La fotografia come medium estendibile

02/05/2022

Nel film Cuore di vetro (1976) di Werner Herzog, le visioni raccontate dal veggente Hias sono dentro un’atmosfera sospesa, dove le immagini si confondono nell’immaginifico: la narrazione onirica diviene realtà e la realtà è forse parte di un sogno. Il racconto per immagini è pervaso da trance ipnotica, visionaria, sempre in bilico tra visibile e invisibile, tra scene del quotidiano e proiezioni immaginative che potrebbero succedere più in là nel tempo, come presagito dalle visioni del protagonista del film. Matthias (Hias) è un pastore eremita che vive alla fine del XVIII secolo nelle alte foreste bavaresi, con il dono della preveggenza. Il suo sguardo si rivolge oltre, verso ciò che tutti gli altri non sanno immaginare. Herzog fa agire in contemporanea due linguaggi: la voce racconta in tempo reale le immagini che il regista mostra agli spettatori. Il Tiresia del villaggio bavarese, sebbene sia avvolto dalle brume dell’indistinto, riesce a dissipare la foschia osservando ciò che si nasconde nel vapore acqueo che avvolge il paesaggio visibile. Da dove giungono le immagini veicolate dalle visioni? Come si apprende l’arte della visione? La visione è diversa dal linguaggio e funziona come messaggio senza codice?[1]

Werner Herzog, Herz aus Glas, 1976

Nel 1709, il vescovo di Berkeley afferma che la visione è un linguaggio universale, e non un linguaggio nazionale o locale[2]. È probabile che anche le visioni siano costruzioni simboliche, e sebbene si possano considerare un linguaggio universale sono veicolabili da veggente a veggente, solo attraverso un codice e un’arte imparati per via iniziatica o per talento naturale. Le visioni enigmatiche vanno oltre i sistemi di codici che si frappongono tra noi e il mondo? Condurre immagini tramite il medium della visione è forse un’abilità che va oltre l’apprendimento o l’iniziazione. Qui si va al di là del concetto di visione inteso come attività culturale e si entra forse nella sfera del meccanismo sensitivo o ultrasensoriale.

L’immagine che vediamo è sempre lo specchio di qualcosa che già possediamo[3] nella nostra mente? Cosa sta tra noto e non noto, fra visibile e invisibile, fra immagine e figura, tra corpo e simulacro? Per i cristiani l’incarnazione del Verbo, divino e invisibile, avviene nel figlio visibile. E per la Natura? Ogni giorno il mistero della vita pulsa negli esseri animali, vegetali, minerali. E pure l’azione indifferente e democratica della morte e della fine pulsa in ogni essere che è venuto al mondo. Quindi cosa è veramente una immagine? Agostino si figura una interessante lettura: “Si chiama immagine una tavola e ciò che è dipinto sulla tavola, ma è a causa della pittura che ricopre la tavola che quest’ultima si può chiamare immagine”. La pittura trasforma in immagine anche qualcosa che in realtà non si lascia facilmente mostrare? A prescindere dal mostrare e dal tradurre con un medium l’immaginabile, resta il fatto che la sfera dell’evocativo aleggia da millenni nel nostro mondo. Secondo Rilke, il segreto della poesia consiste nel mettere in parola ciò che altrimenti si perde in muta esistenza.

Adam Curtis, Can’t Get You Out of My Head, 2021, courtesy of the BBC

E il segreto del fotografico quale è (quale è stato e quale sarà)? Mettere in immagine ciò che altrimenti rimane celato nel mondo? Il medium della fotografia è stato uno strumento efficace per fissare frame della realtà, per aprire le trame del possibile, per individuare le soglie aperte dal punctum barthesiano. Per più di un secolo l’apparecchio fotografico ha fatto in modo che fosse il reale stesso a raffigurarsi da sé. Invece uno dei possibili approcci metafotografici e postfotografici attuali preleva immagini preesistenti, nate per determinate funzioni, e le associa e ricombina facendole cortocircuitare, insieme o con altri linguaggi, per innescare nuovi sensi e altre condizioni di visibilità. I primi dagherrotipi erano considerati magici specchi argentati, in grado di catturare e fissare l’impronta di ciò che in essi si era riflesso. Ora certe immagini possono essere prodotte attraverso algoritmi. Altre giungono dal non ancora accaduto.

A prescindere dalla fotografia che immobilizza per sempre un istante – singoli frammenti temporali, un momento che è stato inglobato nel divenire della vita – molto altro è stato messo in azione attraverso le intuizioni di tanti artisti, che hanno prolungato il senso del singolo istante estendendolo verso questioni filosofiche o altre interpretazioni: hanno esteso gli istanti e i frammenti temporali verso proiezioni dello sguardo e del pensiero, in direzioni multiple (scientifiche, sociali, politiche, antropologiche, etc.), nell’incontro con approcci concettuali. La metafotografia è un mezzo proteiforme, con utilizzi e approcci diversi, soggetto di riflessione critica, con tante declinazioni, sia concettuali sia formali. Sta dentro il flusso e i processi delle immagini, facilitando aperture e transizioni tra i media. In questo campo più allargato ed estendibile della fotografia, la pluralità e l’eterogeneità del medium sono altrettanto importanti quanto l’enigmaticità – che spesso rimane in sospensione nel tempo (e anche nel non tempo e oltre il tempo) e lascia spazio alla sempre rinnovabile azione successiva, tra fruizione, lettura, interpretazione e rilettura – e le diverse forze che la caratterizzano.

Claudio Beorchia, Natura morta per scanner, 2013, Bergamo Collezione BACO

Le relazioni tra approcci metafotografici e intermedialità innescano continuamente ulteriori domande, riflessioni e sviluppi. Partendo dalla suggestione immaginale legata alla vesparia[4], all’interno di una storia delle immagini in continua trasformazione o metamorfosi, potrebbe risultare auspicabile e necessario un nuovo tipo di iconologia, che colleghi continuamente passato e presente a ciò che accadrà in futuro. Rilettura e reinterpretazione possono mettere in azione nuove dinamiche e inediti sensi. Le riletture anacronistiche accorciano le distanze tra immagini e opere realizzate in epoche storiche diverse.

L’approccio di stampo fotografico ora dove si sta dirigendo? Cosa è quel “qualcos’altro” che potrebbe dirigere la ricerca della fotografia verso altre questioni o altri approcci col reale? Che ruolo ha la fotografia e che derive può seguire nel tempo dell’iconosfera e delle riletture algoritmiche, al di là delle reinvenzioni del medium e dei risultati interessanti esperiti dagli artisti dalla seconda metà del XIX secolo a oggi?

Da quando le persone hanno cominciato a produrre segni si è percorso un binario parallelo, dove da una parte scorre la produzione di immagini-icona (cioè immagini che attivano un rapporto di somiglianza con il mondo, perseguenti la mimesi, la riproduzione della percezione ottica, l’illusione di realtà) e dall’altra la produzione di immagini-simbolo, ovvero quelle che cercano di distanziarsi dal mondo, non solo per significarlo, ma per ampliare la realtà[5], per introdurre in quel mondo ulteriori dimensioni, inedite forme, esperienze visive originali. Queste due possibilità hanno sempre convissuto, con rapporti variabili di prevalenza. Questo è stato vero anche per la fotografia, che pure ha ricevuto, all’indomani della sua nascita, lo stigma di riproduzione meccanica del reale. Eppure fin da subito questo medium è stato usato non solo per riprodurre, ma anche per produrre e immettere nel mondo forme nuove, che, per il fatto stesso che vengono immesse nel nostro orizzonte, diventano esse stesse parte del reale. Le immagini-simbolo richiedono una fruizione che vada al di là di quella puramente visiva, retinica. Esigono esperienze di altro tipo, anche spirituali oltre che concettuali. L’immagine non può limitarsi a mostrare qualcosa da ri-conoscere, ma può essere anche un’epifania. In questo processo di riconoscimento, apriamoci all’esperienza dell’incanto.

Walden Kirsch, Scansione numerica realizzata con il SEAC computer e il sistema di R.A. Kirsch, 1957

Il mio insistere sulla visionarietà e sul potere rivelativo di certe immagini potrebbe sembrare al lettore una vaghezza poco definibile. Penso alle rappresentazioni interiori e alle visualizzazioni proprie delle pratiche meditative, come per esempio quelle messe in azione da Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali o da altri mistici. E mi riferisco pure alle immagini studiate in campo neuroscientifico, soprattutto a quelle relative all’empatia e al sistema dei neuroni specchio sondato da Giacomo Rizzolatti e dal suo team. Ma non solo. Mi riferisco soprattutto a immagini in grado di estendere il potenziale che sta tra l’oggetto iconico, lo sguardo e la coscienza, a immagini in grado di nutrire lo spazio più profondo e intimo del nostro (filosofico) “essere nel mondo”. A rendere più estese e interessanti queste immagini è l’insieme delle possibilità latenti di visione. Da questa tesi discende sia l’idea che il prelievo e l’utilizzo di immagini preesistenti e il loro cortocircuito con altri codici e linguaggi possa mettere in moto nuovi sensi, sia che a garantire tutto ciò è l’enigmaticità dei nodi che le immagini stringono cortocircuitando con il resto. La visione latente e i nodi che si stringono non possono essere sciolti (spiegati, dispiegati) se non perdendo la possibilità di mettere in azione nuovi sensi. Al contempo, forse è necessario non sciogliere mai completamente i nodi, per mantenere i sottili equilibri nella macchina complessa e aperta della visione.

Il testo qui riprodotto è tratto dal seguente volume di recente pubblicazione:

Mauro Zanchi
La fotografia come medium estendibile
post media books 2022
162 pp. 63 ill. €16,90


[1] Cfr. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino 1980.

[2] George Berkeley, Saggio su una nuova teoria della visione. Trattato sui principi della conoscenza umana, Milano 2004.

[3] Prima della nascita ci sono già immagazzinate immagini nella nostra mente, nei meandri del cervello? Oltre alle immagini che abbiamo visto realmente esiste anche qualcosa che appartenga a un inconscio più espanso, non solo individuale?

[4] Mi riferisco alla forma dell’orchidea Ophryis apifera. Nel corso della sua metamorfosi o evoluzione la vesparia ha creato in sé, nella sua stessa struttura, qualcosa che pare una forma simile a un’ape o a una vespa. Come ha visto il fiore la forma degli insetti che si posavano su di esso prima che riproducesse nei suoi petali la loro sagoma? L’istanza mimetica è solo una conseguenza del comportamento naturale e finalizzata a scopi molteplici, come difendersi, attrarre o mettere in atto strategie di sopravvivenza?

[5] È indispensabile qui precisare cosa intendo dire col termine “realtà” e con l’intenzione di ampliarla anche attraverso le potenzialità della finzione: “Non vi è il reale in sé, ma delle configurazioni di ciò che è dato come il nostro reale, come l’oggetto delle nostre percezioni, dei nostri pensieri e dei nostri interventi. Il reale è sempre l’oggetto di una finzione, cioè una costruzione dello spazio in cui si connettono il visibile, il dicibile e il fattibile” (Jacques Rancière, Le spectateur émancipé, Paris 2008, pp. 83-84). Cfr. Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Torino 2016, pp. 125-126.

In copertina: Giuseppe Penone, Svolgere la propria pelle, 1970

Mauro Zanchi

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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