Cadaveri squisiti

20/04/2022

Come tutti sanno il «cadavere squisito» è un gioco surrealista, iniziato a Parigi nel 1925, nel quale si chiedeva a più persone di comporre una frase suggerendo in sequenza parole casuali, e la prima frase ottenuta con questo metodo fu proprio: le cadavre exquis boira le vin nouveau. Lo stesso avviene con immagini che vengono disegnate da più mani, nascondendo il foglio via via che il disegno avanza, in modo da formare una figura d’insieme incongrua, mostruosa e ridicola.

Ils ont tué une femme le printemps été vivante au bord de la piscine: questo è il cadavere squisito che viene alla mente aprendo le pagine 6 e 7 del «Corriere della Sera» dell’8 aprile scorso: pagine correttamente gender nella preminenza di figure femminili, morte (la mano disseccata con la fede al dito sembra quella di una donna anziana) o vive e splendenti con l’indicazione spring summer 2022 (modelle che incedono sul bordo di una piscina luminosa mentre due maschi efebici, in scala minore, sono relegati in basso). Immagini di vita reale dove la morte irrompe lercia e devastante accanto ad altre di vita illusoria, colma di modelli mercantili di lusso e di bellezza sfavillante e imbronciata. Nessuno pare scandalizzato da questa associazione discordante: un accostamento che avrebbe certo scandalizzato il Pasolini degli Scritti corsari, da tutti osannato in questo centenario, ma, nella sostanza ben poco ascoltato. Eppure, di questi tempi si viene subito ripresi se non si sta attenti a nominare questioni di razza con l’aggettivazione più corretta, oppure si scrivono mail usando forme neutre, né maschili né femminili, seguendo una ideologia e una narrazione centrale nella società post capitalista occidentale, dove la libertà del desiderio sessuale (non tanto i diritti sociali connessi) è diventata la rivendicazione che ha sovrastato e annullato ogni istanza di diritto al lavoro e al welfare. Diritti che erano fondamento delle democrazie europee novecentesche.

Se il surrealismo rimane forse l’unica fra le avanguardie novecentesche ad avere mantenuto piena vitalità fino a oggi, veicolato nell’immaginario contemporaneo perfino dalla cinematografia onirico-distopica, che associa desideri e sogni alla realtà, e li mostra compresenti a forza di effetti speciali digitali, sarà bene chiedersi, oltre la radice figurativa surrealista, cosa permetta l’accettazione piana di un simile accostamento nella sospensione di qualunque giudizio etico, o semplicemente di pudore. Accettazione che avviene anche in qualunque programma televisivo quando si interrompe un ragionamento o un servizio di guerra per lanciare la pubblicità, dimentichi di uno slogan in vigore trent’anni fa, «non s’interrompe un’emozione», ormai sorpassato nella separazione dei principi economici dal sistema di giudizio. Ma in un programma televisivo la frattura avviene in sequenza temporale e fa meno effetto, mentre sulla stampa il discorso per immagini è compresente e dirompente.

Man Ray, Yves Tanguy, Joan Mirò, Max Morise, Cadavre exquis, 1928

C’è da chiedersi quanto simili accostamenti, ai quali siamo abituati da decenni, abbiano influenzato e influenzino la nostra concezione della verità: di fronte alla sempre maggiore miscredenza di larghe fette di popolazione che dubitano della bontà dei vaccini, della barbarie della guerra o perfino della rotondità della terra (a suo tempo dimostrata, secondo Diogene Laerzio fin dai tempi di Pitagora, ragionando con un’astrazione matematica anziché secondando i sensi). Ma anche solo guardando all’intrattenimento si poteva forse intuire che dopo trent’anni di programmi televisivi di cucina, dove alla sfera della speculazione filosofica o anche poetica si antepone la mera esperienza sensoriale, si sarebbero aperte delle crepe nel ragionamento critico delle masse.

Guardando il problema dal punto di vista delle arti, tale tendenza merita invece una riflessione sull’attuale commistione tra vero e falso, tra verità e post-verità: una commistione ancora postmoderna nel disimpegno dichiarato dalle immagini dominanti della moda e della merce presentate come unico oggetto del desiderio. Nella storia dell’arte dei secoli passati si è sempre osservato come quasi mai, nei momenti di guerra o di peste, tali emergenze apparissero nei ritratti di uomini e donne che quei momenti stavano vivendo. E questa regola vale ancora oggi, se si osserva l’abitudine di rappresentarsi riversando sui social immagini che mostrano una vita costellata di bei luoghi, cibi succulenti, aperitivi, moda e vacanze, con gesti e oggetti chiamati a rimuovere illusoriamente ogni problematica di denaro, lavoro o affetti che possano affliggere coloro che quei social usano come luogo in cui occultare ogni crepa esistenziale. Questo è pure il senso dell’alternarsi di fatti efferati, guerre e morte con figurazioni lussuose di simboli di splendore esistenziale: j’adore, dice una modella nella pubblicità di un profumo immergendosi in una piscina di oro liquido, mostrandoci la realtà del desiderio fra le notizie della madre e del suo bambino mangiati dai maiali (si muore ancora così) e quelle di un incidente stradale. Si ricorderà come già Andy Warhol avesse accostato l’immagine del volto ridente e felice di Jacqueline Kennedy a quella dello stesso viso velato al funerale di JFK ucciso a fucilate davanti alle telecamere.

Andy Warhol, Jacqueline Kennedy III (Jackie III), 1966

A voler guardare al passato, una rappresentazione di morte e di splendore esistenziale accostati appariva anche in forma simbolica nelle pale d’altare rinascimentali, dove il corpo martoriato di san Sebastiano era figurato accanto a sante martiri splendidamente abbigliate secondo l’alto rango delle famiglie d’origine di fanciulle devote, con vesti di broccato dai ricami mai insanguinati. Ma quella incongrua associazione di morte e di mondano splendore prometteva una vita ultraterrena a chi si inginocchiasse di fronte al dipinto, accettandone il messaggio. Così davanti a quella pala d’altare postmoderna con radici pop che sono le pagine del «Corriere» (dove anche la sproporzione dei corpi rimanda alle convenzioni retoriche della pittura nordica non vincolata da prospettiva matematica, con i personaggi religiosi più importanti rappresentati più grandi) si chiede di inginocchiarsi acriticamente di fronte al messaggio figurato, dove il pathos della morte era subito sciolto nel maggior liquido di diluizione conosciuto, quello del desiderio.

Desiderio che diventa specchio e tramite di un illusorio ideale esistenziale, nel quale la guerra è una frattura momentanea che viene anch’essa estetizzata nelle immagini che i corrispondenti dal fronte riversano a pioggia sui sistemi d’intrattenimento. Del resto, esiste anche oggi l’estetica dell’orrore, e come nelle pale d’altare rinascimentali si indugiava sui particolari efferati del martirio accanto a gesti e abiti eleganti, nelle pagine del «Corriere della sera» il rapporto fra l’abbaglio dell’anello al dito della mano fangosa e rattrappita nella fotografia di guerra e quello dei gioielli indossati dalle modelle ne è un (involontario?) esempio.

Se nella lettura di quelle immagini, oltre al cadavere squisito surrealista, ci si volesse appoggiare ad un altro metodo più antico di costruzione retorica, si potrebbe notare che sulle due pagine del quotidiano si propone, accostando fotografie di figure dalle dimensioni incongrue, un accostamento di simboli sfasati nel tempo e nello spazio ma uniti dalla compresenza fisica sullo stesso piano immaginario. Un sistema di che rimanda alle modalità di costruzione delle immagini secondo le strutture dell’arte della memoria care a molti retori e artisti fra Quattro e Cinquecento (sul tema vedi gli studi ormai storicizzati di Frances Yates e Lina Bolzoni). In quelle immagini mnemotecniche si accostavano in uno stesso spazio figurato imagines agentes: immagini simboliche capaci di richiamare alla mente un discorso fatto di parole, che nel caso specifico è esattamente quello già riportato: ils ont tué une femme le printemps été vivante au bord de la piscine. Un discorso retorico per immagini dove il mercato, intangibile ed esterno all’etica, sovrasta ogni valore ed emergenza sociale: anche la guerra.

Del resto già Nicholas Mirzoeff (Come vedere il mondo, Johan & Levi 2015) ha avvertito che «il falso è emblematico della globalizzazione, e oggi è spesso difficile distinguerlo dal cosiddetto ‘vero’» e di come, per gli individui «questo curioso e asimmetrico rispecchiamento del falso è l’epitome del modo di vedere tipico della città globale». Nella sopravvenuta impossibilità di distinguere il vero e falso in immagini accostate incongruamente tornano alla memoria anche le parole di Baudelaire al Salon del 1859 contro i “nuovi credenti”, i «nuovi adoratori del Sole» che veneravano i dagherrotipi e credono che la fotografia dia tutte le desiderabili garanzie di accuratezza: «da quel momento, la lurida società si precipitò, come un unico Narciso, a contemplare la sua banale immagine sul metallo». Ma oggi «abitiamo l’immagine e l’immagine ci abita», scrive Joan Fontcuberta (in La furia delle immagini, Einaudi 2018), citando Debord: «là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono degli esseri reali». Se in quelle due pagine del «Corriere» tutto è vero perché è stato fotografato, tanto la morte che lo splendore, le due sfere scorrono tuttavia su binari paralleli il primo dei quali (la morte in guerra) è sottoposto al giudizio etico, mentre il secondo (lo splendore esistenziale proposto del mercato) ne è svincolato, come possono esserlo solo le leggi di natura.

Il collante che permette alle due verità di coesistere è il sistema dell’intrattenimento, specialmente quello hollywoodiano, che Marc Fumaroli (Paris-New York e ritorno, Adelphi 2011) ha indicato come il grimaldello che nel Novecento ha scardinato per esempio la secolare sintassi francese delle arti, ma più in generale le categorie di giudizio dell’intera società occidentale. Nel sistema dell’intrattenimento tutto è falso ma anche vero allo stesso tempo, e lo stordimento maggiore derivato dalla commistione dei due piani è stato raggiunto poche sere fa sulla rete televisiva La7 dove nello stesso programma si alternavano i proclami di un presidente vero, votato democraticamente, di uno stato sotto assedio e martoriato dalle bombe, accanto allo sceneggiato dove la stessa persona recitava il ruolo di presidente della propria nazione in una serie televisiva che, dopo aver modificato il sentire di quella nazione, lo aveva poi realmente portato alla vittoria elettorale e alla guerra, e quindi a parlare ai parlamenti europei non più come attore ma come presidente in maglietta verde militare. Il corollario estetico dei due programmi erano le immagini di cadaveri veri, abbandonati per giorni nelle strade e mantenuti integri dal freddo.

Dal punto di vista dell’espressione artistica, tale spostamento della realtà nel sistema dell’intrattenimento ha oltretutto incoraggiato, nell’arte di questi anni, un nuovo realismo figurativo talvolta ironico, grottesco o anche distopico, ma sempre didascalico: esercitato con la pretesa di rappresentare la realtà sociale che ci circonda attraverso immagini anche casuali, estratte dal ritmo dell’esistenza. Questo “realismo pubblicitario” già quasi trent’anni fa ha prodotto immagini clamorose e fulminanti come La nona ora,con Papa Wojtyla atterrato da un meteorite lanciato da Maurizio Cattelan, ma oggi si è diffuso in una dilagante pittura figurativa che pretende di indagare le fratture della società e invece ripresenta solo immagini fotografiche spesso derivate dall’immaginario della moda.

Maurizio Cattelan, La nona ora, 1999

Fra i tanti esempi, si pensi all’opera di Jenny Saville o di Lynette Yadom-Boakye: due pittrici che ritraendo volti martoriati (nel primo caso) o personaggi afroamericani contemporanei (nel secondo), pretendono di raffigurare criticamente le incrinature della nostra società, ma in effetti sottostanno alle categorie estetiche che nelle fotografie fashion regolano gli abiti, i gesti, le fisionomie dei modelli e delle modelle.

L’osmosi vale nei due sensi, ed è evidente nell’influsso della stessa Yadom-Boakye sull’immaginario della discografia pop, come nel video della cantante Solange Don’t Touch My Hair (2016). Nel primo Ottocento atteggiamenti simili, anche di presunta critica sociale, venivano riassorbiti in un prescritto circolo che oggi è quello del nuovo puritanesimo “social”, che magari cancella un post con la Venere d’Urbino di Tiziano perché è nuda e ha una mano sul sesso.

Si sa come la fotografia di consumo sia tra le fonti maggiori della pittura non solo americana del Novecento, a partire dalla diffusione dei principi della pop art in artisti europei – primo fra tutti Gerhard Richter – nella cui opera il realismo socialista si è saldato con quello pragmatico del capitalismo, in un amalgama che corrisponde perfettamente alla pragmatica accettazione delle regole dei mercati finanziari, come fossero leggi di natura, da parte della maggioranza dei partiti progressisti europei. Un insieme, quello richteriano, che è stato uno dei principali motori della pittura dal secondo dopoguerra a oggi, esercitando un influsso paragonabile solo a quello di Picasso sulle arti della prima metà del Novecento: sono tutti figurativi i tanti epigoni di Richter esposti nelle mostre d’arte di oggi, e in tutti loro la fonte d’ispirazione è sempre l’immagine fotografica della realtà e mai la realtà stessa. Sempre Fontcubertaaveva indicato come oggi «siamo immersi nel capitalismo delle immagini», ma aveva concluso ottimisticamente che «i suoi eccessi, più che sommergerci nell’asfissia del consumo, ci pongono di fronte alla sfida della sua gestione politica».

A contemplare le due pagine del «Corriere», però, si entra subito in quel metamondo che viene oggi presentato come ultima frontiera dell’intrattenimento, destinato a chi non ha sufficienti strumenti relazionali o possibilità economiche per permettersi il mondo vero, ma anche a coloro che quei mezzi li hanno ma preferiscono vivere nella sicurezza della propria immaginazione. Il Mercato come nuova Natura e nuova Teologia, svincolato dall’etica, diventa allora l’unico campo nel quale la guerra, gli stili della moda e quelli della pittura si fondono come immagini guida della nostra libera vita di consumatori: dispersi sui social fino a quando qualcuno sparerà davvero alla finestra.

In copertina: Cadavre Exquis with Valentine Hugo, André Breton, Tristan Tzara, Greta Knutson. Landscape. c. 1933 ©MoMa, New York

Carlo Falciani

insegna Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Firenze ed è curatore indipendente. Ha studiato all'Università di Firenze ed è stato fellow a Villa i Tatti, Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, e al C.A.S.V.A della National Gallery di Washington. Ha pubblicato monografie sul Rosso Fiorentino, sul Pontormo, e saggi sull’arte rinascimentale e contemporanea. Ha curato: al Museo Jacquemart-André di Parigi la mostra “Florence, portraits à la cour de Médicis”; a Palazzo Strozzi a Firenze la trilogia “Bronzino, pittore e poeta alla corte dei Medici”, 2010-2011, “Pontormo e Rosso, divergenti vie della maniera”, 2014, “Il Cinquecento a Firenze”, 2017-2018; per il Metropolitan Museum di New York la mostra “The Medici. Portraits and Politics”, 2021.

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