Fotosintesi nucleare

Un pescato radioattivo

La fotografia in bianco e nero, sfocata e poco leggibile, mostra la silhouette di un pesce, con la metà posteriore trasparente e la metà anteriore di un bianco lattiginoso. Così descritta, l’immagine non è di alcun interesse, ma è il contesto a restituirne il ruolo unico nella storia della visualità contemporanea. È pubblicata in Operation Crossroads. The Official Pictorial Record (Wise & Co., Publishers, New York), un libro del 1946 che, attraverso 228 illustrazioni, racconta il “Miracle of Modern Miracles”. A quale evento si fa riferimento? All’energia atomica, come riporta la bandella senza ombra d’ironia: “Interi popoli sono inorriditi di fronte allo spettro di questo poderoso Colosso di Potere che esercita una così grande influenza sulle vite e sul futuro di voi e dei vostri figli, che può essere la più orribile e devastante arma di distruzione o il più grande strumento dell’industria moderna, che può distruggere o rivoluzionare l’intera civiltà”. Trattandosi di un miracolo, il tono non poteva che essere trionfalistico.

Il libro ricostruisce nei dettagli gli esperimenti nucleari nelle isole Marshall, quarta e quinta esplosione nucleare americana dopo Trinity, Hiroshima e Nagasaki. Un infimo tassello nell’imponente dispositivo audio-visivo messo in piedi dal governo americano, forte di oltre 50.000 fotografie e chilometri di pellicola girati quel 1 luglio 1946, al punto che l’artista e storica dell’arte Susan Schuppli ha definito questa data come “ il giorno in cui il mondo si è inequivocabilmente trasformato in immagine”[1]. Così venne mostrata alle altre nazioni la potenza nucleare americana.

Non sorprende che nelle pagine di Operation Crossroads non traspaia un briciolo di consapevolezza sull’altra distruzione in corso, quella dell’ecosistema di una regione paradisiaca nel cuore del Pacifico (non sfuggirà la beffa del nome, attribuito da Magellano per le acque chete). Le prime pagine mostrano “la strada del pittoresco villaggio di Bikini”, tra frammenti di corallo e palme da cocco; “uno dei luoghi più remoti sulla Terra” abitato da nativi di cui si sottolinea paternalisticamente il senso dell’umore mentre accettano di essere evacuati da Bikini a Rongerik. Ai ritratti ufficiali di militari impettiti si alterna un’esplosione di cento tonnellate di dinamite, piccolo antipasto di quelle a venire, al fine di distruggere la barriera corallina della laguna che potrebbe interferire con i test, con la navigazione, con lo studio delle onde d’urto sottomarine prodotte dalle bombe. L’immagine di questa esplosione propedeutica è definita una “tempest in a teacup”.

Non manca una parte sui test compiuti sugli animali – 149 maiali, 57 porcellini d’India, 176 capre, 109 topi, 3030 ratti per il solo Test Able – al fine di studiare gli effetti biologici del nucleare. I viventi non-umani sono selezionati in base alle loro caratteristiche fisiologiche: “I maiali sono stati scelti perché la loro pelle e il loro pelo sono abbastanza paragonabili a quelli dell’uomo; le capre perché il loro peso è più o meno simile a quello dell’uomo e i loro fluidi corporei sufficienti per l’analisi. Quattro capre sono state scelte per le loro tendenze nevrotiche” (p. 67).

Mi fermo qui, difficile sfogliare queste pagine senza mal di pancia, mentre ronza in testa l’invito che suggella la presentazione: “Nessuno veramente interessato al futuro può fare a meno di approfittare di questo rapporto ufficiale che rivela le più grandi esplosioni provocate dall’uomo in tutta la storia”. Inutile cercare altro in questa apologia dell’evento catastrofico – qui è in gioco la vita e il futuro dei vostri figli! Fu così che un arcipelago di isole popolato da esseri umani, da una ricca barriera corallina e da altre comunità biotiche diventò il lugubre teatro delle esercitazioni militari.

Torniamo alla fotografia iniziale. La didascalia recita: “Questo pesce chirurgo ingrossato si è saporitamente ingozzato di alghe radioattive, l’alga comune della laguna di Bikini. La pianta stessa ha precedentemente assorbito prodotti di fissione radioattivi depositati nell’acqua dalla bomba atomica. La radioattività delle piante durerà a lungo e non è influenzata dal passaggio nello stomaco del pesce. Precedenti cene simili già digerite e distribuite nel suo corpo sono rivelate dalla radioattività nelle regioni prossime al naso e agli occhi. Il pesce non è stato ucciso dalla radioattività, essendo apparentemente vero che più elementare è la forma di vita, meno è colpita dalla radiazione” (p. 216). Vale la pena di soffermarsi su questa cena indigesta.

No Place to Hide

No Place to Hide. È questo il titolo che il chirurgo David John Bradley sceglie per la sua testimonianza sull’arma nucleare. Pubblicato nel 1948, il suo libro divulgativo, oggi dimenticato, diventa subito un best-seller, probabilmente grazie al titolo di sicura presa. In copertina si legge: “Quello che la bomba atomica può fare alle navi o all’acqua o alla terra, e quindi agli esseri umani, è raccontato assieme alle lampanti ripercussioni per tutti noi da un giovane medico brillante che, per lavoro, controllava la contaminazione radioattiva durante e dopo i test di Bikini”. Testimone privilegiato dell’Operazione Crossroads del 1946 cui partecipa in qualità di “radiation monitor”, Bradley s’interroga sugli effetti radiologici prodotti dall’esplosione sott’acqua e, in generale, sugli effetti ecologici del nucleare, offrendo un resoconto allarmante: “Dimostra innegabilmente che la guerra atomica non ha rimedio, e che la nostra unica speranza è quella di controllare la forza che, una volta liberata, ci distruggerà tutti”, si legge nel risvolto di copertina.

Il suo memoir è agli antipodi della razionalizzazione tecno-scientifica di Operation Crossroads. Le implicazioni non riguardano solo le comunità circostanti, ma anche quelle che vivono sulle coste e devono la loro sopravvivenza al pescato. La prova viene da un esperimento con il pesce palla proveniente dalle acque calde – e irradiate – della laguna nell’atollo di Bikini. Pescato pochi giorni dopo il test nucleare, Bradley lo taglia in senso longitudinale e poggia il suo tessuto grasso su una pellicola fotografica in una camera oscura improvvisata per l’occasione. Nessuna fonte di luce penetra al suo interno, nessuna manipolazione interferisce col processo di sviluppo. La radioattività accumulata negli organi interni è così alta che la pellicola sensibile, sviluppata poche ore dopo, mostra un’impronta negativa del pesce tropicale. Un’apparizione aliena, in realtà il risultato della radioattività accumulata dall’ultimo pasto di alghe, ingerito e non ancora digerito. La luminosità cangiante del bianco rappresenta precisamente i livelli di radioattività accumulata dai suoi organi.

Un caso raro? Il fenomeno viene in realtà riscontrato in tutti i pesci dell’atollo di Bikini, quanto fa ipotizzare a Bradley che la radioattività si trasmetta da specie a specie. Si tratterebbe, in altri termini, di un caso di epizoozia ovvero, apprendo dal dizionario, la diffusione di una malattia infettiva in un territorio più o meno esteso a un gran numero di animali della stessa specie o di specie diverse, eventualmente anche all’essere umano.

Su quest’ultimo passaggio sobbalzo e mi chiedo: chi sarà mai l’essere umano cui Bradley fa riferimento? I nativi dell’atollo Bikini? Tutti gli abitanti delle isole Marshall incluso il personale militare statunitense che partecipa ai test all’oscuro delle conseguenze sulla loro salute? Chiunque abita sulle coste a una distanza calcolabile dall’epicentro? Le popolazioni che si cibano di pesce del Pacifico? Tutti gli esseri umani presenti sulla Terra quel 1 luglio 1946? O qualsiasi essere vivente che non era ancora nato al momento dei test, inclusi voi che state leggendo (e i vostri figli)?

Non dimentichiamo il terribile monito di Ulrich Beck dopo l’ultima catastrofe nucleare in Giappone: le vittime di Fukushima non sono ancora nate! Come se il nucleare ci mettesse davanti non solo a una responsabilità verso il futuro, ma anche a una nuova forma di trauma in cui non si ha alcuna esperienza diretta dell’evento traumatico – un trauma senza evento.

Bradley, che segue l’espansione della radioattività nella catena alimentare, non ha una risposta sull’impatto di Operation Crossroads: “Non sappiamo a quali distanze da Bikini la malattia causata dalle radiazioni possa estendersi. Non possiamo prevedere fino a che punto l’equilibrio della natura sarà sconvolto dalle bombe atomiche… Bikini non è un piccolo atollo remoto localizzato fuori mano su una mappa. Bikini è la baia di San Francisco, Puget Sound, East River, il Tamigi, l’Adriatico, lo stretto dei Dardanelli e il nebbioso lago Bajkal” – e così via, viene da aggiungere. All’epoca non si parlava di Antropocene che, secondo il geologo e paleobiologo Jan Zalasiewicz – direttore del gruppo di lavoro sull’Antropocene della Commissione internazionale di stratigrafia – inizierebbe simbolicamente il 16 luglio 1945 col Trinity test, quando la radioattività artificiale viene diffusa nell’aria. (Petit rappel: l’emivita del plutonio è di 24.500 anni).

Basta la foto dell’apparato digestivo di un pesce per ritrovarci tutti coinvolti nell’era nucleare – No place to hide, il titolo del libro di Bradley non potrebbe essere più sinistro e opportuno.

Radio-autografia

Il contatto tra due epidermidi, tra due superfici sensibili – quella del pesce sezionato e quella della pellicola fotografica – finiscono per produrre un’immagine negativa, quella del nucleare stesso. Nasce così la “radio-autograph” o radio-autografia, come già riportato dalla didascalia del resoconto ufficiale in cui è pubblicata candidamente. L’apparato politico-militare non si rende conto di cosa quest’immagine rende visibile. Sotto il pesce palla osserviamo due alghe radioattive simili a coralli: “Queste ‘radioautografie’ sono state realizzate mettendo i soggetti su una pellicola fotografica durante la notte”. Richiamerebbero l’esperimento sulla radioattività naturale di Antoine Henri Becquerel nel 1896 quando, lavorando su sostanze fosforescenti come i sali di uranio, scopre accidentalmente che, a contatto con una carta fotografica, questa restava impressa anche in assenza della luce solare. L’uranio non era solo fluorescente ma emetteva anche radiazioni. Il pesce palla diventa per Bradley quello che l’uranio era per Becquerel.

La radio-autografia è legata così alla scoperta dei raggi X e della radioattività naturale: “Entrambe queste tecnologie sperimentali hanno trasformato la materia solida in una traccia d’immagine spettrale senza il coinvolgimento del sole, precondizione necessaria di tutte le prime pratiche fotografiche”, secondo Schuppli[2]. Nasce l’immagine-fantasma o il fantasma tecnologicamente indotto, la smaterializzazione delle forme solide. La radioattività modifica lo stato della materia, modifica il dispositivo fotografico e, col nucleare, modifica la struttura del vivente.

Ora, se la radio-autografia fa pensare alla radiografia, in realtà siamo davanti a un processo opposto: nella radiografia il corpo è attraversato dai raggi X senza emanazione interna come accade nel corpo del pesce tropicale. Secondo Schuppli si tratta di un nuovo tipo di fotosintesi, di una fotosintesi nucleare. Non lontana, secondo lei, dalle sagome e dalle ombre incise su pietra e cemento dai corpi delle vittime delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki: “Le radio-autografie, pur essendo tecnicamente stampe a contatto, non richiedono l’intercessione di un agente esterno per portare nel campo visivo la dinamica della materia mutante, visto che l’oggetto radiologico si espone in effetti ‘automaticamente’”[3].

Conclusioni che sfuggono alla propaganda di Operation Crossroads, attenta solo alle fotografie più impressionanti, quelle delle esplosioni nucleari, quelle dei funghi atomici. Così spettacolari che le cento tonnellate di dinamite che riducono i coralli a poltiglia producono giusto “una tempesta in una tazza di tè”. Poco più che una lucciola nella notte, questa è la foto del pesce-fantasma. Eppure non si tratta di un semplice passaggio dagli effetti aerei agli effetti sottomarini, ma del passaggio da un elemento rarefatto e difficilmente pensabile come l’atmosfera alla biosfera e alla biologia, ovvero al dominio della vita, al vivente, cioè a noi stessi.

E questa fotografia tocca la sfera del vivente nel modo più intimo che si possa immaginare: non una colonna di fumo che si spande nel cielo e si fa nuvola tossica, ma pura tossicità accumulata negli organi interni attraverso il cibo che ingeriamo. “La radio-autografia costituisce un nuovo segno della modernità, reso visibile semplicemente mettendo l’essere biologico sulla pellicola fotografica. La firma energetica innaturale della creatura produce allora la propria immagine negativa, disegnata nella forma speculare di organi e orifizi contaminati”, secondo l’antropologo Joseph P. Masco[4].

Non c’è più un pericolo a distanza di sicurezza, diffuso nell’aria circostante, non c’è più un Fuori – e l’Antropocene è stato descritto anche come la fine del Fuori –, ma una luminescenza aliena che pulsa nelle viscere stesse del vivente.

Seguendo Masco, la radio-autografiadel pesce palla irradiato si fa immagine, in finale, di un’ecologia nucleare mutante o di un’ecologia radioattiva. Che, in quanto tale, ha le sue date-chiave: 16 luglio 1945 (Trinity Test), 1 luglio 1946 (Operation Crossroads), 29 settembre 1957 (incidente della centrale sovietica di Mayak), 10 ottobre 1957 (incidente della centrale di Sellafield in Inghilterra), 26 aprile 1986 (Chernobyl, di cui ricorre oggi l’anniversario), 11 marzo 2011 (Fukushima), i 179 esperimenti nucleari francesi in Polinesia…

E l’Italia? Presto, c’è da temere, si accenderanno le proteste delle comunità locali contro l’annunciata costruzione di un deposito di stoccaggio delle scorie nucleari. Nessuno vuole sul proprio territorio un’infrastruttura simile, nessuno tra i 67 luoghi sparsi in Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna individuati nella Carta delle aree idonee (Cnai) dalla Sogin, la società pubblica incaricata di smaltire i rifiuti radioattivi, che rischia di essere commissariata e il cui sito internet è irraggiungibile. Dal governo sperano in una auto-candidatura… che finirà per essere imposta dall’alto? Nel frattempo, se il passato del nucleare appartiene a un futuro imperscrutabile, abbiamo dovuto sentire il ministro della transizione ecologica (!) promuovere un ritorno del nucleare sul nostro territorio “oltre l’ideologia”, ed accusare gli ambientalisti di essere “peggio della catastrofe climatica”. Parole dure, certo, ma è in gioco il futuro, il vostro e quello dei vostri figli.


[1] Susan Schuppli, Radical Contact Prints, in John O’Brian (a cura di), Camera Atomica (Black Dog, London 2014), pp. 277-291, cit. p. 280. Si tratta di una delle migliori mostre sul rapporto tra immagini e nucleare.

[2] S. Schuppli, Radical Contact Prints, cit., p. 283.

[3] S. Schuppli, Radical Contact Prints, cit., p. 279.

[4] Joseph Masco, Mutant Ecologies: Radioactive Life in Post-Cold War New Mexico, in “Cultural Anthropology”, vol. 19, n. 4, 2004, pp. 517-550, cit. pp. 524-25.

Le immagini che accompagnano l’articolo sono tratte dal libro Operation Crossroads. The Official Pictorial Record, Wise & Co., Publishers, New York, 1946

insegna Teoria e storia dell'arte all'università Panthéon-Sorbonne di Parigi. Attraversa spesso i confini – non solo geografici – tra la Francia e l’Italia e, a volte, quelli transatlantici. Collabora con la Fondazione ICA di Milano, scrive per cataloghi di mostre, pubblicazioni accademiche e non, cartacee e digitali, tra cui “Artforum”, “Alias - Il Manifesto”, “Flash Art”, “doppiozero”. Armato di matita, stila spesso liste di progetti accarezzati, fattibili o chiaramente implausibili.

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