Talismano Abel Ferrara

“Ogni film è potenzialmente uno snuff movie.”

È il 1993 e così Abel Ferrara – pungolato da Camille Nevers e Frédéric Strauss – si esprime nel corso di un’intervista apparsa sul numero 473 dei “Cahiers du cinéma”. È appena uscito Occhi di serpente, un titolo ch’è la traduzione letterale del titolo originale voluto ma non ottenuto dal cineasta: Snake Eyes. Nel gioco dei dadi lo «snake eyes» è il doppio uno: il punto più basso, il numero perdente. I produttori della pellicola hanno ritenuto che un titolo del genere portasse sfiga e gli hanno preferito Dangerous Game. Titolo più generico, non ci piove, ma non fuorviante: il gioco pericoloso è il cinema. 

Il gioco pericoloso è un certo cinema. Il cinema del rischio. Del rischio e del rilancio. Il cinema della ferita. Della ferita e del bruciore e dell’infezione. Il cinema dell’illimite e dello squilibrio. Il cinema che ci fa sentire il pericolo e – quanto più ci entriamo, quanto più ci lasciamo invadere, quanto più ci lasciamo scottare – ci fa sentire in pericolo. Il gioco pericoloso è quel Cinema dove – come nella Poesia che non distoglie lo sguardo dall’orrore – chi perde vince. Il cinema di Abel Ferrara è un gioco dove la vita è in gioco, come tutti i giochi che valgono la pena di essere giocati: i giochi col fuoco. 

Ho scritto «Il cinema di Abel Ferrara» intendendo: quasi tutto il suo cinema degli anni Novanta. 1990: King of New York. 1992: Il cattivo tenente. 1993: Occhi di serpente. 1995: The Addiction. 1996: Fratelli: 1997: Blackout. Un giorno – quando avrò tempo ed energie per scrivere quella Pericolosa storia del cinema di cui i miei antinomici talismani sono elementi – quel giorno sarà chiaro che quasi nessuno come Ferrara ha concentrato in un arco di tempo tanto ristretto, un settennio, un tale numero di lungometraggi mostruosi, ben cinque – e ricordo che il ‘93 di Occhi di serpente è anche l’anno in cui esce (il remake del classico donsiegeliano di fantasociologia Body Snatchers, distribuito in Italia col titolo) Ultracorpi. L’invasione continua, un Ferrara DOC dove però la tradizionale intelaiatura sci-fi finisce per pregiudicare quei tuffi a volo d’angelo (e di demone) che ci lasciano a bocca aperta, non funge cioè (come altrove) da trampolino rimbalzino di un talento attoriale spintonato a dovere.

Christopher Walken alias Peina in Tha Addiction (1996) di Abel Ferrara

Ho parlato di «lungometraggi mostruosi» intendendo: film potenti fino alla prepotenza, ispirati e ispiranti; film che grattano il fondo, scartavetranti; film contagiosi, pestiferi. Mostruosi allora per la vivezza: per quella vivezza nutrita di tutto ciò che attenta la nostra sopravvivenza fisica e psichica. Mostruosi ora per la conduzione all’età adulta dei generi cinematografici d’elezione ora per l’oltranzismo dello scavo sui generis. Mostruosi per la potenza della perlustrazione corporale, per l’energia figurale, per la captazione sensuale. Mostruosi per l’indugio corrosivo e corroborante nella nostra notte spirituale. 

Ho affermato «quasi nessuno» intendendo: Ferrara è tra i pochissimi che – a fronte dei parametri d’intensità di cui sopra – hanno fatto così tanto in così poco. Voglio dire che siamo ai livelli di Jean-Luc Godard, Ingmar Bergman, Werner Herzog. Il Godard della stagione ’60-’67, aperta da Fino all’ultimo respiro e conclusa da Week End, ovvero gli anni connotati dalla sfolgorante presenza della musa Anna Karina, denominati appunto gli “Anni Karina”. Il Bergman che va dal ‘66 di Persona al ’73 di Scene da un matrimonio passando – e omettendo qualcosa – per L’ora del lupo (’68), La vergogna (’68), Passione (’69), Sussurri e grida (’72). L’Herzog che in una dozzina di calendari, dal ‘70 all’82, realizza quattro dei suoi cinque film con Klaus Kinski – Cobra verde esce, frutto tardivo, nell’87 – nonché Anche i nani hanno cominciato da piccoli (’70), Fata morgana (’71), L’enigma di Kaspar Hauser (’74), Cuore di vetro (’76), La ballata di Stroszek (’77). Quel Ferrara, non c’è dubbio, è di questa schiatta. C’è però un prima e un dopo, quel Ferrara. 

Prima c’è il Ferrara che si sta cercando e a sprazzi trova la propria vena. Due film per tutti, due film che trasudano New York e cultura underground da tutti i pori: The Driller Killer (‘79, black comedy slasher intrisa di punk rock dove il ventinovenne Abel veste i panni di Reno, un pittore squattrinato in preda a raptus assassini che vanno a discapito dapprima dei senzatetto metropolitani, poi di un mercante d’arte colpevole di aver denigrato il bufalo che il pittore considera il proprio capolavoro, infine di un rivale vittorioso in amore, il tutto servendosi di un trapano elettrico Porto Pak da 19 dollari e 95 centesimi) e Ms .45 (‘81, distribuitoin Italia come L’angelo della vendetta, rape and revenge movie dove la diciottenne Zoë Tamerlis indossa le vesti di Thana, incantevole ragazza muta di un mutismo forse selettivo che, traumatizzata da un duplice stupro subito lo stesso giorno da parte di due diversi violentatori, si mette ad accoppare maschi a pistolettate fino a prenderci gusto, non esitando a fare a pezzi il primo della serie, ovvero il secondo violentatore, per meglio sparpagliarlo in giro per la verminosa Grande Mela). 

Zoë Tamerlis/Lund alias Thana in L’angelo della vendetta (1981) di Abel Ferrara

Dopo c’è il Ferrara che si sta perdendo e che oggi – sebbene ancora attivo e prolifico, tanto da vantare una ventina di film da Blackout in avanti – appare perduto. No, fugo subito fraintendimenti: non s’è venduto. Abel è rimasto un artista onesto e verticale. Semplicemente s’è qui spento lì sfocato. Salvo reviviscenze, ha perduto il fuoco. Meglio: la messa a fuoco della fiamma. Il Ferrara odierno ha smarrito la propria crudeltà incendiaria. Crudeltà nel senso di Antonin Artaud: «appetito di vita, rigore cosmico, necessità implacabile», «turbine di vita che squarcia le tenebre», «dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere», come Antonin scrive a Jean Paulhan in una lettera del 14 novembre 1932. Smarrendo questa crudeltà, il cineasta s’è giocato pure quell’incauto livello di scommessa morale, quella temperatura ustoria di accanimento carnal-spirituale, quel cine-duende che lo hanno reso – insieme a Quentin Tarantino, che inizia dopo di lui e gli deve parecchio – uno dei più sbaraglianti cineasti non solo statunitensi degli anni Novanta. 

Occhi di serpente è un film sulla realizzazione di un film che ci pone serissimi quesiti sulle estremità della creazione cinematografica. Fino a che punto il cineasta può esorcizzare i propri diavoli scavando nell’abisso dell’attore? Fino a che punto ne ha il diritto? Dove bisogna fermarsi e in nome di cosa bisogna fermarsi? Il patto chiaro, pur senza l’amicizia lunga, è legittimazione sufficiente? Sufficiente allo squartamento interiore che può implicare spingersi oltre il confine? Come individuare il confine tra arte e vita? Tra acting e feeling? Esiste davvero, questo confine, a un certo livello di messa in crisi? Quando il maieuta diventa stupratore? Quando la vittima carnefice? Fin dove siamo in grado di reggere, da registi e da attori, un braccio di ferro così pesante, senza che il polso si spezzi? Troveremo, schiacciati, la forza per staccarci dall’asfalto, per riprendere spessore? Se sì, dove la troveremo, questa forza, in quale remoto cantuccio propulsivo del nostro sé convulsivo? Proteggere e proteggersi sono autogol creativi? Quali assi nella manica possediamo per non uscirne dilapidati dentro? O forse, al contrario, non dovremmo ambire ad altro che a restare in mutande e allora, solo allora, rilanciare? Di quali mutande sto parlando? Di cosa spogliarsi dopo il denudamento? C’è limite alla nudità?

Potremmo, sempre interrogativamente, variare sul tema all’infinito. Occhi di serpente rappresenta un sorprendente banco di prova riflessivo per gente di cinema creativamente coinvolta, dunque per sceneggiatori, direttori della fotografia, montatori, ma soprattutto per cineasti e attori: per autori e interpreti consci della pericolosità effettiva del percorso intrapreso, se hanno avuto gli attributi per intraprenderlo body and soul.

Madonna e James Russo in Occhi di serpente (1993) di Abel Ferrara

Mi scrive Aurora Stuppia, talentosa regista in erba, dopo la visione di Occhi di serpente: «Il cinema è come un rettile squamato che striscia silenziosamente tra i viventi per iniettare un veleno che distrugge la finzione di realtà, generando una fessura abissale. Lo sguardo la percorre e, improvvisamente, ci casca dentro. C’è un momento tra la perdita di equilibrio e la caduta mortale in cui l’occhio di serpente può scorgere un bagliore di verità. Non è detto che l’occhio regga il bagliore; può succedere che diventi cieco». Il film di Abel ha suscitato in Aurora una visione che non omette di raccontarmi. Seduta sulla tazza del cesso a pisciare, la giovane donna viene violentemente penetrata da un serpente salito dallo scarico, all’improvviso. La bestia le striscia tra gli organi e Aurora muore. Quando la aprono, il rettile non c’è. L’autopsia rivela un alto tasso di veleno nel sangue. «Game over. Start again?». 

Harvey Keitel, classe 1939, interpreta il regista Eddie Israel ovvero l’alter ego di Abel Ferrara. Due dati oggettivi. Primo: il taglio e la lunghezza dei capelli di Eddie ricordano quelli di Abel, all’epoca quarantaduenne. Secondo: la moglie di Eddie è, fuori dal set, l’allora moglie del cineasta, Nancy Ferrara. Più chiaro di così. Il resto è una calata maelstromica nell’anima del filmmaker per interposto corpo, il corpo taurino del marine ebreo di Brooklyn svezzato filmicamente da Martin Scorsese, dopo una comparsata per John Huston nemmeno accreditata: Harvey “Mean Steets” Keitel. Gli attori che Keitel/Israel spinge oltre la soglia del suo controllo e del loro autocontrollo sono Madonna e James Russo: né l’una né l’altro saranno più sullo schermo, neanche alla lontana, serviti così bene, così veracemente spaccati e conditi, così memorabilmente crudi.

Lo sceneggiatore di Occhi di serpente è Nicholas St. John – al secolo Nicodemo Oliverio – americano con sangue calabro-campano la cui scrittura assiste Ferrara fin dal primo corto (Nicky’s Film, ‘71) e dal primo lungo (9 Lives of a Wet Pussy, ‘76), un porno in parte leggibile quale saggio sull’incapacità di raggiungere un’erezione soddisfacente da parte di un cast maschile dedito a eccessi non solo sessuali. Dopo aver realizzato la loro più alta tragedia in forma filmica – Fratelli, titolo originale: The Funeral – Nicky e Abel hanno posto fine al sodalizio creativo e amen. Le cose pazzesche fatte insieme erano «abbastanza», così hanno deciso o almeno così ce la racconta Ferrara. Collaboravano fin da sedicenni.

Nine Lives of a Wet Pussy (1976) di Abel Ferrara

Nei primi anni Duemila lo strenuamente cattolico Nicholas St. John lavorò con quell’occhio di lince di Nicolas “Bronson” Refn alla sceneggiatura di Billy’s People, progetto che non avrebbe visto la luce, probabilmente travolto dal flop di Fear X (‘03), esordio refniano in lingua inglese, interpretato da John Turturro e scritto da quell’altra penna scottante di Hubert Selby Jr, il romanziere di Ultima uscita per Brooklyn (‘64). Non sappiamo cosa n’è stato di St. John in seguito. Qualcuno, qualche lustro fa, mi raccontò che lo sceneggiatore s’era messo a insegnare Religione agli adolescenti in una scuola della periferia newyorkese. Non ho avuto occasione di verificare ma è uno scenario che mi piace immaginare nonché uno scénario – parola francese che, pronunciata con la o accentata, significa sceneggiatura – che non fa una piega.

Sappiamo però cosa n’è stato di Abel, una volta elaborato il lutto per la perdita di Nicholas, di Abel senza quel dilacerato generatore di una scrittura per il cinema che connette immanenza e trascendenza, le connette al nervo sensibile, senza quell’inventore insostituibile di sacre rappresentazioni magistralmente inscenate dall’amico di lunga data, senza quel distillato di acqua santa ad altissima gradazione. Già, lo sappiamo: senza John, che è decisamente Abele in un gioco ideale delle parti, quel Caino di Abel s’è annacquato. Ahinòi: è come se qualcosa in Ferrara, tra la vocazione e il talento, fosse collassato.

Blackout, pur essendo il primo film dopo la rottura tra Abel e Nicky, è ancora pregno dell’energia delle loro collaborazioni più risolte. Di queste possiede le cuspidi, gli abbacinamenti, la pervicacia nello scorticamento dell’anima del protagonista. A interpretarlo è un Matthew Modine, cui calza a pennello il ruolo del divo maledetto Matty. Blackout scava nel marcio della Fabbrica dei Sogni per restituirci, con foga tipicamente ferrariana, il Dark Side della Celebrity. Blackout è un impietoso controcampo dello Star System e della sua Dolce (si fa per dire) Vita: un controcampo (con l’attore in primo piano) il cui campo (con il regista in primissimo piano) è Occhi di serpente. I Players di questo dittico dannato sono vampiri (di sé e degli altri) non meno dei vampiri (conclamati) di The Addiction. 

Synecdoche Hollywood, potremmo dire. La sineddoche è la figura retorica che indica la parte per il tutto e Hollywood – in questa doppia sineddoche – è una bat-voliera, una coltivazione di sanguisughe, un gioco al massacro e all’automassacro, un’arena emblematica di una bruttezza interiore che fa atroce mostra di sé, un restyling flagellatorio. Indossiamo occhiali da sole «perché sappiamo quanto ognuno di noi sia brutto», afferma Madonna in qualità di superstar in Occhi di serpente, presupponendo che gli occhi siano la prima cosa che si suol dire di essi: lo specchio dell’anima. È pertanto in ragione della nostra bruttezza interiore che gli occhi vanno coperti con lenti rigorosamente scure, vanno coperti come gli specchi nelle case dei vampiri, siano essi domiciliati in Transilvania o a Brooklyn. The Mother of Mirrors – La madre degli specchi – è il titolo eloquente del film dentro quel film che è Occhi di serpente.

Ma è davvero questa la parola giusta: bruttezza?

Dennis Hopper e Matthew Modine in Blackout (1997) di Abel Ferrara

L’unico altro film di Ferrara senza St. John – tra quelli finora citati – è Il cattivo tenente. A indossare i panni affumicati di crack del Tenente è un Keitel nel suo ruolo più archetipico per non dire mitologico, quello più umano-troppo-umano di un umano scolato fino alla feccia, disperato. Afferma Martin “Raging Bull” Scorsese in un’intervista del 1996 apparsa sul numero 500 dei “Cahiers du cinéma”: «Secondo me è uno dei più grandi film sulla redenzione mai realizzati… Fin dove siamo pronti a scendere per trovarla…». Intima il cineasta: «Se avete abbastanza fegato, seguite il personaggio, fino al termine della notte». Avete abbastanza fegato?

Scorsese menziona diverse scene folgoratorie di questo film folgorante: il Tenente che si buca con una ragazza «che è chiaramente una tossicodipendente»; il Tenente che balla con due donne e, dopo lo stacco, eccolo nudo sbronzo strippato, «come in trance»; «la sequenza del confronto con Gesù nella chiesa». Soprattutto quest’ultima colpisce Scorsese: il Tenente che s’imbatte nel Redentore appena sceso dalla Croce e gli chiede perdono; il Tenente che incespica e ulula e digrigna i denti al cospetto del Cristo dell’Annunciazione; il Tenente che gli chiede perdono standosene lì come l’ultimo degli uomini, come un fottuto coglione piagnucolante; il Tenente «sconvolto e perso e pietoso e magnifico e bambinesco», con cinque aggettivi che gli riserva un altro commosso spettatore d’eccezione, quel cineasta oscuramente luminoso di Philippe “Sombre” Grandrieux. Personalmente, il Tenente di Keitel è l’unico altro sbirro che mi sento di accostare, senza vederlo sfigurare, al Capitano interpretato da Orson Welles nell’Infernale Quinlan (‘58). Devo aggiungere altro?

Marty ammette di aver cercato di fare qualcosa del genere con L’ultima tentazione di Cristo (‘88) – di aver desiderato che il suo Nuovo Testamento somigliasse al Cattivo tenente – e riconosce di non esserci riuscito, di essere rimasto al di sotto della Passione secondo Ferrara, uscita tre anni dopo la sua. Non escluderei che il malandrino del Bronx si sia nutrito del parziale fallimento del dichiarato maestro di Little Italy per raddrizzare il tiro e alzare la posta in gioco. 

Per inciso: sapete chi è il Giuda Iscariota dell’Ultima tentazione? Ebbene: quell’ebreo mezzo rumeno e mezzo polacco di Keitel. Scorsese ci aiuta a unire i puntini precisando con riferimento al Cattivo tenente: «rappresenta per Harvey quello che ha cercato per tutta la vita». Compito a casa: ripercorrete la filmografia keiteliana alla luce di questo input scorsesiano. Sarà una serpentina stimolante.

Il cattivo tenente (1992) di Abel Ferrara

Il cattivo tenente è dunque un film chiave non solo della filmografia di Ferrara. A sceneggiarlo, insieme al regista, è Zoë Lund che nel film recita pure, interpretando la «tossicodipendente» menzionata da Scorsese. Zoë è la compagna di sballo del Tenente e – mentre gli fa una pera – proferisce dal fuoricampo un monologo da pelle d’oca di cui trascrivo qualche passaggio: «I vampiri sono fortunati, si nutrono degli esseri che trovano. Noi invece divoriamo noi stessi. […] Dobbiamo succhiarci fino in fondo, divorarci da soli, finché non ci resta altro che la fame. Noi diamo e diamo e diamo, come pazzi. Non credo che tutto questo abbia senso». Da cui alcune domande. Come placare o perlomeno attenuare la nostra fame insaziabile? Come fermarci prima di arrivare al midollo e fare con noi stessi quello che facciamo con l’ossobuco? Come sfangarla nell’astrusità del mondo? 

La Zoë Lund sceneggiatrice del Cattivo tenente è la Zoë Tamerlis attrice di Miss .45 che ha scelto di usare il cognome dell’uomo che ha sposato nell’86, Robert Lund. Nata a New York City nel ‘62 con origini svedesi e rumene, Zoë è morta a Parigi nel ‘99, «uccisa dalla droga», commenta Ferrara, che durante le riprese del Tenente si faceva insieme a lei. Oltre che splendida – raro trovare due occhi così sopra una bocca così – la «Nastassja Kinski americana» (“Variety”) ebbe stile e idee controcorrente, fu un’attivista schierata contro il nucleare e un’animalista installata in un appartamento brulicante di topi domestici. A quattro mani con Ferrara buttò giù una prima stesura di New Rose Hotel (che ripensato apparve nel ‘98 senza Zoë nei credits) e col medesimo lavorò al progetto Pasolini (che divenuto altro uscì nel 2014 con Willem Dafoe protagonista), sul presupposto che sarebbe stata proprio lei, Ms Lund, a interpretare Pier Paolo, a incarnare il cineasta di Salò o le 120 giornate di Sodoma.

Zoë Tamerlis/Lund in L’angelo della vendetta

Prima di crepare a soli trentasette anni per un infarto causato da un’overdose di cocaina, Zoë Lund ha lavorato a una sceneggiatura su John Holmes, personaggio che in questa sede merita un indugio. John Holmes: nome di battaglia Johnny Wadd, conosciuto come Mister 33 o 35 o perfino 38, centimetro più centimetro meno, leggendario porno-imperatore nonché drogato marcio e avanzo di galera, prostituto e pappone, spacciatore e frodatore, ladruncolo e rapinatore. Il suo cursus honorum deviante è culminato nell’81 a Los Angeles con l’implicazione nel «Massacro di Wonderland Avenue», uno dei più celebri pluriomicidi della storia del crimine americano, quattro persone massacrate a sprangate e una scena criminis con le impronte digitali di John Holmes. 

Della storiaccia esistono ricostruzioni, documentari, trasposizioni cinematografiche, veritiere e fantasiose. Questo talismano non è luogo per entrarci nel merito. Basti dire che il performer si era messo con gente davvero brutta tra cui il famigerato narcos palestinese Adel Gharib Nasrallah noto come Eddie Nash e che – durante l’interrogatorio, terrorizzato dalle ritorsioni – non si sbottonò, furono informazioni innocue quelle che rilasciò. In attesa del processo, non potendo pagare la cauzione, l’Elvis Presley del Porno si sciroppò sei amari mesi di carcere nel corso dei quali divenne lo stallone fustigatore dei secondini. In pratica, John aveva l’ingrato compito d’incularsi i detenuti che non filavano dritti coi suoi trentacinque centimetri (optando per una misura intermedia) di attrezzo in offensiva tensione muscolare. Infine venne assolto dall’accusa di omicidio ma si beccò l’Aids di cui crepò nell’88, a quarantaquattro anni. Sui turpi fatti di Wonderland continuò a non fiatare. Né prima né durante né dopo il processo.

Magrissimo, prosciugato, John Holmes lavorò nell’industria pornografica finché riuscì a darci dentro nella cosa che gli veniva meglio e immaginate le difficoltà a mantenere un turgore dignitoso per un organismo debilitato come il suo. John si spremette finché di lui non restò altro che un pisellone molle, trovando inopportuno comunicare la propria sieropositività alle colleghe e di basso profilo usare profilattici, finendo per farsi artefice di non pochi snuff a finalizzazione differita, tramutando cioè in strumento di morte il rinomato uccellaccio di bosco e all’occorrenza di riviera, concludendo così la sua rocambolesca carriera tra Eros e Thanatos con l’approdo allo status di untore seriale per non dire di serial killer di fatto, driller killer sotto esauste spoglie trapanatorie. Prossimo alla rottamazione, nell’87 ruzzolò in Italia e performò con Cicciolina in Carne bollente di Riccardo Schicchi, l’ultimo titolo del fu stallone insieme a Supermaschio per mogli viziose di Giorgio Strand, due pornazzi girati praticamente in simultanea. Al quel punto della sua storia, per fortuna del futuro deputato Ilona Staller, Holmes era messo così male da dover usare una controfigura per le scene in dettaglio. L’impotentia coeundi del cicciolino John le ha salvato la vita.

Nel ‘98 appare Porn King ovvero L’autobiografia del più grande attore hard, come recita il sottotitolo dell’edizione italiana. John Holmes fu in grado di scriverla finché assieme all’Aids, diagnosticato nell’86, arrivò l’encefalite. La curatela, con l’aggiunta del triste epilogo, è opera dell’ultima moglie, la pornoattrice Laurie Rose, nome di battaglia Misty Dawn. Porn King è un memoriale avvincente nella sua integralità, un libro a cazzo dritto che consiglio ai lettori più irredenti e/o esigenti, non solo a porno estimatori e/o dipendenti. Un anno prima, nel ‘97, era uscito Boogie Nights, film dinamite liberamente ispirato alla parabola holmesiana, diretto da Paul Thomas Anderson e interpretato da Mark Walberg alias Eddie Adams alias Dirk Diggler. Nel 2003, più fedelmente ma meno brillantemente, sarà l’acerbo James Cox a lanciarsi sul seminato caliente con Wonderland, dove tocca a Val Kilmer – già Jim Morrison per Oliver Stone – infilarsi nei boxer sformati del Re del Porno.

Pensate un po’: nella sceneggiatura di Zoë “Ms .45” Lund su John “Mr .35” Holmes c’era anche lo zampino di Christopher Walken. Christopher “The King of New York” Walken: il principe delle notti vampire e gangster di Abel Ferrara, il suo Nosferatu Novanta all’occorrenza glaciale o ballerino, il suo Gene Kelly luciferino, la sua Renée Falconetti (ovvero la Giovanna D’Arco di Dreyer) scesa dal rogo (con un paragone gender fluid di Pauline Kael, autorevole critica del “New Yorker”), il corpo apollineo per eccellenza di Abel (almeno quanto il suo corpo dionisiaco è Keitel). Va da sé che siffatto cosceneggiatore non si sarebbe fermato alla scrittura: davanti alla cinepresa avrebbe vestito e svestito gli indumenti pregni di femminei umori di John Holmes. 

Chris s’era letteralmente fissato col progetto e sarebbe interessante capire fino a che punto si fosse immedesimato in John, anche alla luce delle evidenti somiglianze fisionomiche e fisiche, se non altro dalla cintola in su, somiglianze per convincersi delle quali basta accostare un paio di foto – se non a caso, quasi – dei due performer trentenni e baffuti. Essendo il divo hollywoodiano (1943) di un anno più vecchio del pornostar (1944) – e volgendo all’epoca del progetto verso la boa dei cinquanta – è lecito supporre che quello di Walken sarebbe stato un Holmes terminale. E mi sembra persino pleonastico esplicitare chi avrebbe dovuto dirigere questa pellicola – sulla carta, considerati i coinvolti – da far schizzare gli occhi fuori dalle orbite. Ci pensate? Ferrara + Lund + Walken x Holmes = che film pauroso ci siamo persi!

John Holmes e Christopher Walken negli anni Settanta

Sono partito per la tangente, chiedo scusa e torno sulla carreggiata di Occhi di serpente. Metalinguaggio? Sì e no. Ferrara non gioca godardianamente col dispositivo che svela il dispositivo, nel senso che non fa metalinguaggio nella sua accezione intelligente. Lo fa a modo suo, spericolatamente, ficcandosi insieme agli attori nella macchina cinema vita e poi attivandola, questa ruota dentata, quanto basta per tirarci dentro, per stritolarci insieme a lui e insieme a loro. Avete presente la levità solare e l’amore mozartianamente ricambiato per il cinema che sprizza da Effetto notte (‘73) di François Truffaut? Ditegli ciao. È come paragonare Candy Candy all’Esorcista e il film di Abel non è Candy Candy

Con Occhi di serpente siamo piuttosto dalle parti di Nick’s Movie, da non confondersi con Nicky’s Film, il citato corto della premiata ditta Ferrara St. John. Siamo cioè dalle parti dell’opera in cui Wim Wenders filma l’agonia di Nicholas “Bigger than Life” Ray sbranato da un cancro ai polmoni. L’opera terribile e commossa in cui Wim – reduce dall’Amico americano (‘77) dove Nick è attore – dice addio al maestro americano che prima dell’ultimo ciak muore davvero, il 16 giugno ‘79 per la precisione. Presentato a Cannes nel maggio dell’80, Nick’s Movie è una matrioska documentaria accostabile a quella matrioska narrativa che è Occhi di serpente. Accostabile, in prima battuta, per l’urgenza di veracità che guida l’occhio inquieto dei rispettivi registi nonché per la spudoratezza nel sollevare sia i veli della finzione cinematografica (Occhi di serpente) sia le tende di quell’altra forma di rappresentazione che chiamiamo realtà (Nick’s Movie), senza timore di fissare di entrambe le più impantananti, le più buie cavità. 

L’accostamento tra le due opere è altresì per dire altrimenti – analogicamente – che è notte in questo Ferrara com’è notte in quel Wenders. È sempre notte nel miglior Ferrara, anche di giorno, la dura notte dell’anima lasciata sola con se stessa. È notte fonda e noi ci ritroviamo su un Monte Calvo di celluloide, senza bussola né mollichine di pane da seguire a ritroso. È mezzanotte e noi, infreddoliti e spaesati, siamo in balia di streghe che per perfidia oracolare non sfigurano accanto alle vecchiacce del Macbeth.

Nicholas Ray in Nick’s Movie (1980) di Wim Wenders

Occhi di serpente è un film sulla dipendenza, sulla debolezza, sulla deriva, sulla ricerca spirituale attraverso la perdizione, sulla necessità dell’abisso, sulle virtù del vizio, sulla disperazione e sulla dispersione, sulla dissolutezza e sulla dissoluzione quali vie della riconciliazione. È un film sul fin-dove-siamo-disposti-a-scendere per trovare la redenzione o il riscatto o la ricompensa o la trasformazione nobilitante o come cazzo vogliamo chiamare quella medaglia da conficcare nella carne del petto dei nostri sforzi più squassanti. È un film sul fatto che ogni uomo uccide – vi tende e, se non lo uccide, ferisce – quel che ama. Un film che ci costringe a pensare al grande amore cui abbiamo spezzato l’osso del collo o abbiamo sparato in fronte. Un film sul grande amore che abbiamo avvelenato lentamente per goderci lo spettacolo dei rantoli sulla moquette del soggiorno, della bile vomitata sopra gli aloni delle sborrate fedifraghe. Occhi di serpente è il film di un palombaro dell’abisso a misura di palombari dell’abisso o aspiranti tali.

Non pochi critici hanno rimproverato a Ferrara di citarsi addosso, facendo rifare a Keitel Regista quel che fa Keitel Tenente nella sua trance sballereccia e nel tête-à-tête con Cristo. L’area filmica incriminata di Occhi di serpente èquella dove il Regista sprofonda nel proprio inferno da camera, devastato come il Crocifisso, retroilluminato come il Trasfigurato. Sebbene si dovrebbe parlare di coerente rielaborazione di una fondante ossessione, più che liquidare la sequenza come mera autocitazione, è difficile negare che un pizzico di maniera lo si avverta nella gestione figurale della dannazione d’appartamento del Regista. Tuttavia, è marcata la genuinità delle intenzioni e soprattutto c’è ancora potenza da vendere, c’è ancora maestria da far fremere, senza contare che quanto segue è così sbalorditivo da rendere quel peccatore impenitente di Abel meritevole di ogni indulgenza. 

Harvey Keitel alias Eddie Israel in Occhi di serpente

Quanto segue è Eddie Israel sfasciato. Ha fatto casino sul set, ha messo in ginocchio il proprio matrimonio, il cavallo imbizzarrito della vita lo ha disarcionato e noi lo vediamo tentonare in una danger zone doveanche i più solidi sbarellano. Un codice rosso è in corso: Eddie è in corto. Schiantato sul divano, affiancato da un’hostess di fresco rimorchio che lo scruta tra il perplesso e il costernato, il regista se ne sta impallato davanti al televisore, con un’espressione tra il catatonico e il decerebrato. Quale visione calamita il regista Israel ovvero Ferrara incarnato in Keitel? Quale visione lo assorbe proiettandolo altrove? Ordunque: Werner Herzog. 

Proprio così: Eddie Israel è incantato davanti al primo piano di Werner Herzog quarantunenne in Amazzonia durante le riprese di Fitzcarraldo (‘82), il Moby Dick del funambolico cineasta di Monaco, monster movie che annovera svariati feriti e un paio di morti in corso di gestazione, avventura limite che titanicamente fa il paio con Apocalypse Now (‘79) di Francis Ford Coppola, il quale in principio voleva produrre con la sua American Zoetrope la follia del Tedesco. La scheggia proviene da Burden of Dreams, ildocumentario di Les Blank sulla lavorazione di Fitzcarraldo, irrompe a schermo pieno o (col gergo dei grafici) “al vivo” e – come un uncino infetto – aggancia la carne viva del protagonista, spappola quella frittella che è il suo cervello.

Ricapitolando: rantolando sul fondo, Israel/Keitel/Ferrara s’immedesima in Herzog al culmine della disillusione, in procinto di mandare a segno la sua più erculea fatica cinematografica, Herzog quarantenne come il Ferrara di Occhi di serpente. Variando: Abel via Harvey si proietta in Werner che in barca – col suo seducente e oramai proverbiale inglese metallico – parla della follia del mestiere del regista, del fatto che dovrebbe decidersi a smettere di fare film («it’s not what a man should do in his life») per rinchiudersi in un manicomio («into a lunatic asylum») e d’urgenza. 

Herzog è lucido. Una nave deve valicare una montagna passando da un fiume a un altro, da Río Camisea a Río Urubamba. Trecentoquaranta tonnellate d’imbarcazione vanno trascinate da seicento indios mediante un sistema di carrucole per un chilometro in salita con una pendenza del sessanta percento ridotta al quaranta: un evento senza precedenti nella storia della tecnica. Herzog è lucido sul fatto che potrà pure portarcela quella nave insanguinata sopra la montagna, che il mondo potrà pure lodarlo e acclamarlo per l’impresa (e noi sappiamo che ce la farà e che il mondo lo loderà), ma niente e nessuno riusciranno a farlo sentire felice per il conseguimento. Realmente felice: supererà sempre le sue forze allontanare da sé la propria velenosissima Idra intima, quel senso di divorante insoddisfazione-malgrado-tutto, l’avvilente contraccolpo di quell’inutile che ogni artista – in un modo o nell’altro – deve conquistare

Non mi stupirebbe che qualcuno, anche tra i più arguti di voi, si fosse appena stranito. Conquistare l’inutile? Per quale bislacco motivo chiunque sia dotato di un briciolo di salute mentale dovrebbe imbarcarsi in un’impresa così dichiaratamente inane? 

Prendo la rincorsa con due rilievi testuali. Primo: La conquista dell’inutile è il titolo che Herzog ha scelto per il diario di bordo di Fitzcarraldo, un libro travolgente non meno della pellicola, edito per la prima volta nel 2004, ovvero ventidue anni dopo la stesura, e scritto a mano con una grafia minuscola, ai limiti dell’indecifrabile, come racconta Claudia Cardinale, adorabile nelle bianche vesti di Molly, maîtresse dal cuore d’oro che batte per Brian Sweeny Fitzgerald detto Fitzcarraldo, personaggio che rappresenta l’apoteosi cinematografica nonché iconografica di Klaus Kinski (Claudia ce lo racconta nel documentario del ‘99 dedicato Herzog alla memoria dell’insuperato e insopportabile protagonista herzoghiano, Kinski. Il mio nemico più caro). Secondo: «Io sono un Conquistatore dell’Inutile», afferma il cineasta in un altro volume prezioso, Incontri alla fine del mondo. Conversazioni tra cinema e vita (curato di Paul Cronin e godibile dal 2009 in italiano nella traduzione del filosofo Francesco Cattaneo). Fine della rincorsa.

Keitel/Israel davanti a Werner Herzog (l’estratto viene dal documentario di Les Blank del 1982 Burden of Dreams) in Occhi di serpente

Herzog Conquistatore dell’Inutile è un’immagine romanticamente inebriante ed enigmatica, non c’è che dire, ma cosa vuol dire, concretamente, conquistare l’inutile? Nel finale del libro del 2004 il cineasta non tace in cosa consista – almeno nel suo caso – la conquista. Mercoledì 4 novembre 1981 la montagna amazzonica è valicata, la nave tocca le acque dell’Urubamba, le cineprese immortalano l’evento, lo cristallizzano indelebilmente nel nostro immaginario. Il cineasta mette agli atti: «io vi ho preso parte». La conquista non contempla né dolore né gioia né rilassamento. Neanche un suono. Nemmeno un respiro di sollievo. Conquistare «la grande inutilità», conquistarla artisticamente, significa capirla. Capirla, punto. Di film in film, di libro in libro. Il resto è contorno. 

Per dirla in prima persona, «il fatto di capire» vuol dire «più precisamente»: «io ero solo penetrato più profondamente nel suo misterioso regno»: nel misterioso regno dell’Inutile. L’Inutile da conquistare comprendendolo (e) penetrandolo – l’Inutile secondo Herzog – è qualcosa come il punto di (estatica) conflagrazione tra il Nonsenso (o Assurdo) cosmico e l’Eccedente (necessariamente) sottratto alla logica (servile) dell’Utile. 

«Burden of Dreams»: è innegabile che i sogni siano un fardello, forse il più gravoso, forse il più sbalestrante dei fardelli. Sono passati quarant’anni da Fitzcarraldo e Werner Herzog continua a rifulgere quale pietra di paragone per ogni cineasta che non indietreggi davanti ai propri sogni più azzardosi, pietra di paragone e pietra di affilatura per ogni cineasta che si accolli fino alle estreme conseguenze il lacerante fardello dei sogni, pietra di paragone e pietra di affilatura e pietra focaia per ogni cineasta che non tema di giocare col fuoco a costo di finire arrosto, e non per vocazione suicidale, bensì per guadagnarsi una chance: la chance che il pericolo esperito in produzione si trasfonda in quel che ogni film bigger than cinema ambisce a essere: una visione senza rete di protezione. 

Ho scritto «Werner Herzog» intendendo: quell’Herzog, ovvero l’Herzog che con Fitzcarraldo raggiunge l’Everest di un’idea di cinema che muove i primi passi già negli anni Sessanta e ci dona vette impressionanti fin negli anni Duemila. Intendo «quell’Herzog» nella misura in cui il sempre venerando Herzog degli ultimi lustri ha perduto quella componente di equilibrismo corpanimale, nel senso sia dell’anima sia dell’animale, quella miscela parossistica di atletica ed estetica, quella mistica del rischio che lo hanno reso ai nostri occhi Werner “Furore di Dio” Herzog.

Fitzcarraldo (1982) di Werner Herzog

Occhi di serpente: dopo la pistolettata herzoghiana (metaforicamente parlando), la pellicola ci riserva giusto l’inquadratura del Regista svenuto accanto alla tazza del cesso vomitata, prima di condurci dritti alla pistolettata finale (letteralmente parlando). E la domanda è: le spara sul serio? Espando: posto che siamo sul set del film nel film (La madre degli specchi), dove c’è un marito punta la pistola contro la moglie, costui le spara sul serio in fronte nella realtà (per così dire) del film contenitore (Occhi di serpente)? Come dire: lo snuff movie resta in potenza o si traduce in atto (diegeticamente parlando)? Mettetevi l’anima in pace: la domanda non può approdare né a un sì né a un no.

L’epilogo di Occhi di serpente è indecidibile, scientemente, e aperto ma non come una finestra, piuttosto come una ferita immedicabile, marcescente. La messa in abisso del dispositivo è voraginosa e vertiginosamente conferma l’assunto talismanico: «Ogni film è potenzialmente uno snuff movie, nel senso il pericolo è sempre presente sul set, durante le riprese». Il pericolo è stato presente eccome sul set di Occhi di serpente e l’illiquidabilità del finale col botto, il suo restarci sullo stomaco, sta nella cogenza dell’avverbio che sospende sull’attuazione – come una tremula mannaia – l’esito estremo della violenza: «potenzialmente». Per cui la vera domanda non è tanto: le spara sul serio? La vera domanda è: quanto Ferrara, quanto Keitel, quanto Madonna, quanto Russo hanno rischiato di frantumarsi. Ma neppure questa domanda trova una risposta univoca in cui placarsi.

Madonna in Occhi di serpente

Il fitz-frammento innestato nel pre-epilogo di Occhi di serpente è uno dei più vibranti omaggi resi da un regista a un altro regista all’interno di una propria opera, restando nel pantheon degli stili di volontà radicale, dove cioè orbitano Herzog e Ferrara. E sapete come ha ricambiato, tre lustri dopo, l’autore di Cuore di vetro e Grido di pietra? Rifacendo un remake del Cattivo tenente

Wow, missile herzoghiano con vettore ferrariano, apriti cielo, direte voi. In verità, più che un missile, quello di Werner è un bengala inesploso, ho l’ingrato compito di dirvi io. Uscito nel 2009, Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans è un film goffo e sfibrato, devitalizzato quanto l’originale è un nervo scoperto e strillante. Il tenente variato è un Nicholas Cage avariato, involontariamente grottesco, spompato, inaccostabile allo sbirro marcio e inabissato di Keitel. Atto d’amore non assistito dal talento d’un tempo, supporrete voi? Tutt’altro, purtroppo, devo nuovamente disilludervi io. E qui viene la parte davvero imbarazzante. 

Sebbene lo veda anche un cieco che è un remake, Herzog non ha perso occasione per dichiarare che il suo Tenente non lo è – un rifacimento – e per sostenere di essersi basato esclusivamente sulla sceneggiatura (con ogni evidenza plagiaria) di (quel modesto mestierante di) William M. Finkelstein. Non è finita. Colmo della beffa, Werner s’è premurato di aggiungere: «Who’s Abel Ferrara?». Dal canto suo Abel, che tutto è fuorché un campione di fioretto, venuto al corrente dello sprezzante scippo in corso, non ha mancato di fare gli auguri al collega crucco alla sua crew, mandando loro a dire: «Spero che quella gente muoia all’inferno. Spero che si trovino tutti nello stesso tram ed esploda». Su questo set di Herzog non è morto nessuno, almeno che si sappia. L’unico cadavere della scorribanda a New Orleans ci risulta essere il lungometraggio. A ogni modo, stenderei sul battibecco non proprio di alto profilo un sudario pietoso.

Zoë Lund e Harvey Keitel nel Cattivo tenente

«Tutto è giocattolo», afferma Macbeth, in caduta libera nella spirale del delitto. Tutto è giocattolo, fidiamoci di Shakespeare. Tutto è giocattolo, oltrepassate le linee da cui non si torna indietro: la linea del sangue, certo, ma anche la linea della consapevolezza. La consapevolezza della grande inutilità. La consapevolezza dell’insensatezza cosmica. Insensatezza: pur ammettendo che un senso generale non sia escludibile, bisogna fare i conti con un dato di fatto: esorbita la nostra portata coglierlo, questo senso almeno planetario se non universale, la nostra portata di esseri umani: esseri umani che si rapportano alla Creazione come uno scimpanzé a una cattedrale gotica.

Tutto è giocattolo, diamolo per assodato, ma ci sono giocattoli e giocattoli. È un giocattolo il crocifisso con cui viene violata la suora nel Cattivo Tenente di Ferrara com’è un giocattolo il crocifisso con cui viene stuprato Don Aminado, «il topo della Chiesa» che gode mentre viene abusato, nel romanzo Storia dell’occhio, scritto nel 1928 da Georges Bataille, il non-solo-filosofo-nemico-della-convenienza-e-della-continenza. È un giocattolo la pistola a salve con cui James Russo spara a Madonna in Occhi di serpente (che in quanto film è anch’esso un giocattolo) com’è un giocattolo la pistola con proiettili veri con cui Alec Baldwin nell’ottobre 2021 ammazza incidentalmente la direttrice della fotografia Halyna Hutchins sul set di Rust (che un giocattolo, se terminato, lo sarebbe stato a sua volta). Sono giocattoli, okay, queste pistole di scena come quei crocifissi di sfondamento, ma che razza di giocattoli sono? E il cinema, a monte, ma pure a valle, che razza di giocattolo è?

Camera oscura e camera ardente, il cinema può essere tanto un giocattolo morto quanto un giocattolo vivo. Dipende dall’autore, ammesso che chi gioca sia un autore. Il cinema può essere vivo come il giocattolo del bambino povero nel poemetto in prosa di Baudelaire: un topo vivo, un giocattolo prelevato dalla vita stessa. Già, un film può esserlo veramente, un topo vivo. Vivo come il topo che il libertino di Sade fa cucire nella vulva della suppliziata viva. Vivo come Josephine, la supertopa canterina del racconto omonimo di Kafka. Vivo come Pepe el Tira, il nipote di Josephine, detective delle fogne protagonista di un racconto dove il morituro Bolaño prende mosse e squittii dal racconto dell’immortale Praghese che ha per protagonista la zia di Pepe. Vivo come il piccolo rosicchiatore di uno struggente frammento ancora kafkiano che, vi sembrerà strano, mi fa pensare ad Abel Ferrara: Quando il topino, amato come nessun altro. 

Una notte il topino, attirato dal pezzetto di lardo, finisce in trappola e – «stridendo disperatamente» – muore col ferro nella nuca e le zampette rosa schiacciate. Gli altri topi dapprima tremano allo spettacolo di quella fine truculenta. Poi, esitando e dandosi spinte, escono dai buchi e si spingono – «affascinati» – verso il luogo di morte. 

E noi dove stiamo? A rabbrividire nelle tane? A guardare eccitati? A sacrificarci per un pezzetto di lardo il cui nome è bellezza? 

Ma è davvero questo il nome giusto: bellezza?

Game over? Let’s start again…

Abel Ferrara alias Reno nel suo Driller Killer (1979)

In copertina: Abel Ferrara alias Reno nel suo Driller Killer (1979)

è scrittore e cineasta. Libri recenti: "Ultraporno" (2021), "La mano bruciata. Scrittori, pittori, elezioni" (2021), "Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista" (2020), "Nella grande sconfitta c’è la grande umanità" (con Michael Fitzgerald, 2020), "Mal di fuoco" (2016). Tra i film realizzati con Fabio Badolato (insieme sono la BaCo Productions): "Sbundo" (2020), "La lucina" (2018), "Il firmamento" (2012), "Beira Mar" (2010), "Le Corbusier in Calabria" (2009), "Jazz Confusion" (2006). Nel 2009 ha fondato le riviste "Rifrazioni. Dal cinema all’oltre" e "Rivista". Attualmente è redattore del "Primo amore" e collabora con "Antinomie". Insegna "Regia: poetiche e pratiche del cinema" presso la Scuola d'Arte Cinematografica Florestano Vancini a Ferrara e vive a Bologna.

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