Il 22 febbraio del 1987 moriva Andy Warhol, artista spartiacque per comprendere l’evoluzione dell’arte contemporanea degli ultimi sessant’anni. Warhol aveva, infatti, inaugurato un tornante dei linguaggi artistici che, facendo piazza pulita della visione elitaria degli espressionisti astratti, catapultava la prassi artistica nella quotidianità dei processi produttivi della società tardo capitalista. Non si trattava più di inventare una nuova lingua visiva, non si trattava di creare un nuovo pubblico, di permettere di vedere il mondo in modo nuovo, ma di adottare i linguaggi già ovunque presenti – e dunque comprensibili a chiunque – della pubblicità, del mercato, dando così vita a un’industria culturale, a una factory dell’immaginario. La figura stessa dell’artista diveniva con Warhol brand, prodotto, marchio, icona. Parabola dell’arte contemporanea, quella inaugurata da Warhol, che troverà la sua massima icastica nel definitivo: “il valore di una mia opera è il suo prezzo”, pronunciata alcuni anni dopo da Jeff Koons.
Nel 1980, Warhol ingaggiava un diciassettenne, particolarmente dotato, per lavorare alla sua rivista Interview. Il ragazzo aveva da poco inaugurato la sua prima personale alla 303 Gallery di New York. Di lì a breve, le fotografie di David LaChapelle illustreranno le copertine delle maggiori riviste del mondo. Il giovane LaChapelle ritoccava i negativi delle proprie immagini, colorandoli a mano (il ragazzo si era formato con la pittura) e ottenendo risultati di stampa davvero sorprendenti e unici. L’immaginario era quello del mondo edonistico degli anni ’80, che il giovanissimo David immergeva in un’atmosfera che, a ragione, è stata definita kitsch pop surrealista. Warhol era riuscito a scovare un altro talento del linguaggio pop e lo aveva lanciato sulla scena. Scena che, a partire dalla fine crepuscolare del sogno del mercato a crescita infinita, LaChapelle non ha più abbandonato.

Quel che sorprende, visitando la mostra retrospettiva che il Mudec gli ha dedicato in questi giorni, è constatare come la traiettoria di LaChapelle sia caratterizzata da un’estrema coerenza e come il suo corpus assuma i tratti di un’allegoria infinita della decadenza di una civiltà, quella Occidentale, in cui sopravvivono elementi sublimi sotto le spoglie (e le macerie) di un immaginario plastificato e votato all’irrealtà, non tanto da intendersi come una dimensione altra dal reale, quanto come la riduzione del reale a insieme di simulacri commerciali privi di consistenza.

È noto che LaChapelle non fa uso di Photoshop, anche se, a prima vista, le sue immagini sembrano tutte, o quasi, frutto di un lavoro di postproduzione. In effetti, il suo gesto fotografico mostra come la realtà contemporanea superi la finzione digitale: è il reale stesso che si è situato nell’irrealtà. Nessuna necessità di un metaverso, perché il reale è già virtuale. I corpi sono corretti, rimodellati, ridefiniti. La natura è un set cinematografico immersivo, assorbito e determinato da effetti speciali. LaChapelle non è un fotografo surreale, non aggiunge un elemento di surrealtà al reale, ma mostra quanto il reale del tardo capitalismo sia surreale in sé, nel suo stesso cuore.

In questo, in questo sguardo realista al quadrato, potremmo definirlo così, LaChapelle si pone, forse involontariamente o, comunque, non del tutto consapevolmente, come uno dei critici più feroci del mondo che l’ha generato. Il suo lavoro non è certo, come verrebbe facile ipotizzare (e come viene fatto), da avvicinare ad artisti come William Blake o Odilon Redon o Gustave Moreau, visionari che riportano in questo mondo secolare immagini dall’altro mondo, quanto a un Courbet o a un Manet, cioè, a lucidi e disincantati pittori della vita moderna.

LaChapelle mostra quel che è sotto gli occhi di tutti, quello che invade in ogni istante il nostro campo visivo, il cuore pulsante dell’irrealtà nel corpo stesso del reale. Mostra un mondo di rovine. Cerca di salvare il salvabile. Si interroga su cosa sopravviva della nostra storia, artistica e spirituale, nella narrazione in loop e da soap opera dei nostri anni. Ricerca elementi di spiritualità dove non c’è che prosaica ricerca di successo mondano. Inserisce iconografie rinascimentali all’interno di un immaginario da campagna pubblicitaria di una a scelta tra le s.p.a. del mondo del fashion. Talvolta i risultati visivi sono sorprendenti; talvolta sono fagocitati dallo stereotipo, dal cliché che è più forte della possibilità creativa del singolo. Anche di questo, di questa lotta impari tra l’individuo e il sistema, testimonia l’opera di LaChapelle: il gesto critico, la volontà di uno sguardo capace di mostrare le contraddizioni del linguaggio visivo dominante, viene anestetizzata, inglobata, fagocitata dal sistema che si dimostra infinitamente più potente del singolo, della singolarità dell’individuo.

Uscendo dalla mostra la sensazione è quella di straniamento di fronte alla storia visiva di una civiltà – ormai non più solo quella occidentale, come si pensava all’inizio degli anni ’80, ma quella globale – che si riproduce ciecamente, incapace di vedere davvero un altro mondo oltre il terremoto, il diluvio che, sempre più, presagiamo attenderci. Forse con LaChapelle si chiude il ciclo dei pittori della postmodernità. Forse, ora, occorrono nuovi visionari, che ci traghettino al di là del diluvio.

David LaChapelle – I Believe in Miracles
A cura di Denis Curti e Reiner Opoku
Mudec, Milano
fino all’11 settembre 2022
In copertina: David LaChapelle, After the Deluge: Museum, Los Angeles 2007