Marco Maggi: L’immaginazione intermediale, saggio del 2010 appena riproposto da Meltemi, si apriva con un’analisi delle immagini relative alla strage di Beslan, città dell’Ossezia del Nord nella quale, a seguito di un attacco terroristico e del conseguente intervento delle forze speciali russe, perirono 386 persone di cui 186 bambini. In quelle pagine ragionavi sulla mediazione estetica adottata per fare fronte all’esigenza di testimoniare, o, con le tue parole, sulla “rifigurazione” messa in atto per “autenticare” le immagini. A oltre un decennio di distanza, nello stesso quadrante geopolitico la guerra si combatte, con inedita intensità, anche sul terreno delle immagini. Le atrocità commesse ai danni dei civili ucraini rimbalzano da un angolo all’altro della rete, ostentate per suscitare indignazione e intervento o sistematicamente squalificate come falsi.
Cercando di superare lo sgomento che, oltre a tutto il resto, anche questo produce, come analizzi l’attuale guerra delle immagini? Hai osservato la messa in atto di particolari strategie di autenticazione? E su quale piano è possibile contrastare il negazionismo iconico, che non riguarda soltanto la diplomazia russa ma attecchisce sul web a tutti i livelli, anche alle nostre latitudini?
Pietro Montani: Caro Marco, ti ringrazio per l’opportunità, che mi offri, di attualizzare alcuni concetti guida dell’Immaginazione intermediale, a cominciare da quello forse più importante: l’opposizione tra autenticità e autenticazione delle immagini. Tu suggerisci, e io concordo in pieno, che mai come in questi giorni (aprile 2022) noi avremmo bisogno di principi generali e di istruzioni procedurali affidabili per orientarci in una “guerra delle immagini” che ci disorienta e ci sgomenta perché i suoi contenuti documentali, le “immagini della guerra”, ormai ci raggiungono nella condizione di una sconcertante destituzione di forza testimoniale. Penso ad esempio all’habitus – consolidato nei servizi televisivi almeno a partire dalla seconda guerra in Iraq – dell’uso intercambiabile e totalmente decontestualizzato di interi repertori di immagini che vengono riproposti in loop dando per scontato che lo spettatore abbia già sottoscritto un patto relativo alla più totale indifferenza per la loro puntuale documentalità. Da questo punto di vista, non c’è immagine dell’attuale guerra in Ucraina che non avrebbe bisogno di essere riqualificata e “autenticata” ricorrendo a procedure a proposito delle quali, tuttavia, siamo ancora sprovvisti di protocolli specifici anche solo in piccola parte testati e condivisi. Prima di tornare un attimo su questo punto – che vorrei includere in modo non generico nella pratica del fact-checking – sarà bene sottolineare alcune novità rispetto alla condizione mediale degli anni in cui uscì la prima edizione di quel libro (vale a dire 12 anni fa, ma la strage di Beslan, da cui la mia riflessione critica prendeva le mosse, risale al 2004).
Le principali sono tre. 1: Le forme della simulazione digitale (pensa alla realtà virtuale e al deep fake in tutte le sue tipologie) hanno conseguito perfezionamenti impensabili fino a qualche anno fa e non c’è giorno che non se ne prospettino usi sempre più intimamente intrecciati con la vita quotidiana (pensa solo al Metaverse progettato da Zuckerberg e dal suo gruppo); 2: Oggi nei teatri di guerra sono presenti migliaia di Smartphone in grado di garantirne una copertura plurale, stereoscopica e potenzialmente continuativa (era il progetto di Dziga Vertov e dei suoi “Cineocchi”, oggi pienamente realizzato); 3: A ciò va aggiunta la circostanza tecnologica concomitante per cui tutto questo sterminato materiale audiovisivo viene integralmente archiviato nella forma di dati – e relativi metadati – sui quali si possono effettuare le più diverse operazioni di riorganizzazione, ben oltre la profilazione dei relativi produttori.
Ce n’è abbastanza per introdurre una distinzione tra due forme di autenticazione intermediale delle immagini, le quali a loro volta si prestano a disegnare numerose e rilevanti aree di intersezione. La prima, già usata in alcuni casi significativi (penso ad alcuni documenti visivi del massacro di Bucha), consiste nell’incrociare i dati visivi servendosi di fonti diverse ma coordinabili – ad esempio riprese, da varie angolazioni, da satellite, da drone e da terra. Parlerei qui, in primo luogo, di una autenticazione intermediale di tipo forense, destinata cioè a istituzioni quali Human Rights Watch o a veri e propri tribunali di guerra: è da questo lavoro sulle immagini (ma anche sulle registrazioni sonore) che si potranno ottenere i più importanti elementi probatori ai fini dell’attestabilità di eventuali violazioni di diritti o crimini contro l’umanità. Ma lo stesso principio è estendibile, senza mirare a profili giuridici e ad azioni penali, sul piano della documentazione storiografica. E qui abbiamo già un gran numero di esempi, tra i quali basterà ricordare il lavoro fatto da Harun Farocki sui materiali audiovisivi, di diversa provenienza, relativi alla destituzione, al processo e alla condanna a morte di Nicolae Ceaușescu nel dicembre 1989, da cui nacque il film Videogramme einer Revolution (1992). In un breve film successivo, Schnittstelle (1995), Farocki ci offre un vero e proprio modello operativo e procedurale di questo tipo di lavoro schiettamente intermediale: almeno due schermi, una moviola, un foglio su cui il regista prende manualmente appunti comparando le due serie di immagini e infine il suo commento analitico durante lo svolgimento di queste operazioni.

Questi film di Farocki, ai confini tra la documentazione e la rielaborazione originale, ci introducono alla seconda forma di autenticazione delle immagini, identificabile in un fenomeno largamente originale intimamente legato alla tecnologia digitale: mi riferisco al lavoro di appropriazione, rifigurazione e rielaborazione individuale che ciascuno di noi è virtualmente in grado di effettuare sugli archivi del web secondo modalità produttive e sistemi di condivisione che possono essere anche molto diversi in quanto non dipendono da regole pregresse ma dall’iniziativa di ciascun singolo “cineocchio” (se posso di nuovo riprendere il termine coniato da Vertov).
Per limitarsi agli ultimi mesi qualcosa del genere si è già visto, in particolare su TikTok, per gli scontri a Gaza dello scorso anno, il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan e l’invasione russa dell’Ucraina. In questa prospettiva si debbono far valere i peculiari caratteri “estetici” di questa pratica di autenticazione intermediale, avendo cura di intendere questa scivolosa qualifica – “estetici” – nel senso in cui Walter Benjamin contrapponeva l’“estetizzazione della politica” alla “politicizzazione dell’arte”. È un tema specifico che ho discusso in modo puntuale in alcuni dei miei lavori successivi a L’immaginazione intermediale come Tecnologie della sensibilità (Cortina 2014), Tre forme di creatività. Tecnica, arte, politica (Cronopio 2017), Emozioni dell’intelligenza (Meltemi 2020), Destini tecnologici dell’immaginazione (Mimesis 2022). La pertinenza di questa celebre contrapposizione trova oggi una conferma inquietante – e insieme l’invito a un riesame critico a cui qui posso solo accennare – nella circostanza ben nota per cui il Presidente e capo delle forze armate del paese invaso dall’esercito russo, Volodymyr Zelensky, è giunto a conseguire la sua carica, con larghissimo consenso, trasformando in un partito politico, e nel relativo programma populista, una serie televisiva di successo (in questo momento visibile anche in Italia) di cui era il protagonista. Naturalmente, al di là delle doti di fermezza e di coraggio dimostrate da Zelensky, tanto imprevedibili quanto indiscutibili, il punto che merita un adeguato, e spregiudicato, approfondimento critico è da vedere nel fatto che il Presidente ucraino non ha rinunciato in un solo momento a rimodellare sulla situazione attuale, e sulla sua stessa eccezionalità, l’elemento ‘spettacolare’ della sua azione politica e della sua efficacia conformandolo almeno in parte, ma in modo molto marcato, alle regole espressive e alle relative retoriche della comunicazione mediale. La sua, insomma, resta una schietta “estetizzazione della politica” capace di mescolare con un gesto che dovrebbe dissuaderci da ogni inadeguato riduzionismo l’eccezionale gravità di una situazione reale con la ricerca accurata di un’audience mediatica più ampia dalla quale si suppone possano derivare concrete conseguenze di carattere militare.

Marco Maggi: Nel citato Emozioni dell’intelligenza ti soffermi nuovamente sulla questione della testimonianza, osservando che il materiale dell’archivio web può essere rielaborato secondo le tattiche del détournement sviluppate da Debord e dai situazionisti, ma forse più efficacemente attraverso un «trattamento testuale» che ne sviluppi le virtualità intermediali. La questione è stata di recente affrontata anche da Wu Ming 1 in La Q di complotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema (Alegre 2021). Da quali punti di vista ritieni che l’autenticazione intermediale sia più efficace?
Pietro Montani: In effetti io mi muovo su un piano diverso rispetto a Debord, ma anche a Wu Ming e alle forme del cyber-attivismo riferibili alla linea “hacktivista” di Anonymus e analoghi movimenti. Ciò che ho cercato di praticare, soprattutto nei miei ultimi due libri, Emozioni dell’intelligenza e Destini tecnologici dell’immaginazione, è un approccio di natura antropologica a certi fenomeni emersi del tutto spontaneamente in rete e direttamente supportati dalla tecnologia digitale. Mi riferisco a ciò che ho chiamato “scrittura estesa”, vale a dire a quella forma espressiva sincretica, fatta di immagini, suoni, parole, che usiamo ad esempio per comporre i meme o per montare un powerpoint didattico. Una scrittura che tutti pratichiamo, da una quindicina di anni a questa parte, con maggiore o minore competenza e creatività. Il profilo antropologico della cosa sta in questo: che i processi simbolici attivati da questo tipo di scrittura hanno una natura strutturalmente intermediale, cioè si concentrano in modo tematico sugli effetti di senso ottenibili lavorando sulla relazione tra le forme espressive e in particolare sulle loro differenze. Da questo punto di vista, la scrittura estesa esibisce una sorprendente vicinanza col dispositivo tipicamente multimodale dell’immaginazione umana, cioè col fatto che la nostra immaginazione non opera solo in ambito visivo ma anche in ambito tattile, acustico e generalmente senso-motorio. A suo tempo Marshall McLuhan dimostrò brillantemente che la stampa a caratteri mobili aveva potentemente riorganizzato la “leggibilità del mondo” grazie allo schema lineare e sequenziale tipico della scrittura, evidenziando anche i massicci effetti che un tale riorientamento percettivo aveva cominciato a produrre nella cultura umana e nelle sue stesse grandi opzioni epistemiche. Ebbene, io ho cercato di dimostrare che la “scrittura estesa” prevalentemente intermediale oggi largamente praticata in rete possiede intrinseche proprietà di carattere critico e riflessivo. Proprietà che non sarebbe affatto difficile nutrire e sviluppare se solo si predisponessero le infrastrutture necessarie per sottrarne l’apprendimento alla condizione autodidattica (e dunque approssimativa e manipolabile) in cui si trova oggi. Dovrebbe essere il sistema scolastico di base a investire, in tutti i sensi, su questa risorsa espressiva che al contrario, con esiziale miopia, viene condannata e demonizzata. In ogni caso, è evidente che la forma di autenticazione delle immagini che prima ho riferito a un lavoro di appropriazione, rifigurazione ed elaborazione individuale potrebbe trovare, e spesso lo ha già fatto, il suo paradigma di base proprio nel carattere sincretico di questa scrittura tipicamente implementata dalla rete. Com’è ovvio le grandi Corporations che gestiscono le risorse della rete in regime più o meno monopolistico si sono accorte da tempo di questo fenomeno e si sono immediatamente attrezzate per conformarlo alle loro esigenze, innanzitutto mercantili. Ma è altrettanto evidente che il fenomeno è provvisto della stessa logica evolutiva che interessò, a suo tempo, la scrittura lineare, quella alfabetica e la stampa. Per cui si tratta solo di riconoscerlo nel suo specifico rilievo antropologico e nel facilitarne la liberazione dell’enorme potenziale critico oggettivo.

Marco Maggi: Diversamente da coloro che rimarcano la discontinuità tra old e new media, nei tuoi saggi individui una linea che collega TikTok al cinema, o almeno a un certo cinema, quello che ha i suoi primordi nella “cinescrittura” di Ejzenštejn e Dziga Vertov e nelle teorizzazioni sul “discorso interno” dello spettatore di Ejchenbaum. L’elemento di continuità è ravvisato nella comune natura di «scrittura estesa» appena illustrata. In un certo qual modo si assiste a una “letteraturizzazione” del media visivi. Quale destino attende allora la letteratura, quella “tradizionale”, la “scrittura e basta”? Nel tuo ultimo saggio, Destini tecnologici dell’immaginazione, lambisci la questione in un’appassionante interpretazione del Libro di pittura di Leonardo da Vinci, ma la questione mi pare meritevole di approfondimento, anche alla luce di tesi come quella di Amitav Ghosh, che profetizza un progressivo riassorbimento della letteratura nel tessuto dei rimandi intermediali.
Pietro Montani: L’interazione tra letteratura e cinema è stata molto studiata, ma muovendo quasi sempre da una prospettiva, come dire?, materiale o reificata: qui ci sarebbe la letteratura, là il cinema, come entità materiali riconoscibili, e ora andiamo a vedere come l’una influisce sull’altro e viceversa. È una prospettiva che secondo me andrebbe sottoposta a critica – o a decostruzione, se preferisci. Il dialogo a distanza tra il sorprendente approccio teorico sviluppato da Leonardo nel Paragone delle arti (che apre il suo Libro di pittura) e quello che Ejzenštejn articola nei suoi grandi trattati di estetica e teoria delle arti (Teoria generale del montaggio, La natura non indifferente, Il metodo, tutti usciti da Marsilio) mette in evidenza esemplarmente quale dev’essere il giusto modo di procedere. Secondo la mia lettura (che molti anni fa, a Urbino, mi capitò di discutere con Carlo Pedretti, uno dei massimi specialisti dell’opera di Leonardo, il quale si dichiarò completamente d’accordo con le mie tesi) per entrambi la cosa di gran lunga più importante è la qualità del lavoro di integrazione tra le diverse componenti espressive attive nella nostra immaginazione quale si manifesta nel testo letterario e in quello pittorico – o cinematografico, per Ejzenštejn, ma Leonardo ebbe della “pittura” un concetto estremamente estensivo, inclusivo di schemi temporali e dinamici. Se noi accettiamo di assumere il processo di integrazione tra diverse componenti espressive come il criterio principale per un confronto tra letteratura e cinema otteniamo alcuni risultati che considero chiarificanti. Il primo risultato riguarda la messa in luce del vincolo costitutivo (ma anche storico in senso essenziale) che si stabilisce tra la nostra immaginazione e le tecnologie di volta in volta dominanti.
Nel mio ultimo libro dedico molto spazio alla discussione di questo tema, muovendo in particolare dal primo e più determinante tra i “destini tecnologici dell’immaginazione”, vale a dire dallo straordinario lavoro che questa ‘facoltà’ umana dovette affrontare nel momento in cui si trattò di integrare tra le sue componenti espressive niente meno che il linguaggio articolato, la più potente (e per certi aspetti destabilizzante) tra le tecnologie inventate da homo sapiens in un certo momento del suo sviluppo evolutivo specifico. Fu da quel momento in poi che il “pensiero linguistico” cominciò a chiedere all’immaginazione di essere realista, cioè di dargli l’impossibile (se posso riformulare in questo modo un famoso slogan). Questo impossibile fu il mythos, nelle sue forme eminentemente multimodali, e forse all’inizio intrecciate e con-fuse in un ambiente simbolico di carattere potentemente immersivo: oggi abbiamo molte testimonianze, dirette e indirette, del fatto che nelle caverne affrescate, illuminate da torce che ‘animavano’ le immagini dipinte, si eseguisse musica e si danzasse.
Ma a questo realismo ‘impossibile’ dell’immaginazione si dovrà per contraccolpo associare il tasso crescente di medialità immaginativa a cui da quel momento in poi fu sistematicamente sottoposta la realtà materiale. Ciò comportò una progressiva dissociazione e specializzazione delle componenti che nella scena ‘immersiva’ sopra evocata ho presentato nella forma dell’intreccio confusivo (in senso descrittivo e non valutativo). E qui resta insuperato il modo in cui Nietzsche descrisse questo evento, questo “lungo addio” dal magma dionisiaco originario, facendo suo, per rovesciarlo, un pensiero geniale di Hegel: quella relativo alla essenziale intelligibilità storica delle forme artistiche. Mi fermo qui nel descrivere questa relazione tra il reale e l’immaginario alla luce del dispositivo dell’integrazione – o, se preferisci, alla luce della costitutiva intermedialità dell’immaginazione umana –, per aggiungere il secondo elemento di chiarificazione, che ne discende in modo diretto. Infatti, se il dispositivo che ho descritto è adeguato se ne deve concludere che l’emozione estetica, legata com’è al lavoro dell’integrazione immaginativa, è fin dall’inizio un’emozione dell’intelligenza, o un’“emozione della forma”, come la chiamò Vygotskij, dal cui libro sulla Psicologia dell’arte (Editori riuniti 1972) ho tratto il titolo del mio. Nulla più della buona riuscita – o anche dello scacco, sia chiaro! – di questo lavoro integrativo produce emozione. Nella letteratura come nel cinema. Un’emozione tanto intensa quanto intimamente differita, perché si dispiega solo nel contesto di un distanziamento, spaziale e temporale.
Se questo è vero, l’emozione estetica viene sottratta al requisito della sua presunta im-mediatezza e restituita al suo carattere mediato, e dunque anche inter-mediato in senso tecnico. Non sarà inutile aggiungere che gli attuali studi sul fenomeno della coscienza, per sua natura interdisciplinare, ribadiscono la centralità che vi assumono le emozioni, mostrando di poter convergere almeno su un punto, e cioè sul fatto che uno scarto (una dif-ferenza, uno sdoppiamento, una presa di distanza: un elemento di dis-interesse, infine) dev’essersi già sempre insediato nella nostra percezione affinché il lavoro (inconscio) dell’apparato neurale si raddoppi nell’emergenza di un evento coscienziale. In conclusione: quanti più registri espressivi l’immaginazione è tenuta a integrare (ovvero a denunciare di non riuscirci), tanto più elevata la nostra emozione estetica e tanto più intimamente connessa col fenomeno della coscienza (anche critica, si intende). Ogni “paragone” (in senso leonardiano) tra media (prevalentemente) visivi e media (prevalentemente) letterari andrebbe collocato su questo sfondo, di cui andrebbe sottolineata l’inerenza (e dunque l’essenziale storicità) alle tecnologie dominanti e alle grandi opportunità che esse offrono al lavoro (anche politico, come si è visto all’inizio) di un’immaginazione intermediale.
Pietro Montani
L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile
nuova edizione Meltemi, 2021, pp. 128, € 12
Destini tecnologici dell’immaginazione
Mimesis, 2022, pp. 194, € 18
In copertina: una scena dal film Anon, di Andrew Niccol (2018)