Giovanni Fontana, o della dismisura

Prezioso come un repertorio e scoppiettante come una performance, è uscito Giovanni Fontana. Un classico dell’avanguardia, volume curato da Patrizio Peterlini e Lello Voce (Agenzia X, pp. 224, € 15) che presenta un’antologia di scritti editi (dal maestro Adriano Spatola, che inaugura la sua fortuna critica nel 1977, a illustri colleghi come Henri Chopin, Bernard Heidsieck, Serge Pey, Giulia Niccolai e Julien Blaine; da studiosi illustri come Paul Zumthor a ricercatori ineccepibili come Pier Luigi Ferro) e testi nuovi (per lo più – a conferma di un magistero sottile ma sicuro – di giovani protagonisti della performance di oggi come Jonida Prifti, Laura Cingolani, Gabriele Stera e Julian Zhara) dedicati a questo autentico protagonista dello sconfinamento fra le arti. Dal volume, per la cortesia dell’autore e dei curatori, proponiamo il pezzo dedicato nel 2010 (in origine uscito sulla rivista «l’immaginazione») da Raffaele Manica a un altro volume di grande ricchezza, Testi e pre-testi, catalogo per mostra e testi dell’autore con antologia sonora 1968-2009 (Fondazione Berardelli 2009): uno dei nostri maggiori saggisti letterari, un’ekphrasis dopo l’altra, ripercorre la sua vita parallela all’artista compagno di strada, e anche un po’ mentore, in una relazione che Fontana qualificherebbe forse, con un conio fruttuoso dei suoi, «epigenetica». Dove cioè l’uno, per gradi progressivi, cresce con l’altro (e certe volte, un po’, contro l’altro): al pari delle diverse discipline movimentate dal performer sulla scena.

A.C.

Conosco Gianni Fontana da non so più quanti anni; per brevità dirò che sono una trentina. Cominciai a collaborare, ancora studente d’università, con una rivista, «Dismisura», della quale Gianni era qualcosa di più che il direttore: dal suo cappello a cilindro usciva tutto, le richieste di collaborazione come la confezione tipografica, sempre elegante, sempre funzionale. Perciò, adesso che scrivo, qui, una nota per il catalogo che di Fontana ripercorre l’intero tragitto, do avvertenza al lettore. Si tratta di una testimonianza, non di una recensione. E di una testimonianza faziosa: in essa si troveranno i segni di un’amicizia che continua a distanza; e (ma), come ogni amicizia esige, non si stravolgeranno i tratti di verità.

Era l’inizio degli anni ottanta e, in una provincia del Lazio nota per la sua bianca sonnolenza di feudo andreottiano, già da non pochi anni Fontana smuoveva le acque. Direttore della rivista che dico, nata con i settanta, era Alfonso Cardamone, che però preferiva andare a pesca. Intorno, un gruppo di artisti e poeti: nel corso degli anni ne erano passati parecchi. Tra gli altri, Gianni Bonacquisti, che scriveva racconti pavesiani un po’ osceni: qui lo ricordo perché, non da molto, le sue ceneri si sono sparse su una montagna che amava. Fu mio professore di matematica, e di «Dismisura» mi donò alcuni fascicoli, mentre si arrangiava un po’ di teatro popolare. Su «Dismisura» pubblicai le prime mie cose: collaboravano allora il «poeta minore» Lindo Fiore (così recitava il suo biglietto da visita), che praticava, secondo parole sue, «la lateralità come prova generale per tornare a essere invisibile», eccellente pittore, e molti altri amici. Lì conobbi Gianni e si cominciò a passare insieme molte ore: soprattutto, all’inizio, in tipografia. Vedevo materialmente le sue poesie visive e concrete farsi materiale di stampa, lucida gelatina e ciano, in un laboratorio dove ogni riuscita era legata alla corrente elettrica pronta a saltare (la tipografia ebbe in seguito, assai presto, una composizione computerizzata: e, per la tipica imperizia dei precoci, i guai aumentarono).

Giovanni Fontana, Poesia visiva, 1968

Poi ci fu una fronda tra gli amici di «Dismisura». Ce ne andammo, con Fontana e Fiore, e, insieme ad altri (Tarcisio Tarquini, attento alle questioni sociali; Luca Salvadori, musicista compositore e concertista) mettemmo su un’altra rivista, «La taverna di Auerbach», che durò pochi ma bellissimi numeri (uno, storico, su Antonio Pizzuto). Grazie a Gianni pubblicai anche un libro, che già era l’ottantasette. E con Gianni si andava in giro insieme. Molto discutendo. Lui aveva in mente il poeta totale (che infatti era ed è), io il critico. Discussioni animate e civilissime, il cui livello di civiltà era dovuto soprattutto alla pazienza infinita di Gianni. E telefonate lunghissime, quotidiane. Poi, così capita, Fontana cominciò ad andare più fittamente in giro per il mondo, da performer. Io cambiai città.

Quelle discussioni sono valse, almeno per me, come un apprendistato; e quegli anni, come una formazione. Il più delle volte si discuteva sull’interpretare: per Fontana, autentica interpretazione quella dell’autore; per me, valida ogni interpretazione di lettore responsabile rispetto a premesse e conseguenze dell’interpretare. Ma il più delle volte si discuteva anche sullo sperimentare: per Fontana, sperimentazione permanente, infinita; per me, la sperimentazione che a un certo punto deve trarre qualcosa dal proprio sperimentare e ritrovare una propria forma: come un ordine inquieto dopo il caos. Nel nostro discutere, una dialettica tipicamente novecentesca. Concludo rapidamente su di me, perché al non voler concludere su Fontana è dedicato il seguito di questo articolo. Non dirò: «L’avanguardia, peggio per chi non l’ha fatta», perché può succedere che in quel momento avanguardia non ci sia, non sia possibile; ma si può dire: «La sperimentazione, peggio per chi non l’ha fatta» o anche solo costeggiata. Per me, non c’è nulla di meglio, anche solo per leggere e capire la tradizione o la classicità, che aver costeggiato la sperimentazione, rinnovando gli attrezzi nella cassetta degli strumenti. Tra l’altro, vedere Gianni all’opera mi ha fatto persuaso una volta per tutte che ogni forma d’arte, visiva o di parola o di cos’altro sia, è un manufatto, alto artigianato, congegno a orologeria che diventa arte per le letture che il tempo ci mette sopra.

Giovanni Fontana, tavola dalla serie Della simmetria dei corpi, 1978

Adesso, dopo anni, ricevo il volume edito in occasione della mostra tenutasi presso la Fondazione Berardelli di Brescia a partire dal 19 dicembre 2009: Giovanni Fontana. Testi e pre-testi e, sfogliandolo, mi viene spontaneo alzarmi in piedi togliendomi il cappello (come se portassi il cappello), a salutare un vecchio amico. Parlo dell’opera non del suo autore, qui rappresentata in duecentotrenta pagine di grande formato (con l’aggiunta di un cd per i quaranta anni, 1968-2009, di poesia sonora, dove segnalo lo storico Radio-dramma, 1970 e a seguire, e il magnifico Tarocco Meccanico, 1973 e a seguire). Sono segni famigliari, conosciuti da vicino durante il loro stesso farsi, fino a una certa data; e poi seguiti a distanza, come ricevendo lettere o leggendo sui giornali. Sulle forme dell’arte di Fontana scrivono (è quasi una voce per enciclopedia) Melania Gazzotti e Nicole Zanoletti: collage, libro d’artista, teatro, cinema, musica, poesia sonora, performance sonora, video, video performance. Il catalogo è introdotto da un saggio di Marcello Carlino, sul quale tornerò. Intanto, vorrei fermarmi su alcune delle foto che accompagnano la parte introduttiva. Trascorro su quelle che danno conto dell’acquisita internazionalità dell’opera di Fontana. Trascorro sul dettaglio malandrino del volto di Lory Del Santo messo a incipit di una poesia visiva (ne parlai a suo tempo). Mi fermo su una foto del 1979, riprodotta a pagina 25. A sinistra, corpulento, con barba, capelli arruffati, in canotta e con sigaretta spenta ma tuttavia pendula, Adriano Spatola che sfoglia qualcosa. Al centro, mingherlino, rasato, abbondanti capelli, in canotta, senza sigaretta alcuna ma con il mento poggiato sulla mano destra e il gomito sinistro su un librone che ha smesso di sfogliare, Piero Varroni. A destra, incurante del caldo, con ordinata camicia a maniche corte della quale si vedono ancora i segni della fresca stiratura, Gianni Fontana che scrive con un tratto che si indovina esatto. Lindo Fiore, parlando una volta dell’arte di Fontana, la definì «follia». Definizione ordinaria, così messa, che allude anche alla infinita dissipazione dell’arte di Fontana, pur fermata in innumerevoli manufatti. Ma Fiore specificò di che natura fosse quella «follia». Guardando quella foto non si può che dargli ragione. Fontana «si allontana con la sua geometrica follia», erano le parole compiute di Fiore. Proprio così: per quanto la si guardi da vicino, arte che esce dai codici e dalle righe, l’arte di Fontana si allontana, va verso una riva incurante se quella riva debba davvero essere esplorata e se qualcun altro ci metterà mai piede. Va, si allontana, cerca. Fa finta di tornare ma ogni ritorno la porta più lontano (di fronte a questa foto ce ne sono altre di un Gianni domestico, perfino con torta e candelina. Se nelle foto ci sono, e le foto sono riprodotte, posso anche salutare, togliendomi il cappello che non ho mai indossato, sempre quello, Giovanna, Luca, Carlo: e, insieme a loro, tutti gli altri amici che non saranno nominati).

Marcello Carlino definisce Fontana «poliartista intermediale», perché in ogni esperienza di Fontana «l’intermedialità è la dominante». Riporto direttamente, perché è detto con ardua e dotta precisione. Primo punto: «L’intermedialità di Fontana suppone, in premessa, la tessitura di un rapporto biunivoco di spazio e di tempo nella rappresentazione-evento, che – né soltanto l’una né soltanto l’altro – è congiuntamente evento e rappresentazione». Secondo punto: «Le scritture e le tavole e gli eventi performativi di Fontana non si configurano mai […] come dei significanti puri. Implicano, al contrario, itinerari di semantizzazione rinnovata: attraverso la profusione spaziotemporale del corpo […] e attraverso la sequenzialità progettata e architettonicamente disposta delle escussioni plurilinguistiche»: in ciò è anche più o meno implicita o esplicita critica al vanesio mediologico corrente. Quattro procedimenti (di azione, di scrittura) possono con sicurezza essere identificati: dissolvenza e trascorrenza; lacuna interstiziale; riflesso geometrico dell’impaginato; chiosa metalinguistica. Di tutto, il termine a quo è il 1972, pubblicazione della prima poesia concreta: ma quel 1972 è climatizzato dagli annisessanta romani. Non so se a quel decennio risalga l’acrostico che Fontana compone per sé, nel catalogo messo in testa alla prima sezione, quella appunto degli anni sessanta: «Generalmente Incauto. Ovviamente Vano. Artificiosamente Nomade. Notoriamente Ingiustificato. Faccio Oralmente Naufragare Testi, Architettando Nervose Assonanze». Nello zampillare del cognome c’è tutto.

Giornali, reperti pubblicitari come fossero fossili («Pura Lana Vergine»), miti moderno-arcaici (Ho Chi-Min), procacità di veneri decapitate insinuate nel virato in seppia di tavole classicheggianti, poesie o scritture lineari cassate a pennarello, John Coltrane (My Favorite Things), un occhio sbarrato ma non tagliato, come pronosticherebbe la modernità del cinema: il sedimento del primo decennio.

Giovanni Fontana, My Favourite Things, 1967

Del secondo, gli anni settanta: le figure che tendono a farsi parole, le parole che tendono a farsi figure (frante, spezzate, sfigurate, erotizzate, de-erotizzate, di nuovo erotizzate), corpo a corpo con i corpi tipografici, corpi dalle simmetrie düreriane, ma rubensianiamente opulenti, però puri contorni, tracciati appena lasciandoci dentro il vuoto, in una lezione di anatomia che sigla grandi teste, grandi natiche, grandi ventri, grandi piedi, proporzioni buddistiche.

Gli anni ottanta: grafie fitte ma di ispirazione algebrica, parole che si spezzano in verticale, sillabando se stesse, ma anche in orizzontale, correndo verso l’incomprensione (perché se ne cancella il senso e il mondo a cui rimandano), e finta è la comprensibilità quando si adotta il fumetto, posto infatti sull’aria di un essere bicipite, occhi che sguardano come da una serratura (ma è solo un buco, l’esito dell’orifizio del mondo), giornali sfogliati e svogliati. Poi soprattutto gli Zeroglifici, con Spatola. Irrompe l’uomo delle pulizie: effetto, simbolo, ritaglio, minaccia. Gli anni novanta, l’era del performer: alla fotocopiatrice come se mangiasse la carta che lo mangia – (auto)cartofago già variamente cartografo –, gli anni del gran tarocco (anche della prosodia del gran Tarocco) e dei sensi confusi (ma, però e perciò, anche delle sinestesie); e i ritagli a colori, fatto salvo il candore degli slip (ma, però e perciò, bello di più quel grigio azzurro come l’antica carta da zucchero della Suite elettrografica proposta in una tavola pieghevole come di elettrocardiogramma); decennio-novanta, ancora, di finta decorazione di finti piatti finti vasi finti libri finti oggetto: perfino un Librocuore che finge di ispirarsi all’eterno De Amicis che è in noi (forse) quale finto dono per la fintissima festa di San Valentino.

Giovanni Fontana, Tempus fugit, 2007

Nell’ultimo decennio del secolo andato la poesia si espande: Fontana a Teheran, a Lyon, a Tokyo, Fontana andata e ritorno, che si allontana e sembra mandare telegrammi (ma figuriamoci! Però: erano anni prima: non era Marsiglia, era Ginevra quando mandammo una per noi indimenticabile cartolina: e invece di spettabile o gentile c’era un goliardico e politicamente scorretto – però il destinatario era francamente etero, boh – «A quel frocione di» e le poste nazionali la recapitarono, lui fece finta di niente), ma sono poligrammi, ma sono ancora prosodie (Il gioco delle voci) o sono le carte del cartografo nel Libro dei labirinti. Già: 2007, Tempus fugit (la biancheria s’è fatta nera, vaporosa di veli invece dei soliti essenziali slip o famosi tanga). E chi sarà questa Seiren-sirena che appare in pezzi, come stracciando un rotocalco proibito dopo la visione? Si gira pagina (si va a pagina 178) e la bellezza si fa mostruosa per propria bellezza stessa e per esibizione ed eccesso di bellezza; e mostruosa è la carnalità, troppa, preludio cadaverico, però con tutti i sensi in moto, rombante come dopo il giro di ricognizione. Mostruosa come una bocca-canotto-vagina, come l’occhio-ombelico (180), mostruosissima a pagina 181, come un serpente vecchio che perde la pelle e dentro c’è la bambina ma con una sensualità senile intatta dentro il biancore cadaverico della pelle che si squarcia. Di ritorno dai corpi che si deformano, attraenti per repulsione; di passaggio per i frammenti della madre di tutte le immaginazioni e fantasticherie (quella dark lady presumibilmente mistress in leather sadomaso-motociclistico sotto l’indicazione e baudelairiana e rimbaudiana «voyage», pagina 192), l’approdo provvisorio è di nuovo ai corpi tipografici, alla loro superficie; il ritorno, invece, è a un frammento ingigantito delle misuratezze sfrenate düreriane e rubensiane. Perché quel detto di Fiore, della lontananza, della geometrica follia, si è tradotto e precisato (precisato?) nella scrittura esatta di una (dis)misuratezza (s)frenata, che tanto meglio si riesce a seguire nei suoi svolgimenti quanta maggiore è la lentezza che si adotta, se non si è avuta la fortuna di seguirla passo passo, mentre lasciava le sue tracce e i suoi segni; mentre lanciava i suoi segnali quel Dioniso sereno, un po’ apollineo, che sta fra Gianni e i suoi occhiali da sole e la sua barba chissà perché bianca (non so se l’ho visto solo io, cercatelo un po’ a pagina 182. Chi non lo vede, è colpa sua).

Da sinistra a destra: Adriano Spatola, Piero Varroni, Giovanni Fontana, Alatri, 1979

In copertina: Giovanni Fontana, Seiren, 2008

(1958) è ordinario di Letteratura italiana contemporanea nell’Università di Roma «Tor Vergata». Direttore di «Nuovi Argomenti», collabora con «Alias» e con «Paragone». Ha pubblicato vari volumi di saggi novecenteschi: l’ultimo è “Praz” (Italo Svevo 2018, premio internazionale Mondello). Ha vinto il premio Napoli per “Exit Novecento” (Gaffi 2007), il premio De Sanctis per il saggio introduttivo ai “Meridiani” di Alberto Arbasino (Mondadori 2009-2010), il premio Bonura per la critica militante (2018) e il premio Val di Comino per l’attività saggistica (2019). Ha curato “Lo spettatore critico. Politica, filosofia, letteratura”, raccolta degli scritti di Nicola Chiaromonte uscita nel 2021 nei Meridiani.

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