Ivano Ferrari è morto. Il male lo aveva attaccato da tutte le parti. Erano anni che lottava come un toro bravo nell’arena. Erano anni che il suo tercio de muerte si protraeva. Più volte lo avevano dato per spacciato. Il colpo di grazia era stato annunciato. Il quadro clinico generale era precipitato. La carcassa già bella che provata, qui e lì sbranata. Ivano caracollava ma non s’accasciava. Più volte gli abbiamo augurato di andarsene. Più volte chi gli voleva bene ha desiderato che smettesse, una buona volta, di soffrire. Cuore ossa polmoni occhi gambe mani, non c’era un cazzo di niente che ormai funzionasse a dovere. Da mesi non riusciva più nemmeno a leggere. Ha tenuto duro però. Con fierezza. Con dignità. Per quanto possibile, con levità. Fino all’ultimo. Ci aveva così abituati alle sue rinascite che abbiamo assecondato, non posso negarlo, la tentazione di pensare e dire che alla fine ci avrebbe seppellito tutti. Ora però è crepato sul serio. Erano mesi che mi preparavo, che mi attrezzavo per la fatidica chiamata. La ferale novella è arrivata un’ora fa e – altro che preparato – eccomi qui, spezzato.
Sono le 8:36 e occupo un posto vicino al corridoio sull’interregionale delle 8:12. Come ogni mattina sto pendolando a Ferrara per insegnare regia, ovvero ultracinema e controcinema. Ieri a lezione, a partire da Ultimo tango a Parigi, ho dedicato due ore alla logica della sensazione e a Francis Bacon, il pittore della carne. Stanotte è morto Ivano Ferrari, il poeta della carne. Bacon e Ferrari: il pittore e il poeta della carne macellata, il pittore e il poeta delle zone d’indiscernibilità tra uomo e animale. Ivano è morto e io lo penso e pensandolo scrivo e scrivendone piango come un cazzone sentimentale circondato da morti di sonno. La rubiconda ricciolina che mi sta seduta di fronte, in diagonale, mi scruta. Tutto vorrei fuorché dare nell’occhio. Non è proprio un piangere il mio, è piuttosto una perdita lacrimale che non riesco ad arrestare, discretamente gestita ma copiosa, un flusso che scorre sotto gli occhiali da sole graduati per arenarsi nella barba. Di solito la vita non mi fa piangere, non è all’altezza, ci vuole ben altro. Mi fanno piangere i film, i libri, i quadri. Mi fa piangere il jazz, l’hot e il free. Ivano però non appartiene alla vita. Ivano appartiene, nella mia vita, a qualcosa di più grande della vita. Sono furioso. Egoisticamente furioso per l’impoverimento subito: ho investito pesantemente sul titolo Ferrari nella Wall Street dell’Anima e adesso il Poeta è crollato. La frase che ho appena scritto mi crea disagio, ma non la cancello, me la tengo, devo farci i conti, capire cos’è che puzza. Rileggo. Rivendico – li sento, li risento – l’egoismo e la furia. Ma il resto della frase, fuor di metafora a effetto, è pura amenità coccodrilla. La verità è che grazie a Ferrari il mio bilancio di vivente resta abbondantemente in attivo. Grazie all’uomo e al poeta sono più ricco di una ricchezza che non si dilapida, che fa impallidire ogni legittimo e illegittimo impoverimento biografico. Una ricchezza cui la morte fa un baffo. Una ricchezza a prova di morte. E voi lo siete pure, più ricchi, che sappiate o non sappiate di chi sto parlando. Le poesie di Ivano Ferrari restano lì e se ne sbattono di chi vive e di chi schiatta. Indistruttibili.

Ho detto addio a Ivano esattamente quattro mesi fa, il 28 dicembre 2021, di persona. È stato in una clinica a Mantova da cui il poeta esce soltanto oggi, orizzontale. Ero lì con Domenico Brancale, ancora pesanti di agnello e retsina della notte prima. Con noi, la notte prima fino alle tre del mattino a Bologna, c’era Fulvio Accogli, Lady Macbeth barbuta, splendido attore che al festival Bookolica ha prestato ad alcune poesie di Macello il corpo del suo fiato che diventa voce. Tre ore di sonno, sveglia all’alba: Domenico e io, da casa mia, ci siamo mossi verso la stazione dei treni, dove per prima cosa abbiamo cercato il clochard che la sera precedente ci aveva fulminato. La sera precedente: Domenico arrivava a Bologna da Venezia e io lo aspettavo fuori dall’uscita principale della stazione centrale. Ci siamo abbracciati e mentre a braccetto c’incamminavamo verso via Indipendenza, un giovane uomo abbandonato sul marciapiede ci ha fulminato dicendoci, dicendomi, perentorio, stentoreo: «Amalo!». Colto alla sprovvista, gli ho detto che lo facevo già, che non avrei smesso, di amarlo. Gliel’ho detto forse con un «Assolutamente» o un avverbio del genere e il raccordo di sguardo c’è stato, il riconoscimento rapido ma autentico non è mancato. Non è stato abbastanza. Non siamo stati abbastanza svelti e generosi. Abbiamo avuto riflessi deboli. Abbiamo difettato in qualcosa il cui difetto si paga sempre: il tempismo. Saremmo dovuti tornare indietro, parlare con quel telepata di strada, offrirgli come minimo da bere, fargli capire che avevamo capito, che lo avevamo sentito, non solo nel senso dell’udito. Invece abbiamo tirato dritto per la nostra strada. Abbiamo lisciato l’incontro vero. Non lo avremmo beccato l’indomani, quel luminoso indovino. Esisteva? Ce lo siamo sognato? «Amalo!». Che sentenza. Che profezia.
Pensavamo di trovarlo mezzo morto, Ivano, nella clinica dove stavano provando a gestire il disarmo del suo corpo. Appena siamo entrati nel suo campo visivo ha avuto un sussulto. Siamo entrati nella sala socialità spiritati, quasi marziali. «Due loschi figuri», avrebbe commentato divertito il poeta, riavutosi dallo spavento. Mentre gli posavo una mano sul suo ginocchio facendo pressione senza esagerare, mi ha guardato negli occhi: «È faticoso», gli è uscito di bocca. E io: «Ti stanno trattando bene qui?». Lui: «Non qui dentro, è faticoso fuori». Nel suo sguardo c’era dolcezza, la sua proverbiale dolcezza, ma pure una punta di rimprovero per averlo costretto a correggermi, a rimettermi in riga, come a sottintendere: «Con chi credi di star parlando, non sarai mica venuto da me a fare il patetico, o viaggi a livello o te ne vai a fanculo». Altro che mezzo morto! Ivano c’era e di brutto! La sua testa viaggiava a mille. I suoi neuroni erano in forma smagliante. La sua sensibilità catturante, peggio di una carta moschicida. È faticoso fuori, già. Fuori: paura. Fuori: conformismo. Fuori: avidità. Fuori: inerzia. Fuori: demenza. Abbiamo parlato di vita e di vita delle parole. Parole semplicemente in disuso: lestofante. Parole luminose, che un tempo volevano dire qualcosa: spavaldo. Ci ha dato degli spavaldi. Gli abbiamo raccontato dell’incontro col barbone oracolare. S’è commosso. Per un po’ non ha voluto parlare d’altro che di lui. Ci ha chiesto di scovarlo e portarglielo. Non l’abbiamo fatto, siamo dei lestofanti. «Amatevi», ci ha detto. Dopo una pausa ha aggiunto: «Amateli». Non ha tardato il suo argomento preferito: Antonio Moresco. Era stato a trovarlo qualche giorno prima, Moresco, il suo migliore amico. Nel rapporto tra Domenico e me Ivano rivedeva il rapporto tra Antonio e sé. In noi scorgeva qualcosa di loro. In loro – più di tutti in loro – noi vediamo la conferma che tutto è giusto. Anche quando sbagliano. Anche quando sbagliamo. Ho messo in mano a Ivano il mio ultimo libretto, Ultraporno, e l’ho aiutato a sfilarlo dalla busta da lettera che lo conteneva, da solo non ce la faceva, non aveva sufficiente forza. La mia dedica: «28 dicembre 2021, verso Mantova. A Ivano, maestro di coraggio e potenza che della carne sa tutto». Ripenso alla sua ultima dedica: «a Jonny la gioventù del mondo». Sta sul frontespizio di A forma di errore. Al poeta erano rimaste soltanto due copie di questo libro scomparso, introvabile da un pezzo, e una l’ha data a me. Era il 10 maggio 2019. Pietro Babina e io avevamo riaccompagnato Ivano a Mantova, in macchina da Bologna, dopo un incontro pubblico a quattro dove il quarto era Antonio Moresco. La location era l’Oratorio San Filippo Neri, dove il giorno prima aveva avuto luogo la prima di Macello, un’azione poetica, spettacolo di cui mi lustro di essere drammaturgo insieme a Babina, regista e unico attore in scena, «formidabile», con un aggettivo di Ivano, per il quale l’evento bolognese è stato – ce lo siamo detto e ripetuto, prima della pandemia e prima dell’aggravarsi della malattia – l’ultimo momento di felicità pubblica. La gioventù del mondo: cosa voleva dirmi Ivano, anche considerato che giovane, anagraficamente, non lo ero più da un po’? Ci sono arrivato a scoppio ritardato. Credo che Ivano volesse dirmi che la gioventù è una scelta e uno spirito. La scelta di non mollare, di non lasciare incartapecorire il ragazzo ardimentoso che a un certo punto siamo stati. Una scelta di fedeltà. Uno spirito di fedeltà innanzitutto alla vita, una vita fedele alle altezze e alle bassezze dell’arte, la nostra arte e l’arte che ci fa da faro. Lo spirito che ci accomuna, che alimentiamo reciprocamente. La gioventù è uno spirito che si passa come un testimone, è una testimonianza del cuore che si trasmette come una malattia venerea, cronica. Gioventù – come la intendiamo noi – è sinonimo di fuoco danza avventura carne sogno chisciottismo. Il medico ci aveva scongiurato di non trascorrere con Ivano più di mezz’ora per non affaticarlo ma noi, ingordi che non siamo altro, abbiamo compalpitato insieme a lui per quasi un’ora e mezza nell’euforia più spinta. Abbiamo riso di pancia, con gli occhi lucidi. La gioia di questo spiraglio di vita intensissima e tersa ha trapanato i nebbiosi banchi del dolore e della morte in agguato. Ci siamo salutati abbracciandoci, fottendocene dei precetti anticontagio, dicendoci a presto presto presto, sapendo che era un addio. Ebbri d’insonnia e di Ferrari, il poeta Brancale e io ce ne siamo andati a pranzo, su dritta di Moresco, alla trattoria Cento Rampini in Piazza delle Erbe, dove Moresco e Ferrari un dì, tra un tortello di zucca e un luccio in umido, siglarono un patto solenne: sarebbero diventati uno il più grande scrittore, l’altro il più grande poeta. Ai posteri l’ardua sentenza. Quanto a Domenico e al sottoscritto, ci siamo scolati una bottiglia di Lambrusco brindando alla vita nell’amicizia e alla stellarità dell’amicizia. Abbiamo telefonato a Moresco per tessere le lodi dell’insalata di cappone, con la quale Brancale c’è mancato poco che si accoppiasse. Quel 28 dicembre 2021 è stato uno dei momenti più dolorosi e più belli degli ultimi anni. Uno dei momenti più profondi di questi anni profondi.
Ieri, prima che il sole sorgesse, è morto Ivano Ferrari. Ieri, giovedì 28 aprile 2022: esattamente 69 anni fa nasceva Roberto Bolaño, 99 anni meno un giorno Cristina Campo. Ivano Ferrari è stato un imperdonabile Detective Selvaggio della Materia e dell’Immateria. Ivano Ferrari è stato un Imperdonabile. Ho ricevuto la notizia della sua morte mentre zampettavo verso la stazione, mediante un whatsapp delle 7:34 di Rita, la compagna di Ivano. Alle 7:36 l’ho chiamata. Alle 7:51 ho scritto a Valeria, la figlia di Ivano. Alle 8:07 ero al telefono con Domenico Brancale. Alle 8:49 ho mandato un messaggio su Telegram a Pietro Babina. Alle 9:02 ho ricevuto una chiamata persa di Antonio Moresco. L’ho richiamato alle 9:16 e lo scrittore mi ha risposto esordendo con un «Ciao Ivano». Gli ho fatto notare il lapsus, Antonio s’è scusato, io ho replicato: «Figurati», ma anche stavolta i riflessi sono rimasti al di sotto dello standard per cui li alleno. Avrei semplicemente dovuto rispondere: «Ciao Ivano». Ha asserito quell’olandese volante di Cees Nooteboom: «La trasmigrazione delle anime non avviene dopo, ma durante la vita». Ivano ha giocato d’anticipo, da vivo: prima di tirare le cuoia è trasmigrato dentro di noi, ecco cos’è successo. Moresco è Ivano. Brancale è Ivano. Io sono Ivano.
Ieri, checché ne pensiate, Ivano Ferrari non è morto. Ancora una volta, è stato più veloce, come la sua poesia. Uomo e artista d’avanscoperta, ci ha fatto strada dall’altra parte. Ed è lui che ci accoglierà facendo gli onori di casa, se un’altra parte c’è davvero, se non ci limiteremo a sparire tra i misteri odorosi della vagina di un’enorme vacca cosmica, tra i fumi di un grande inceneritore di anime. Posso vederlo, Ivano, con il suo sguardo da dritto, con il suo sorriso arguto semicoperto da un baffone bombato e folto come quello di Bill The Butcher, ma senza la frivolezza delle estremità all’insù. Lo vedo. Ci vedo. Antonio gli sferrerà l’affettuoso scapaccione che non ha avuto il tempo di mollargli sul set del Chisciotte, come da sceneggiatura. Domenico si farà versare un bicchiere di rosso. Io chiederò a Ivano se nel frattempo ha finito di leggere il Baudelaire di Benjamin e gli darò una mano a gestire la grigliata che ha messo sul fuoco per noi, affinché nemmeno una costoletta si bruci, affinché la carne non perda il sangue.

In alto: Pietro Babina in Macello, un’azione poetica (Bologna, Oratorio San Filippo Neri, 9 marzo 2019). In basso, da sinistra: Ivano Ferrari, Jonny Costantino, Pietro Babina, Antonio Moresco (Bologna, Oratorio San Filippo Neri, 10 marzo 2019)
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A seguire un paragrafo del saggio “Ivano Ferrari e il macello”, contenuto in: Jonny Costantino, “La mano bruciata. Scrittori, pittori, elezioni” (Rubbettino 2021).
Carnale carnale
La poesia di Ivano Ferrari non è poesia di piccole epifanie quotidiane. Non è nomenclatura conciliante di una routine rassicurante. Non è conforto di un’esistenza protesa a lasciare una traccia qua e una traccia là nonostante la propria incontestata inanità. Non è encefaloscopia di un cardiogramma il cui maggior vanto è quello di non essere ancora del tutto piatto. Questa poesia non è d’esempio per volenterosi azzeccaversi politicamente corretti, ecoresponsabili e iperconnessi. Men che meno è lezione di civiltà o galateo. Nemmeno per sogno.
«Macello» non è un indignato cotechino di buoni sentimenti servito nel retrobottega dello scempio, con salsa rosa e intingoli a parte. «Macello» è poesia di formazione in forma di fese e scaramelle, costine e capocolli, rognoni e animelle di parole. «Macello» è poesia di deformazione professionale e definizione spirituale.
È furia precipizio sfracello la poesia di «Macello».
Nel macello ovunque è squartagione. La squartagione è di Ferrari la singolar tenzone. Ferrari macella il verso. Lo sgrassa e lo disossa, lo sminuzza e lo arrondella. Quando suona troppo bene, lo accoppa. La sua lingua è versatile: gancio e paranco, spaccaossa e bisturi, papilla e pupilla. Ferrari imbandisce la pagina nel vivo della mattanza. Prepara versi tartari che della bestia trucidata hanno assorbito il sangue e l’urlo. Mette sul piatto sfilacci crudi d’organo malato: l’organo malato del vivente. Schiaffa sul bianco del foglio un male da cui, lui per primo, è stato leso, o meglio: lesso fino all’osso. I suoi versi sono leccornie per palati raffinati e stomaci forti. Chi è senza appetiti scagli la prima pietra.
Ivano Ferrari è il poeta della carne macellata.
Ivano Ferrari è un poeta lucido. Lucido come una lama. Lucido come un occhio. Non perde occasione per focalizzare e focalizzando ridefinire il margine carnale del suo fare poesia. Non lesina variazioni sul tema della scrittura, quell’atto osceno che chiama ora poesia ora scrittura, partendo dal presupposto – espresso nella Franca sostanza del degrado (1999) – che «scrivere è cercare un paesaggio bello sodo», «carne tagliata a stella su fogli bianchi». Scrivere poesie: cercare un paesaggio bello sodo da tagliare a stelle che sfamino l’anima. L’anima del poeta in prima battuta e, in seconda, l’anima del lettore. Anime battute pestate tritate, derrate lavorate da un immane mulino a sangue.
La poesia di Ferrari è proteina animale e pensiero terminale.
«Viscere confuse in umile logos / di questa cantilena replicata / che di poesia in poesia ingrassa», leggiamo in La franca sostanza del degrado. Buongiorno, mi presento: Viscere confuse in umile logos, sono la poesia di Ivano Ferrari. Viscere umorose o pencolanti, spremute o strascicate sopra una pagina definita – in un componimento intitolato Dio e contenuto in Rosso epistassi – un «vasto bidet».
Rosso è il colore primario di «Macello». Rosso su bianco è il contrasto che primeggia nell’intero ciclo. Rosso carne brace emorragia. Bianco carta scheletro maiolica.
La poesia di Ferrari è proteina animale e pensiero terminale transustanziati in canto viscerale.
«Se non è canto è sangue», leggiamo in un verso di Antropofagia (Rosso epistassi). Preciso che in Ferrari il canto, in un modo o nell’altro, è sempre sangue. Meglio: la poesia di Ferrari è un farsi canto del sangue. Chi voglia sapere in che razza di canto si condensi la circolazione, non si aspetti una delucidazione. Rispondo alla mia maniera, per evocazione. Qui il canto è uno svenamento tenorile con ristagni baritonali e senza perdite lacrimali. Lì è un’aria lapidaria, gorgheggiante da un punto voraginoso del capezzale, un’aria recalcitrante verso le amplificazioni aureolanti dell’orfanità e della vedovanza, con l’unico riverbero di una ferma disperanza. Altrove è un blues escoriato, all’altezza e alla bassezza delle cantilene dei grandi ciechi del Mississippi, di quei gracchianti affondi schitarranti sui minimi termini dell’esistenza, fin dentro i suoi dirupi scatarranti.
Il canto cantato da Ferrari è una pluralità di canti fatta di coltellate improvvise e tramortenti incanti.
Tutto è carne e sangue nella poesia di Ferrari e – se non è carne, se non è sangue – è midollo interiora muco, altrimenti è osso unghia zanna. Qualunque cosa sia, non si sfugge all’organico. Le metafore del Nostro non lasciano dubbi a riguardo. Giusto per rendere l’idea: i fiori sono piaghe, il cielo è un budello, albino e cosparso di alopecie è il corpo della Terra. Corporeo anche ciò che non ha corpo: la poesia possiede rotondità sculettanti, il giorno è munito di tubi digerenti, il litigio sputa sangue, tisico è il suo splendore. Per non parlare della notte, meriterebbe un discorso a parte, la notte: la notte annidata nelle ossa di chiunque, la notte con le sue vertebre piene di tenebra, la notte con le sue traversie clitoridee, la notte che azzanna e bacia e, quand’è in vena, bacia proprio bene.
La carne, d’altro canto, non è mai soltanto carne. La carne è la conchiglia dell’imprevedibile: c’è un’anziana vacca, con i budelli spenti e la vagina grigia, che custodisce «il crepuscolo nel ventre» (Macello); sotto le volte della carne si aprono «terrazze di cielo» in un costante divincolarsi delle creature «tra intrighi intestinali e fascine di stelle» (La franca sostanza del degrado). La carne, alla resa dei conti, è un abisso.
La carne è un abisso e la poesia del Mantovano è – come il Dio perse- guitato e biondo «che muore per noi» e fa cucù in Rosso epistassi – «carnale carnale».
Le poesie di Ivano Ferrari sono colpi di sonda nell’abisso della carne.
In copertina: Francis Bacon, Carcass of Meat & Bird of Prey, 1980 (particolare)