Lorenzo Lotto tra visione e rivelazione

La Crocifissione (1529-1534) di Monte San Giusto è un’opera grandiosa, collocata in una piccola chiesa marchigiana. Lorenzo Lotto trascina chi entra nel suo campo visivo in un senso di smarrimento. Subito in primo piano rappresenta il dolore della madre e delle persone care a Cristo. I crocifissi sono arretrati, in secondo piano, in alto, lambiti dal sopraggiungere dell’oscurità che squarcerà la terra. Vicino alle croci c’è una barriera di soldati, cavalli e lance, intrecci di gesti e di sguardi. In questa visione, a livello simbolico, compositivo e pittorico, il pittore veneziano mostra un punto impercettibile nell’ampio spettro dell’universale. Tutto freme come una scossa elettrica, che scorre di figura in figura, di mano in mano, fino a spingersi al di là dagli spazi immaginabili di una dimensione celeste, verso un luogo che non è mostrato, al confine col mondo divino. Il dipinto induce il fedele a perdersi nella prigione o nel vasto universo del suo sguardo, per considerare quel che è in confronto a quello che esiste.

Lotto rende visibile un enigma di ciò che lui ha percepito dentro l’immaginazione, cercando di andare oltre il limite del suo pensiero:

[…] l’immagine tende all’infinito e conduce all’assoluto. […] Se il mondo è enigmatico, anche l’immagine è enigmatica. L’immagine è una sorta di equazione che indica il rapporto esistente tra la verità e la nostra coscienza limitata dallo sguardo euclideo. Nonostante che noi non siamo in grado di percepire l’universo nella sua totalità, l’immagine è in grado di percepire tale totalità (Paul Celan, La poesia di Osip Mandel’stam, in “La verità della poesia”, Torino 1993, p. 49).

Si affida alla visionarietà per percepire, anche attraverso i sensi, una rivelazione. La cerca attraverso la realtà, come fosse una sfida, in un corpo a corpo continuo con la tangibilità delle cose. La cerca con uno sguardo simile a quello dei più interessanti pittori lombardi del suo tempo, con il lume del verismo di stampo nordico. Però nelle sue opere intende fissare qualcosa che abbia la forza di durare di più di quanto faccia il tempo della realtà stessa. Per questo, aderente alla verità delle cose e della vita stessa, insegue qualcosa che illumini da fuori. Ricerca una sorta di intuizione dell’estasi.

L’impianto della Crocifissione di Monte San Giusto è un lavoro immenso per ricercare una risposta, un senso della verità nell’istante reale di un evento drammatico come l’uccisione del figlio di Dio. Si sente, in questo immenso lavoro, che Lotto ha sofferto molto per tentare di raggiungere qualcosa di indicibile. Ed è quel tentativo che lui ha fatto, quella lotta per lo statuto del vero, a dare una forza superiore a un’opera che è già geniale per le scelte formali che precorrono le ricerche dei grandi del Seicento: certi risultati pittorici e i cavalli presenti nel dipinto lottesco sarebbero piaciuti moltissimo a Diego Velázquez e Antoon van Dyck.

Alcuni dettagli e il volto drammatico del ladrone alla sinistra di Gesù avrebbero attirato l’attenzione di Goya, se fosse venuto nelle Marche a vedere l’opera. Questa pala è un salto nel tempo, una traduzione formale in anticipo, un momento di illuminazione. Verità osservata più in profondità. La sua grandezza sta nel riuscire a far capire che il mondo è così com’è, con tutte le domande che rimangono continuamente lì, al contempo in uno stato di sospensione perenne e pronte per essere rimesse in azione nel continuo rinvio di incontrare risposte ultime. Nella messa in scena della crocifissione, le smorfie dei soldati tradiscono la pietà per l’uomo che hanno crocifisso. Dalle fessure degli occhi del centurione posto sotto la croce partono domande che raggiungono ogni spettatore: “Che cosa è accaduto? Che sta accadendo? Cosa accadrà da qui in avanti? In quale tempo siamo proiettati qui dentro?”

Il gesto dietro la schiena mostra qualcosa che rimane un enigma, forse un senso di colpa inesprimibile a parole, forse un segno in codice. Solo sguardo e gesto per il malumore dell’animo. Lo sguardo melanconico del centurione pare aprirsi a domande sempre più universali: “Chi può tergere questa ferita? Perché siamo così infelici sotto questa croce?”

E il fruitore è continuamente chiamato in causa, portato nella scena, condotto sempre più dentro ogni dettaglio lenticolare. Il grande delitto, l’uccisione di Dio, è stato compiuto dalla superficialità degli uomini, la quale lascia che si compiano continuamente altri efferati delitti in ogni frammento della storia. Qui viene mostrata la pura infelicità degli umani. L’irrequietezza spirituale, nella scena, dà luogo a una gamma di stati d’animo che va dalla malinconia alla disperazione, dallo stupore all’indifferenza, descritta con un’eloquente trasparenza. La vertigine travolge le persone in primo piano. Non vi è più nulla di saldo al mondo nello svenimento della madre di Cristo. Tutto è cosparso di frammenti passionali e di tensione emotiva. Gli individui rappresentati nella pala si abbandonano a qualcosa che è toccato in sorte e che opprime, in un appuntamento col dramma. Agghiacciati dalle responsabilità che ora creano brividi nel corpo, i soldati romani fanno scorrerie dentro l’accettazione di ciò che hanno commesso.

Il sacrificio di Cristo sulla croce è strettamente legato alle lacrime che sgorgano dai volti di chi l’ha amato profondamente. In questo pianto della visione primordiale emerge sia una “verità degli occhi” sia l’apparire di qualcosa che porta profonde emozioni. In questo rapporto tra lo sguardo e la realtà, le lacrime segnano un momento necessario per sentire una rivelazione:

Ora, se le lacrime “vengono agli occhi”, se dunque possono anche velare la vista, forse rivelano, nel corso stesso di questa esperienza, in questo corso d’acqua, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini […]. In fondo, in fondo all’occhio, quest’ultimo non sarebbe destinato a vedere, ma a piangere. Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscir fuori  dall’oblio in cui lo sguardo la tiene in riserva sarebbe niente meno che l’aletheia, la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero così la destinazione suprema: avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo. Prima ancora di illuminare, la rivelazione è il momento delle “lacrime di gioia” (J. Derrida, Memorie di cieco, p. 152).

Lotto mette in opera una possibilità per chi è disabituato a vedere l’essenza dell’essere. Mostra che la lacrima è un viatico per saper vedere oltre il velo delle apparenze. L’umore quintessenziale dell’occhio determina la visione vera del reale. In questa prospettiva costruisce la sua visionarietà, e la offre ai suoi spettatori, per spingerli a deformare il presunto reale che continua a scorrere, e ancora oltre, per indurli all’apertura verso il teatro dell’anima, alla pietà e alla comprensione, negli innumerevoli collegamenti della memoria.

C’è una forza sottile, un’entità fluttuante, come se scorresse di cuore in cuore a toccare tutte le forze messe in campo nel momento drammatico. Lotto indaga la presenza delle rivelazioni fulminee. I volti dei suoi attori – nella pala  commissionata dal vescovo di Chiusi e legato apostolico Niccolò Bonafede per l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria della Pietà in Telusiano – lasciano intravvedere qualcosa che non riescono ancora a comprendere, fremono per qualcosa, come di un’inaccessibilità delle passioni, lì sul confine con il tramontare delle cose. I parenti, gli amici e gli apostoli di Cristo paiono distanti da sublimi pensieri, soffocati dalla potenza inaspettata dei sentimenti e del dolore. Paiono fissati come in un frame momentaneo, entro una vasta infinità che attende la ripresa dello svolgimento cinetico della rappresentazione sacra. Ammutoliti dalla forza misteriosa che sta mettendo in atto un evento superiore alla loro capacità di capire.

È tutto un digradare di sensazioni, sostituito da un’incolmabile solitudine. In secondo piano, i soldati sembrano compressi uno vicino all’altro in uno spazio troppo ristretto per contenere tutti i loro pensieri taciuti. Noi possiamo scorgere qualcosa, osservando i loro gesti. Lotto dispone i personaggi nella sua pala d’altare come fosse un elaborato calcolo matematico, però con l’ausilio della libertà e del caso (quel caso calcolato dal genio istintivo), per giungere alla costruzione visiva atta a far scorrere lo sguardo dei fruitori nei vari passaggi delle espressioni, dei gesti, dei rumori e dei silenzi. Lotto non vuole volutamente dire se vi sia qualcosa che è più sbilanciato verso il male o se tutto ciò che sta accadendo sia un male necessario per far trionfare qualcosa di infinitamente compiuto, nella condizione meravigliosa della necessità e della chiarezza. I soldati che hanno crocifisso Gesù hanno l’animo vile o sono solo incolpevoli strumenti del volere di Dio? A Lotto interessa mostrare che essi si dolgono, indicano, cercano sguardi di complicità o di comprensione, provano vergogna, sono adombrati dal rimorso, morsi dalla paura, frustrati dal senso di colpa, dopo essere stati posseduti dall’odio e dall’impulsività o dopo aver obbedito a ordini dei loro superiori. Qualcuno, in questo affanno dell’anima, riesce a fare un salto in un’esperienza mistica.

Longino è già proiettato in una conversione fulminea. Protende le braccia verso la luce di Cristo in croce. Il suo cavallo volge il capo in direzione di chi sta al di fuori della scena. Lotto cerca di innescare un collegamento con chiunque abbia bisogno di trovare conforto, come Longino, entro la visione esatta di una luce superiore. Qualcun altro rimane impietrito a osservare ciò che resta del proprio auto-disperdersi in questo evento drammaticamente enigmatico. Un uomo si aggrappa al legno della croce del ladro non redento, cerca con lo sguardo il perdono di Cristo, persuaso a cedere all’illusione di essere salvato dall’alterazione del pensiero e dall’abbrutimento dell’anima. Un altro centurione si incammina, guardando anch’esso in direzione di noi spettatori, come imitando il portacroce, per fuggire dall’estremo residuo del prosciugamento spirituale. Lotto, insomma, rappresenta il mescolarsi del male e del bene, le contraddizioni della nostra civiltà, la manifestazione morale di un evento molto complesso, seguendo una strada nascosta, a buona distanza dal curialismo pedante del suo tempo.

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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