Lo spazio delle donne nel nuovo cinema francese

21/04/2022

Di fronte ad alcuni dei film presentati dalla rassegna Rendez Vous. Festival del nuovo cinema francese (iniziativa giunta nei giorni scorsi alla sua XII edizione), accomunati dall’essere incentrati su storie di donne alla ricerca di uno spazio di libertà, indipendenza, visibilità, riconoscimento e felicità, irresistibile è stata la tentazione di ricorrere a una chiave interpretativa da poco proposta da Daniela Brogi in una “Vela” Einaudi intitolata appunto Lo spazio delle donne.

Riflettendo sullo spazio come “campo di espressione e verifica delle identità”, la Brogi sottolinea quanto, specie per le donne, abbia “funzionato come cifra di un destino imposto”. La costellazione di spazi, chiusi, marginali, dimenticati, con cui spesso l’esperienza femminile si è identificata ed è stata raccontata, è una spia del modo in cui è stata percepita e considerata la sua storia. L’aspetto più interessante della sua riflessione però è la proposta di rielaborare il passato e lo spazio delle donne “trasformando il fuori campo” (cinematograficamente parlando: tutto ciò che è stato lasciato fuori dall’inquadratura) in “fuori campo attivo, vale a dire in pensiero, discorso e visione che restituiscono presenza a ciò che è stato fatto tacere”. Per far ciò è necessario guardare al contempo sia “allo spazio che le donne non hanno avuto” che a quello che “hanno avuto, ma che è stato reso invisibile, irrilevante, dimenticabile”. Si tratta in genere di “storie di coraggio, di lotta, non solo individuale, ma collettiva”, in cui le donne compaiono come protagoniste o come soggetti ai margini, “invisibili, ma non assenti” da una storia che non appartiene solo a loro. Recuperando i riferimenti teorici del femminismo della differenza (contro la falsa retorica della parità di genere), Daniela Brogi suggerisce la necessità di affrontare il racconto (storico, critico, letterario, cinematografico) dell’esperienza femminile, con prospettive e parole nuove che tengano conto della irriducibile specificità del loro modo di stare al mondo, della qualità diversa “di voce, di sguardo e di immaginativa”.

In alcuni dei film di Rendez Vous, ci sembra di poter leggere come quest’esigenza e questo intento sembra essere condiviso e, nella coralità delle sue espressioni, diffuso. Quattro film, in particolare, sono storie di donne appunto. Storie di distacchi e storie di rinascita, nelle quali appare confermato quanto sia adeguata la simbologia dello spazio per leggere il valore di quelle esperienze, il valore che loro stesse si riconoscono o cui ambiscono. Ma soprattutto pare evidente come attraverso queste storie il nuovo cinema francese abbia inteso rappresentare (o solo immaginare) una società più sensibile ai sistemi di valori che l’universo femminile offre.

Twist à Bamako

Parla di spazi contesi Twist à Bamako (di Robert Guédiguian) dove, all’interno della contraddittoria vicenda del processo di decolonizzazione del Mali, una donna tenta la fuga dal “recinto” del villaggio in cui la costringe un matrimonio convenuto. Lara vive una situazione di semi-reclusione e attraverso la fuga cerca di sottrarsi alla sua sorte di donna-schiava. Il film, incentrato sulla storia d’amore tra Lara e Samba, un giovane attivista del movimento socialista, mostra tutta la difficoltà di una emancipazione “guidata” che ignora, o finge di ignorare, il profondo divario culturale dei paesi colonizzati. La condizione sociale e giuridica della donna, e l’involuzione autoritaria del processo di decolonizzazione, portano a un epilogo tragico che coinvolge i personaggi della storia, distruggendo legami familiari e prospettive ideali. Ma quella breve esperienza a Bamako, dove Lara insieme alla musica occidentale e al socialismo vive la scoperta di una dimensione d’amore fatta di rispetto reciproco, lascia un segno, o meglio un sogno, custodito attraverso l’ascolto clandestino della musica twist. Spazio strappato alla legalità di uno stato autoritario per tener vivo il ricordo della libertà vissuta, quella musica, che ormai vecchia Lara balla insieme alle nipoti, le dà il coraggio di appropriarsi anche dello spazio fisico necessario per ascoltarla sognante, col suo cellulare, nell’ultima scena del film. Con un atto di disubbidienza ulteriore, scoprendosi i capelli bianchi dal velo, balla davanti a uomini in divisa che, interdetti dall’affronto, la regia pone sullo sfondo, sfocati. Sebbene la loro presenza rimandi purtroppo al perdurare di un regime di oppressione, fuori campo – almeno per un po’ – ci sono loro.

Rose

Rose di Aurélie Saada è la storia di una donna di settantotto anni, interpretata da una meravigliosa Francoise Fabian, che dopo la morte improvvisa del marito rischia l’implosione della sua esistenza, condotta fino a quel momento adempiendo al suo ruolo di moglie e madre. Consuma i suoi giorni annoiata davanti una tv e viene trascinata a reagire da tre figli preoccupati del suo stato. Dopo vani tentativi tra cene chiassose, forzate soste nei caffè e massaggi in lussuose spa, quando finalmente un incontro con un uomo, più giovane di lei, la fa sentire ancora viva e desiderabile, Rose rinasce al desiderio di godersi la vita, o quello che ne resta, come dice lei. Sfugge alla solitudine aprendosi a una dimensione sociale che le restituisce ottimismo e vitalità. Cerca compagnia giovane nei cafè, si trucca, scopre la vodka, bevuta prima solo dal marito, ma soprattutto scopre un mondo fuori dello spazio chiuso della sua vita precedente. La reazione dei figli è di totale disappunto. Nella scena finale, in un sincero colloquio con loro “adulti esemplari” ma infelici, Rose si confessa dicendo che il dolore non può negare il diritto alla felicità. E, nella maturata consapevolezza di questa complessa convivenza di contrasti che è la vita, afferma il diritto a vivere la sua ricerca della felicità in quello spazio residuale che è la vecchiaia, il quale invece di essere conteso e negoziabile è ormai per lei irrinunciabile.

Violette

Il terzo film è Violette, di Martin Provost, che ci racconta una storia dimenticata, un’esistenza vissuta a margine di altre: quella di Violette Leduc, scrittrice che ha faticato ad affermarsi e le cui vicende si sono svolte dietro le quinte dei salotti dell’intellighenzia francese, esistenzialista e di sinistra, nella Parigi post-bellica. Raccontando la sua esistenza, vicino a quelle della più famosa Simone de Beauvoir che la incoraggia a scrivere ma evita di condividere con lei altro, il film mostra come la storia sia quasi sempre quella raccontata dai vincitori al proscenio. Seppur sostenuta da Simone de Beauvoir la vita di Violette, insieme ai suoi romanzi, finisce nell’abisso dell’indifferenza, ai margini della storia, nonostante l’indiscutibile merito riconosciuto alla sua scrittura da Sartre e Camus (significativamente assenti dalla scena del film). Importante anche in questo caso la simbologia degli spazi: eofferenza e miseria di Violette abitano uno spazio marginale, un piccolo, cupo e malandato appartamento di una sola stanza, definito da sua madre una topaia.

Solo quando dopo un ricovero, con tanto di elettroshock, Violette decide di ripartire da sé sperimentando spazi nuovi, trova il suo posto. Perdendosi in un viaggio solitario in Provenza trova una casa tutta per sé, stavolta piena di luce, e sotto la protezione del monte Ventoux ricomincia a scrivere. Quando a Parigi le due scrittrici si ritrovano nella nuova casa di Simone de Beauvoir, sebbene più bella e spaziosa della prima, questa nuova abitazione tradisce il vuoto della solitudine della scrittrice ormai affermata. Ora è Simone che si espone nella sua fragilità e solo decidendo di sostenere con una prefazione l’ultima opera di Violette, unendo le loro forze, sapranno sfuggire insieme i loro abissi. Se in primo piano c’è questa vittoria sulle loro fragilità, e l’agognato riconoscimento di Violette come scrittrice, fuori campo, invisibile, c’è la presenza di un potere maschile e una cultura non ancora pronta a riconoscere la complessità e la forza di una donna che con la scrittura ha lottato per uscire dagli spazi claustrofobici della propria sessualità negata, della propria solitudine esistenziale e invisibilità sociale.

Les Passagers de la nuit

La storia che viene raccontata in Les Passagers de la nuit, infine, è quella di una madre con due figli che vive il lutto devastante della separazione da un marito che l’ha lasciata: e sembra evocare quello spazio delle donne che la Brogi definisce “fuori campo attivo”. Nel film di Mikaël Hers, Elisabeth (interpretata da una straordinaria Charlotte Gainsbourg) è una donna priva di caratteri speciali, vive l’anonimato di chi non ha avuto ambizioni di affermazione e ha condotto la sua vita dedicandosi alla famiglia e crescendo insieme a lei. Ora nella sua nuova condizione, senza lavoro, si ritrova faccia a faccia con la sua fragilità e il senso della sua inadeguatezza nella lotta per sopravvivere. È dotata di sensibilità, come dice suo padre, ma non è certo cosa da scrivere sul curriculum vitae, in assenza di competenze da offrire. Nonostante ciò, risale la china grazie a una donna (ancora una volta) colpita dal tono della lettera che le ha mandato in cerca di lavoro. Un colloquio sincero di queste due solitudini, fatto di sguardi e intuito, è l’occasione per ripartire e sentirsi di nuovo necessaria. La vita di Elisabeth ricomincia a scorrere grazie alla straordinaria disponibilità di chi non esige niente ma sa solo dare, grazie alla sua “porosità” esistenziale. Nella sede della radio dove lavora di notte, incontra Talulah, una giovane senza fissa dimora che rischia di perdersi; e se ne prende cura fino a includerla nella sua famiglia. Vuoti che compensano vuoti. Ma insieme, come solo le donne sanno fare. Anche in questo caso lo spazio che la giovane ospite occupa in quella casa riflette la sua condizione: una stanzetta-sgabuzzino, spazio minimale di scarto come è la sua vita, a contrasto con un altro luogo dove salire a fumare una sigaretta: il tetto dell’edificio da cui guardare la città, abitata da altre vite, nella quale presto tornerà a confondere la sua. Intanto i figli crescono e la vita di Elisabeth migliora, grazie anche a un altro lavoro part time in una biblioteca. Elisabeth sembra vivere in questi interstizi, concessi da una società che non riconosce il suo valore, senza troppo soffrirne. Anzi; in questo spazio avviene l’incontro con un uomo, colpito dalla sua gentilezza nei confronti di una anziana utente della biblioteca: quella sensibilità, non rubricabile sul suo curriculum, che non l’ha mai abbandonata.

In lei ci sono gentilezza e fragilità, di cui dà prova il seno rimasto dall’aggressione di un tumore, e finalmente mostrato sullo schermo; ma c’è anche forza, tanta forza, per fare di un distacco, una separazione, un lutto, una rinascita dove l’amore si espande ad altre figure con la capacità di amare senza possedere, come mostra il suo lasciar andare i figli e il suo abbandonare la vecchia casa coniugale, spazio ormai simbolicamente lontano, legato ad una condizione del passato. Della sua vita precedente salva solo l’essenziale che consegna ai figli: due oggetti che simbolicamente incarnano l’inizio e la fine della sua esperienza di moglie e madre, la sua eredità più intima e preziosa, un amuleto per la fertilità e un diario scritto dopo la separazione: la confessione della sua fragilità e il senso di inadeguatezza con cui ha imparato a convivere senza farsene sconfiggere. Insomma, una vita fuori campo che mostra nella specifica forza gentile della resilienza femminile il suo maggiore acquisto e la sua eredità.

Le vicende raccontate da questi film non solo suggeriscono una riflessione sull’importanza della resistenza e della resilienza, risorse femminili che rendono possibili “rivoluzioni gentili”, ma ci fanno anche notare come questo avvenga grazie a uno spazio dato alle donne e alle loro storie che nell’insieme può funzionare, ricorrendo ancora alle parole della Brogi, come “fuori campo attivo, vale a dire come tipo di messa a fuoco dinamica che genera dubbi e domande intorno a ciò che si vede, creando una dialettica tra ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia è implicato”. E ci si può chiedere se questa tendenza a decostruire un sistema simbolico e paradigmi valoriali legati a una cultura patriarcale e maschilista, così evidente in questi esiti francesi, sia altrettanto presente nel nostro paese.

In copertina: film still da Les passagers de la nuit, di Mikhaël Hers, 2022

Roberta Colombi

insegna Letteratura italiana all’Università di Roma Tre. Si è occupata del romanzo barocco (“Lo sguardo che s’interna”, Aracne 2002), di letteratura umoristica dell’Ottocento (“Ottocento stravagante. Umorismo, satira e parodia tra Risorgimento e Italia unita”, Aracne 2011 e “Un umorista in maschera. La narrativa di Antonio Ghislanzoni”, Loffredo 2012) e di letteratura del Novecento, con saggi su Pirandello, Gadda, Palazzeschi, Svevo. Infine, oltre ad aver curato un volume collettaneo “Risorgimento tra Storia e finzione” (Cesati 2021), è autrice di un volume di prossima pubblicazione presso Carocci, dal titolo “La verità della finzione. Storia e romanzo da Manzoni a Nievo”.

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