. 63 testi
traduzione di Maria Baiocchi
Contrasto, 2022, pp. 139, € 21,90

In copertina: Sophie Calle, Voir la mer, 2011 (particolare)

insegna Letterature comparate e Letteratura e studi visuali all’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca includono la narrazione, la teoria e la storia del romanzo, le riscritture e le forme di espansione narrativa, l’adattamento cinematografico, l’intermedialità, i rapporti tra letteratura e visualità e tra letteratura e cultura materiale. Oltre a moltissimi saggi in prestigiose riviste italiane e internazionali, ha pubblicato: “Una forma che include tutto. Henry James e la teoria del romanzo” (il Mulino 1997), “Teorie del punto di vista” (La nuova Italia 1998), “Storie proprio così. Il racconto nell’era della narratività totale” (Morellini 2013), “Senza fine. Sequel, prequel, altre continuazioni” (Morellini 2018).

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