Le Metaspore di Anicka Yi

Ecosistemi metamorfici e politiche dei sensi

«Quando due mani si toccano, quanto sono vicine? Qual è la misura della loro vicinanza?», riflette Karen Barad[1], «Quali formazioni disciplinari della conoscenza, partiti politici, tradizioni religiose e culturali, autorità competenti per le malattie infettive, funzionari dell’immigrazione e decisori politici non hanno un interesse, se non una risposta commisurata, a questa domanda?». Ogni apertura al mondo, in quanto tensione verso l’Altro da sé, porta a contemplare la propria alterità costitutiva. Dove finisco io e dove cominci tu? Quali implicazioni sociali, politiche, culturali ed etiche e quali potenziali affetti e paure chiama in causa il contatto con l’alterità?

Questi interrogativi mi risuonano in testa mentre accedo a Metaspore, prima antologica italiana dell’artista coreano-americana Anicka Yi (Seul, 1971), a cura di Fiammetta Griccioli e Vicente Todolí. L’esposizione visitabile in Pirelli HangarBicocca (fino al 24 luglio 2022) raccoglie oltre venti installazioni realizzate da Yi nell’ultimo decennio, in collaborazione con i professionisti del proprio studio e gli esperti dei più disparati campi del sapere.

Questioni di soglia

All’entrata della mostra mi imbatto in Immigrant Caucus (2017), un’opera che sembra a prima vista ostacolare un possibile contatto. Concepita in occasione della personale dell’artista presso il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, “The Hugo Boss Prize 2016: Anicka Yi, Life Is Cheap” (2017), l’installazione agisce da spartiacque fra l’atrio d’ingresso del museo e lo Shed di Pirelli HangarBicocca, disponendo il fruitore in uno stato psicofisico peculiare.

Anicka Yi, Immigrant Caucus, 2017, veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022
Courtesy l’artista, 47 Canal, New York, Gladstone Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano ph. Agostino Osio

Componendosi di una grata di ferro scura che sbarra l’accesso all’area espositiva dal soffitto al pavimento, l’opera coinvolge il pubblico in modo inaspettato: dai tre nebulizzatori di acciaio inox posti all’estremità inferiore della cancellata si sprigiona un aroma che, saturando l’ambiente, destabilizza i confini del soggetto, penetrandovi dalle cavità nasali. La brutalità che caratterizza la barriera metallica – un richiamo alle forme di contenimento degli immigrati messicani che, in entrata dalla frontiera americana meridionale, venivano sottoposti a pratiche di sanitizzazione[2] – si ritrova nel flusso di molecole odorose che trapassano il corpo del fruitore.

L’opera evidenzia la connessione tra l’apprensione legata all’odore e la paura dell’Altro. A tal proposito, introducendo il concetto di biopolitica dei sensi, Yi riflette sui modi in cui questi sono disciplinati da concezioni stereotipate di classe, genere ed etnia: l’esperienza sensibile del mondo risulta condizionata da bias cognitivi che portano a strutturare nicchie privilegiate e classi discriminate di popolazioni – umane e non.

Al misurarsi con Immigrant Caucus l’alterità radicale è assimilata, sotto forma di particelle invisibili, come componente costitutiva del Sé. La vaporizzazione della sostanza genera una soglia d’interazione, un punto di contatto tra interno ed esterno, un’interfaccia. Così come descritta da Laura Tripaldi in Menti parallele. Scoprire l’intelligenza dei materiali,nella sua accezione chimica l’interfaccia «non è una linea immaginaria che divide i corpi gli uni dagli altri, ma è piuttosto una regione materiale, una zona di confine dotata di massa e spessore […] in cui due sostanze, dotate di proprietà chimico-fisiche diverse, si incontrano. […] in cui due corpi diversi si intrecciano tra loro per formare uno stato della materia completamente nuovo»[3].

La fragranza che si sprigiona nell’aria è un profumo trans-specie: realizzato da Yi in collaborazione con alcuni scienziati della Columbia University e il profumiere Barnabé Fillion, tale profumo ibrida le componenti chimiche del sudore di donne asiatico-americane, la cui forza lavoro è spesso sfruttata, con quelle delle emissioni delle formiche carpentiere, note per nidificare in cavità nascoste scavate all’interno di tronchi d’albero. Associando forme di organizzazione e condizioni di vita di due gruppi sociali differenti – nel linguaggio politico statunitense, il termine caucus indica un’assemblea volta a coordinare l’azione di una collettività – Yi porta alla luce l’esistenza di comunità invisibilizzate. Creando le condizioni olfattive per un’esperienza psichica condivisa tra insetti ed esseri umani, l’artista immagina una realtà alternativa dove le gerarchie del vivente risultino erose, in cui razzismo e specismo vengano dissolti nel riconoscimento dell’interconnessione multi-specie del mondo.

La soglia può dunque intendersi come frontiera difensiva dall’Altro indesiderato – animalizzato, razzializzato, femminilizzato – ma anche come interfaccia, come dimensione dello scambio osmotico tra sostanze e membrane molteplici. Centrale, nella poetica dell’artista, è lo studio dei processi metabolici dell’organismo e l’ibridazione fra l’umano, il non-umano e il macchinico, nel tentativo di invalidare l’idea di corpo come entità biotica autosufficiente e autonoma.

A questo riguardo, l’opera Auras, Orgasms, and Nervous Peaches (2011) può leggersi come la rappresentazione metaforica di un organismo e dei suoi processi regolatori, il suo corpo geometrico ricorsivamente attraversato da un flusso di nutrienti assimilati – olio d’oliva – e trasformati in materiali di scarto. Fuoriuscendo da altrettanto metaforici orifizi – tre aperture circolari collocate, ad altezze diverse, su una facciata esterna del parallelepipedo che è l’opera – rivoli quasi impercettibili d’olio sprigionano un odore peculiare e ne rigano la superficie, per essere poi reimmessi in circolo da un’apposita pompa. Realizzata in bianco per la sua prima presentazione, la versione nera dell’opera esposta in Pirelli HangarBicocca può far pensare a un black mirror, portando a interpretare la fuoriuscita di liquido come lacrimazione oculare – una conseguenza dell’uso prolungato dei dispositivi digitali che imperversano nell’orizzonte visivo contemporaneo. Nell’Occidente moderno, l’atto di rapportarsi al mondo è principalmente mediato dalla vista e il visuale occupa un posto di primaria importanza anche nel campo delle arti. Attraverso l’utilizzo di materiali volatili – come il profumo – invisibili a occhio nudo – come i microorganismi – o legati all’ambito culinario, Yi mira a scardinare il primato retinico occidentale, auspicando una riattivazione di sensi da tempo atrofizzati. L’artista promuove infatti un approccio sinestetico[4] in grado di coinvolgere l’intero apparato sensorio[5], per approfondire un’esperienza e una comprensione multimodali dell’esistenza.

In Skype Sweater (2010/2017) l’idea di corpo si fa disincarnata: il titolo dell’opera è infatti un’allusione alle piattaforme di comunicazione digitale – e a Skype in particolare – dove l’elemento fisico risulta smaterializzato in un flusso di byte spesso carente di parte dell’informazione trasmessa.
Ricollegandosi tematicamente a Immigrant Caucus, Skype Sweater è inoltre un commento politico sui flussi migratori. In particolare, si riferisce alle vicende legate alla trafficante di migranti Cheng Chui Ping (1949-2014), che dalla metà degli anni Ottanta fino agli anni duemila ha fatto entrare migliaia di persone cinesi a New York.

Un candido paracadute militare, animato da ventilatori elettrici posti al di sotto della sua superficie, l’opera si configura come un enorme polmone sintetico. Su due dei tre piedistalli che ne tratteggiano il perimetro, presenta una borsa trasparente contenente un intestino di mucca e una scultura di sapone alla glicerina da cui si dipartono dei tubi di gomma: entrambi gli elementi concorrono a reintegrare l’idea complessiva di corpo, esemplificandone organi e condotti dell’apparato digestivo e respiratorio.

Skype Sweater porta a riflettere sul concetto di metabolismo: fondamentale nella poetica dell’artista, questo riguarda il modo in cui, nella società, gli individui assimilano e trasformano determinate idee, generando giudizi e scale di valori. Afferma l’artista: «Mi riferisco [a molte delle mie sculture] come a stomachi, per via della mia ininterrotta conversazione sul metabolismo – su come siamo metabolizzati nei sistemi e su come metabolizziamo volontariamente noi stessi e gli altri […] Lo stomaco è un secondo cervello»[6].

Questioni di scala

Scomponendo i processi biologici nelle loro unità più elementari, solitamente impercettibili all’occhio umano, Yi rende manifeste le diverse agentività implicate nella trasformazione della materia. Ne è un chiaro esempio l’opera presentata alla Biennale di Taipei del 2014 Le Pain Symbiotique (2014) in cui, giocando con l’idea di trasparenza, l’artista concepisce un grande ‘stomaco’ in PVC al cui interno è ospitata una popolazione di microrganismi. La simbiosi evocata dal titolo, ossia, la coesistenza tra specie viventi diverse, è all’origine dell’impasto che contamina gli elementi installativi inglobati nell’opera: tavole di sapone alla glicerina raffiguranti forme colorate astratte. Alludendo al processo di fermentazione reso possibile dall’azione di batteri e lieviti, su alcune delle superfici scultoree sono proiettati video di entità microbiche in movimento. Questo e altri processi biologici non potrebbero attivarsi senza l’aiuto di specifici enzimi. Il pane, derivato della cooperazione tra agenti microscopici differenti e alimento base nella dieta di molte culture, diviene simbolo della condivisione, di un modello d’esistenza basato sulla consapevolezza dell’interdipendenza fra specie.

Giustapponendo componenti sintetiche e industriali a elementi organici ed effimeri, Anicka Yi sfida la nozione di monumentalità spesso associata all’arte, l’idea che l’opera debba necessariamente sopravvivere nel tempo come reliquia della storia umana. Fondendo la rappresentazione della vita (fiction) con la vita stessa (biologia), l’artista dà corpo a ecosistemi metamorfici dove la simbiosi fra entità biotiche e inorganiche propone un nuovo modo di concepire il mondo, evidenziando la necessità di ripensare alle categorie ora associate al vivente. In particolare, interessata a scardinare la dicotomia tra organismi biologici e macchine, Yi ha iniziato a considerare queste ultime nella loro identità di corpi e intelligenze, provando a immaginarne una storia evolutiva divergente rispetto a quella umana. L’atto di “biologizzare la macchina”, concezione alla base di una serie di opere che vede in Biologizing the Machine (tentacular trouble) (2019) o Releasing The Human From The Human (2019-2020) alcune fra le sue prime formalizzazioni, non ne implica un assoggettamento alla prospettiva biologica umana. Al contrario, Yi vi si riferisce, ricollegandosi al concetto di Artificial Physical Intelligence (A.P.I.), come a una forma di intelligenza incarnata legata a un peculiare corpo e apparato sensorio, un’intelligenza che emerge dal fatto di essere, entità materiale e senziente, nel mondo e in co-evoluzione con altre forme di vita[7]. Presentate nello stesso anno, rispettivamente, negli spazi dell’Arsenale in occasione della 58. Biennale di Venezia e nella mostra We Have Never Been Individual presso la Gladstone Gallery di Bruxelles, le due opere sopra citate si configurano come entità ibride di intelligenza artificiale e apparati organici. Composte da colonie di crisalidi realizzate impiegando l’alga laminaria bruna (kelp) – la più grande biomassa sulla Terra e la più antica forma di vita sul pianeta – queste strutture biomorfe sono abitate da insetti animatronici[8], organismi meccanici che, aleggiandovi all’interno, generano un suggestivo gioco di ombre. Rispetto a queste opere l’artista afferma: «Volevo focalizzarmi sul […] sensorio della macchina e sulla sua suscettibilità all’infiltrazione biologica e all’ibridazione»[9].

Decentrando i parametri spazio-temporali con cui siamo soliti approcciarci alla vita, Anicka Yi lascia emergere un punto di vista più-che-umano: una complessità di scale dimensionali micro e di temporalità geologiche distanti che concorrono a definire una forma radicale di presente, dove il passato profondo e l’immaginazione di un futuro a venire partecipano della costruzione dell’attuale.

Con una simile riflessione, Tobias Rees introduce la nozione di “Microbiocene” sostituendola a quella di Antropocene nel designare la presente era geologica. L’autore propone questa “tempospettiva”[10] come «il mondo [così] come emerge dalla prospettiva del virus»[11], ponendola alla base di un nuovo paradigma politico. Da sempre l’unica autentica prospettiva di vita terrestre, essa annovera come il prosperare planetario sia intrinsecamente legato al prosperare di ogni specie, riportando al centro del discorso i concetti di interconnessione e interdipendenza, fondamentali a comprendere i modi attraverso cui tutti gli organismi sono legati fra loro e con la biosfera.

Biologizing the Machine (spillover zoonotica)(2022), versione attualizzata dell’opera presentata ai Giardini per la 58. Biennale di Venezia nel 2019[12], sin dal suo titolo richiama il vincolo relazionale esistente tra gli agenti organici e abiotici di un ecosistema. La zoonosi indica il processo tramite cui una malattia infettiva è trasmessa dagli animali all’essere umano, in un ‘salto di specie’ (spillover) simile a quello che ha veicolato la pandemia di Covid-19. Come sottolinea Elizabeth Povinelli[13], il virus, parassita che necessita di legarsi ad altre entità biologiche per sopravvivere, decostruisce la relazione binaria tra le categorie del vivente (Life) e del non-vivente (Nonlife). Ciò, secondo Anicka Yi, dimostra l’ineluttabilità delle fuoriuscite all’interno dei flussi che attraversano costantemente corpus di conoscenze e corpi materiali, dando origine a quelle che lei definisce leaky ecologies. Cicli di crescita, decadimento e stasi caratterizzano l’attività degli ecosistemi microbici che compongono l’installazione in Pirelli HangarBicocca. Commissionata e prodotta dalla stessa istituzione in collaborazione con il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, l’opera si presenta come un carotaggio del terreno locale, di cui costituisce il ritratto genetico, batterico e geologico. Componendosi di sette teche rettangolari contenenti colture di Vinogradskij[14], ossia un insieme altamente diversificato di alghe e batteri del suolo in continua evoluzione, l’opera assume una rilevanza time-specific, oltre che site-specific. Reagendo alle variazioni di ossigeno, luce e temperatura dell’ambiente – monitorati da un’apposita scheda elettronica che ne verifica lo stato di salute – gli ecosistemi cambiano composizione e colore, restituendo un’immagine astratta della propria complessità. L’opera è, insieme, rappresentazione pittorica e presentazione materiale del paesaggio microbico di Milano: un esempio di biofiction[15] che, integrando la componente speculativa, ossia d’interrogazione su scenari alternativi, con quella biologica della coltura microbica, prospetta l’avvenire di ibridi robotici multi-organismo.

Anicka Yi, Biologizing the Machine (spillover zoonotica), 2022, veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Opera commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca, Milano Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano ph. Agostino Osio

Questioni di genere

Allo scopo di offrire una forma di visualizzazione delle ossessioni e delle ansie della società contemporanea, prime fra tutte quelle per la pulizia e il contagio, Yi utilizza i batteri – e/o la loro rappresentazione – come materia prima di molti suoi lavori. Ne è un chiaro esempio l’installazione che, composta da due pareti prospicienti (Effectively Synergizing Backward Overflow e Ice Water In The Veins [2015]), ciascuna ospitante tre sculture poste all’interno di apposite nicchie retroilluminate, si configura come un corridoio d’accesso alla mostra in Pirelli HangarBicocca. Costellata da una serie di stampe adesive circolari raffiguranti batteri osservati al microscopio (Orbis Mundi Is Yours to Take in Hand [2015]), l’opera manifesta l’importanza sociale dei rituali legati all’igiene. Elevate a icone della contemporaneità, le sculture di sapone alla glicerina, che spesso ricorrono nelle formalizzazioni dell’artista, inglobano materiali provenienti dal mondo della cosmesi e del laboratorio clinico (fra questi, tubi in lattice, lame di rasoio, piastre di Petri, per citarne alcuni).

Gli elementi prelevati dall’ambito medico presenti in Shameplex (2015) chiamano in causa un corpo radicalmente altro. Componendosi di sette vasche rettangolari dal fondale verde fosforescente, contenenti del gel per ultrasuoni all’interno del quale sono disposti degli spilli nichelati secondo precise configurazioni geometriche, l’opera è un chiaro rimando al corpo femminile: il gel è infatti quello utilizzato per le ecografie. Più precisamente, il rimando è a quelle che Donna Haraway definisce “tecnologie di visualizzazione”[16]: analizzando le trasformazioni sociali che nel tardo ventesimo secolo hanno influenzato una considerazione del corpo come componente biotica o sistema di comunicazione cibernetica, Haraway nota come in ambito medico i corpi delle donne abbiano assunto confini sempre più permeabili alla visione e all’intervento. Questo induce a interrogarci, ancora oggi e in riferimento a tutte quelle che vengono considerate come unità dispensabili della popolazione umana e non: chi detiene il potere di controllo sui corpi?

Il corrodersi, in Shameplex, degli spilli metallici a contatto col gel attiva un processo di ossidazione che sviluppa una colorazione arancione: come sette metaforici grembi le sculture che compongono l’opera, all’apparenza fredde e minimali, ospitano la gestazione di xeno-creature, postulando l’idea di un’ontogenesi abnorme e capace di scardinarsi dalle tassonomie con cui l’essere umano ordina il mondo. Citando Rosi Braidotti: «Benvenuto il nuovo immaginario mostruoso che prende in prestito antichissime immagini e iconografie e le affibbia a mostri elettronici, corpi bionici e apparati cibernetici. […] nel suo desiderio prorompente di uscire dall’immaginario putrefatto del vecchio patriarcato»[17].

Anicka Yi, Metaspore, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, 2022 Courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano ph. Agostino Osio

Si ricollega a istanze femministe anche il progetto espositivo “You Can Call Me F”, concepito dall’artista nel 2015 per lo spazio di The Kitchen, a New York. Ispirato dall’epidemia di Ebola che, scoppiata in Africa occidentale nello stesso anno, ha avuto ripercussioni in alcune zone degli Stati Uniti, il progetto legava la paranoia per il contatto infetto alla crescente inquietudine nei confronti dei gruppi di solidarietà femminile, intesi come un vero e proprio virus sociale da tenere a bada.

Le cinque tende da quarantena in PVC, parte del progetto originario e ora riunite per l’esposizione in Pirelli HangarBicocca – 12 Synesthetic Crayons (2015); We Are Water (2015), Home in 30 Days, Don’t Wash (2015), Your Hand Feels Like a Pillow That’s Been Microwaved (2015); Fontenelle (2015) – recano riprodotte sulla superficie esterna forme astratte che richiamano i segnali di rischio biologico, un avvertimento a evitare l’inadeguata esposizione a microrganismi, virus e tossine potenzialmente dannosi per il corpo. Queste strutture ostacolano, insieme, il ricircolo dell’aria e il contatto fra gli esseri viventi. Ancora una volta, è l’olfatto a permeare l’esperienza del visitatore, ponendolo al cospetto di due fragranze che, diffondendosi dalle tende, sono rappresentative di universi ideologici antitetici: quello del potere patriarcale dominante e quello dei gruppi femministi fondati sull’idea di comunità e supporto. Il primo profumo è stato ottenuto, grazie all’aiuto della società Air Viable, analizzando i campioni d’aria prelevati nella galleria newyorkese Gagosian, durante una mostra dell’artista Urs Fischer nel 2015. Il secondo aroma, realizzato in collaborazione con il biologo sintetico Tal Danino del Massachusetts Institute of Technology (M.I.T.), è stato invece sintetizzato da un campionamento di batteri vaginali e boccali di cento donne del circolo di frequentazioni di Anicka Yi. Questo “super batterio” (così rinominato dall’artista stessa) mette in luce la struttura infinitesimale dell’esistenza e i legami di condivisione e cooperazione che, alla base del femminismo, Yi si augura che possano estendersi a modello etico per l’intera società.

Questioni di tatto

Visitando la mostra, emerge chiaro l’invito dell’artista a non avere paura della contaminazione, intesa come commistione tra differenti linguaggi e materiali, come simbiosi tra esseri viventi e non. Yi incoraggia a immaginare nuove modalità di stare al mondo, in connessione con molteplici altri e altre, ànthropos e non. Ritornando un’ultima volta a Barad, l’artista esorta il contatto, da intendere come l’attitudine ad “avere tatto”, una sensibilità capace di accogliere prospettive alternative all’eccezionalismo umano – dall’intelligenza artificiale alle forme di vita microscopiche che co-abitano l’organismo umano e, con esso, il grande ecosistema terrestre.

Il neologismo che dà il titolo all’esposizione, ‘Metaspore’, accostando il prefisso ‘meta’ al termine ‘spora’, si erge a metafora di un meccanismo di propagazione delle idee mimetico del processo di sporulazione dei funghi – organismi che si riproducono per via asessuata tramite l’unità cellulare della spora. Riflettendo sulla presentazione delle proprie opere al pubblico e sulla diffusione delle intuizioni che queste apportano nel mondo, l’artista parla «del modo in cui l’arte inocula le nostre menti, e, in qualche modo, anche i nostri corpi [manifestando delle idee] che si ha bisogno di metabolizzare»[18]. Incanalato nelle formalizzazioni artistiche, il potenziale innovativo di queste idee può arrivare a contaminare l’immaginario e l’intelligenza collettivi, incentivando la messa in atto di un cambio di prospettiva e la propensione verso futuri eccentrici e maggiormente inclusivi.

Anicka Yi – Metaspore
a cura di Fiammetta Griccioli e Vicente Todolí
Pirelli HangarBicocca, Milano
fino al 24 luglio 2022


[1] On Touching—The Inhuman That Therefore I Am, in “Differences: A Journal of Feminist Cultural Studies”, v.23(3): 206-223, 2012, p. 206 [n.d.r].

[2] All’epoca della Rivoluzione Messicana, fra 1915 e 1917, a Città del Messico scoppiò un’epidemia di tifo che si diffuse presto anche nelle province. Per questo motivo, i funzionari statunitensi adottarono una politica di sanificazione degli immigrati messicani che fu presto diffusa lungo l’intero confine tra Stati Uniti e Messico. La vicenda è al centro dell’articolo pubblicato dal medico chirurgo C. C. Pierce, Combating Typhus Fever on the Mexican Border, in “Public Health Reports (1896-1970)”, Mar. 23, 1917, Vol. 32, No. 12 (Mar. 23, 1917), pp. 426-429.

[3] Effequ, Firenze 2020, pp. 18 – 20.

[4] Il titolo dell’opera si riferisce al capitolo 7 del saggio sulla sinestesia di Richard E. Cytowich e David Eagleman, Wednesday Is Indigo Blue: Discovering the Brain of Synesthesia, MIT Press, Cambridge (MA) 2009.

[5] Dal latino sensorium, il termine ‘sensorio’ designa l’apparato della percezione di un organismo considerato nel suo insieme, la ‘sede della sensazione’ in cui sperimenta e interpreta gli ambienti all’interno dei quali vive.

[6] Anicka Yi intervistata da Karen Rosenberg.

[7] Anicka Yi in conversazione con Elvia Wilk.

[8] Si definisce animatronica quella tecnologia che utilizza componenti elettronici e robotici per conferire un’autonomia di movimento a soggetti meccanici, i cosiddetti animatroni. Spesso implementata dall’industria cinematografica per dar vita a personaggi del mondo della science fiction, si ricollega a un immaginario affine alle ricerche speculative portate avanti da Anicka Yi.

[9] Anicka Yi intervistata da Chelsea Pettitt.

[10] “Prospettiva spazio-temporale”, in Donna J. Haraway, Chthulucene, Nero, Roma 2019. Traduzione a cura di Claudia Durastanti e Clara Cicconi.

[11] Tobias Rees, From the Anthropocene to the Microbiocene: The novel coronavirus compels us to rethink the modern concept of the political, in “Noema”, 10 giugno 2020.

[12] Che figurava col titolo Biologizing the Machine (terra incognita), 2019.

[13] Elizabeth A. Povinelli, Geontologies: A Requiem to Late Liberalism, Duke University Press, Durham e Londra 2016.

[14] Dal nome di Sergej Vinogradskij (1856-1953), microbiologo e scienziato del suolo russo che introdusse la celebre colonna come dispositivo per la cultura di una grande diversità di microrganismi.

[15] Il termine è stato coniato dalla storica e critica dell’arte Caroline A. Jones per definire l’approccio narrativo speculativo che informa la prassi di Anicka Yi. Si veda: Caroline A. Jones, Biofiction and the Umwelt: Anicka Yi, in 2016: the Hugo Boss Prize: 20 Years, The Guggenheim Museum, New York 2016.

[16] Donna J. Haraway, A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, in Manifestly Haraway, University of Minnesota Press, Minneapolis e Londra 2016, pp. 58 – 59.

[17] Rosi Braidotti, Madri, mostri e macchine, Manifestolibri, Roma 2005, p. 7 dell’Introduzione.

[18] Anicka Yi intervistata dal team di Pirelli HangarBicocca.

In copertina: Anicka Yi – Metaspore, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, 2022 – courtesy l’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano ph. Agostino Osio

(Milano, 1994) Laureata in Arti, Design e Spettacolo presso l’Università IULM di Milano, attualmente frequenta il biennio in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha proposto e coordinato progetti curatoriali ed editoriali, in spazi indipendenti e non; collabora con istituzioni e associazioni culturali del territorio milanese. A giugno 2021 co-fonda l’Associazione Culturale no profit Genealogie del Futuro, che affronta tematiche sociopolitiche e ambientali attraverso i linguaggi artistici e le progettualità curatoriali. I suoi interessi di ricerca intrecciano pensiero ecologico e femminismo intersezionale in una rilettura critica del presente, indagando la rappresentazione identitaria e i dispositivi linguistici e formali che ci disciplinano.

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