Che cos’è (in) un acquario. Scie, aggregati minerali, fluttuazione minivegetale, invisibili correnti, effervescenze minime spinte nell’alto in un intreccio di sottilissime colonne; levitare di mutezze e immote mutazioni sul confine interno, il lato interno del cristallo, o del plexiglas. Oppure – un vociare che si sommerge nell’avvicendarsi delle ombre, da un fondo melma di catodo, da una ghiaia di pixels: venute a galla, nuovamente sparite, che premono da quel lato interno a forzare la bidimensionalità della gabbia; a riversarsi, riaggregate, nell’ambiente da cui distratta pulsa la visione, per consumarne lo spazio. A risucchiare occhi, corpi, nel fluido amniotico che magnetizza e rigetta; perché nei flussi dell’essere-in-onda, che sia diretta o differita, «ci si sta dentro tutti».
Per Enrico Ghezzi, la tele/visione rimarca innanzitutto uno scarto, un differimento temporale-culturale, il tempo-reale d’una mutazione irreversibile (lo sfasamento in fuori-sync, leggendario e sempre più necessario, come grammatica minimale, ineluttabile, del recepire, de/sintonizzante), ma poi lo sminuzzarsi, forse frattale, d’una indifferenziante enciclopedia: «alfabeto infinito già dato», o «vortice enciclopedico», pure («di nomi teste corpi giochi generi»), all’infinito proposto e riproposto, in cui emerge e si sommerge una memoria, collettiva, del desiderio (del flusso); nel loop del suo ricomporsi nello spazio recludente dietro/dentro il cristallo, può tuttavia fluidificarsi intiera una «banca data di immagini e insiemi di immagini richiamabili a piacere», come tessere d’un pensiero videale, cripticamente critico, sulla cui onda porsi continuamente in formazione: «Nell’assenza sacrale del testo […], consumare e usare immagini (preesistenti) può essere l’unico modo per non essere consumati e usati (come puri fruitori) da esse»: attivare una tensione di scrittura/lettura, mixando la realtà stessa telemixata – apprendendo a «vedere un’immagine dietro un’altra immagine e poi un’altra, secondo il tipico sistema di dune del deserto del senso».

Non ho citato che degnità tratte da scritti a cavallo fra i settanta e gli ottanta. Nel tracimante, critico enigmatico magma degli aurei detti tele-visivi (se filmici solo attraverso la cornice del monitor, per nastri consunti dagli innumerevoli riavvolgimenti e sovrapposizione di loghi, di riversamento in riversamento nell’era del vhs), espressi da Ghezzi nell’arco di almeno quattro decadi (messi in fila l’uno dopo l’altro, amorevolmente dalla secondogenita Aura (da Enrico “battezzata” nel nome di Benjamin?), giusto nel nome dell’acquario nella soffocante sua saturazione ma satura soprattutto poi di lacune e mancamenti e atti mancati)… impossibile dico, in questo ri-ordinato telemagma di parole trasmesse da un tempo-spazio (ai suoi oggetti) immediato/lontanissimo, non riportarsi alla metafisica critica del caos, prefigurata giusto in quel denso nesso cronologico. Blob sarebbe giunto solo una manciata anniluce di distanza più tardi, nell’89; a criticamente esaudire ogni selvaggia pulsione autoenciclopedica che l’età dopata-euforica richiese, alle soglie della sua riconversione googleica, quando ogni muro sembrava spianato. Quando giusto nell’orbita s’installava una società-spettacolo per le scansioni della “macchina mangiatempo” teletrasmittente, che nella fagocitante finzione di verità d’un troppo-nulla vedere, solo dal cinema (pur colonizzandolo) lasciava scheggiare più inveranti barlumi di aura («Oggi che lo vediamo in e con la televisione non sembra inventato, il cinema, per impedire infine di vedere, o per far vedere un’ultima volta prima del troppo-nulla elettronico e informatico?», scriveva Ghezzi giusto nell’89): raggi capaci, dal fondo d’uno specchio oscuro, di ritrasmettersi trapassando superfici, interfacciando eterogenei, in détours intergalattici di segni, ma serbando, nella grammatica impura del remix o nella proposta d’un rinverginamento teorico o filologico, la qualità d’un alieno monumentum, in deriva dallo Spazio che fu il nostro… (tutto un campo di possibili, che solo tramite l’autorialità sommersa di Enrico è riuscita a portarsi alla luce dalle ragioni della notte).

È peraltro il reame stesso delle immagini fluttuanti, il cinema la sua macchina rotatoria (riconvertita ormai in pulsare di pixels), una enciclopedia in sovrimpressione per intero: lì dove ogni immagine si moltiplica cancella inverte, allucinandosi nella tecnologia della memoria così come nell’eternamente presente fermo-immagine d’ogni futuro, nell’avvenire saputo a memoria (di cui, nel ’44, pensando alle immagini del cinema, parlava Valéry). «Macchina semplice», il cinema, è quello, pure, che «complica e rende misteriose le immagini-fotogramma» – le fa «trascorrere e ripetere a diverse velocità, in una sovrimpressione spazialmentale che le muta in corpi/protesi».
Ma, tutto questo, non basta. «A quanti fotogrammi al secondo è (ruota, si autoriprende…) il mondo? A quanti fotogrammi al secondo “passa” la vita (?)… Per vedere oggi con gli occhi di un uomo o dell’uomo un minuto di un qualunque processo naturale (un minuto di “tempo”) filmato alla velocita pazzesca di un miliardo di fotogrammi al secondo non basterebbe la vita di un uomo» (Zavattini tralucendo in filigrana). Se nella sovrimpressione (filmica, mentale) ogni enciclopedia collassa nel convulso, collassante affastellarsi di risultati da motore di ricerca, pure, il sovraimprimersi, microconnettersi in filamenti invisibili di links o elettrificati analogismi, essa pure ne appare l’ultima possibile condizione. E d’altro canto, ogni (nuova) enciclopedia (ben sapeva Savinio) remixa memoria e desiderio, per rilanciarli più straniati in un avvenire che non sa, e che probabilmente non possederà più le chiavi per interrogarla. Quasi una supernova in détour (o in rebound?) da un futuro lontanissimo già spento; che si riavvolga, in (ballardiano, cronenberghiano) crash, sul pullulato deserto del presente.

Al pari del cinema di Carmelo Bene, e ancor più di quello – medusèo – di Guy Debord, la parola filmica ovvero inarrestabile film verbale, in svolgimento-riavvolgimento rapido, di Ghezzi, è quella «che non vuole lasciarsi vedere e dire, regalando solo l’enigma della propria sostanza/forma palindroma». In girum imus nocte et consumimur igni; because-the-night, senzafine replicato giù dal canale dell’Atalante (nel ritornello eternamente after hours), in immersive fluttuanti grammatiche di apparizione: attendendo al fuoco, al deviato focus, d’ogni asincrona profetica visione fuoriorario (l’«apparente fuori sincrono con la contemporaneità [rivela] tutta la capacità […] di vedere le cose prima che avvengano», nota Elisabetta Sgarbi nella premessa al volume). E allora, per un autore-in-sommersione, deautorializzante com’è lui (qui mi rifaccio a un titolo, una provocazione dell’83), converrà invertire il corso, e (palindromici, proprio) generarlo dall’inverso. Et consumimur igni; e partire, piuttosto, dai titoli di coda, in salsa Angiolieri (Cecco) riproiettato nel futuro remoto, o ancor meglio nel futuro rinviato (con memoria, sottotraccia nemmeno troppo, di Qfwfq) a scaraventarsi e ancora nel primordiale farneticante brodolabirinto infosferoide, anaforizzante il se io fossi. Non foco, fossi, o altri elementi o forze superiori o temporali, ma invece, l’Elemento stesso, il ritornello, la chiave algoritmica del Pandora informazionale. Se io fossi: Google; e di nuovo, allora, e finalmente, vortice enciclopedico, fossi: cumulo, scansione, errore-errare, rimodellante; disponibile a piacere all’infinito e non meno inconcludibilmente resettabile, azzerante per eccesso, ossessivo/ossesso, evacuato dal suo stesso vaso di Entropia: «vibrazione di fondo del nonessere, assordante di afonie»: lì dove «nulla mi è estraneo, neanche il nulla». E se l’essere rimonta dalla marea delle scansioni e dei queries, cioè dal «nulla informe che si vuole», questo è la slabbrata consistenza d’un mancato sapere («a cosa sto aderendo») – cioè un nonsapere depensato dalla spaziale (mentale) stranianza di googleani globi lontanissimi – mesmerica deriva tra spazzature mediatiche in sospensione o sommersione nel vuoto extraorbitale, e il giro remotissimo-futuro di altre luccicanze. «Sono», insomma, come «So-no»: collassante cartesianesimo d’ogni più labile desiderante enciclopedizzarsi.

Stampato sull’ultima pagina (prima della quarantina degli indici – nomi, film, televisione), questo foglietto recuperato da un «notes magico» a strappo, ci viene incontro, così com’è rivenuto a galla dal suo non-voler-lasciarsi-dire (per null’altro se non per l’eccesso dei suoi fatti verbali) dal non-voler-lasciar-vedere (non le balenanti immagini comunque, ma la lettera riposta che vi s’intesse in un’idea di filigrana: ricucendosi, nel teatro della memoria oceano, al reticolo fittissimo d’ogni frame accumulato), ci viene incontro come lo spezzone necessario di poesia di prosa per un millennio che, non appena s’è nato, istantaneo collassa (come torri d’avorio occidentali) sul proprio brulichìo di dati e taglienti schegge, strutture a miriadi di pezzi, giù come un castello di carta; quando, in gravitazione novissima, un medioevo ulteriore accatasta in crateri di granata gli esplosi rottami del proprio immaginario (mai) più ricombinante; virtuali e già solidificati a grappolo.
Poemetto definitivo per questo inizio di fine di millennio; in bilico, noi-mondo, fra nonessere (per eccesso di presenza) e non-sapere (per entropia di dati). E non c’è bisogno degli ineffabili, svagatamente scialojani (a tratti) versi dello stravagare – saltati fuori (sez. Poesie e simili) come da una scatola a sorpresa – per sentire la poesia inarrestabile che corre nell’acquario come una corrente in attrito, lo strisciante serpente d’acqua d’un titolarsi solamente di coda, aperto paratesto d’un film mal visto, mai visto, troppo visto, che si replica nella cascata delle google-occorrenze sempre invertendo, frattale, le proprie geometrie. Ma proprio ai versi di anni versati devo lasciare, allora, la penultima parola. «Eroe, dimentica il mondo nel presente in cui tutto ricorda. / Abbandona la memoria di chi ricorda per dimenticare».
Che qualcosa manchi, nella foresta-correspondance dei multipli segnali, che qualcosa venga mancato, che lo stesso dire/scrivere sia atto del mancare/mancarsi, è l’opportunità etica che abbiamo di farci eroi just for one day. Nel tempo che solo l’alea d’un gesto stampato (zen?) nell’invisibile, nel vorticare d’etere, potrà indicare il canale da imboccare per trarsi su (Münchhausen) dall’ammassarsi della storica spazzatura, quella in cui il tempo si è accartocciato. «La mano afferra la piuma che scrive / nell’aria». Tracciando attriti nelle correnti ascensionali, la stessa mano, la piuma, che aveva disegnato o divinato i flussi inversi, sincopati o asincroni, nel maelstrom omologante d’un tracimato acquario.
Enrico Ghezzi
L’acquario di quello che manca
a cura di Aura Ghezzi con la collaborazione di Alberto Pezzotta, con un testo di Elisabetta Sgarbi
La nave di Teseo, 2021, pp. 742, € 24.
In copertina: Jean Vigo, L’Atalante, 1934