Tre piattaforme in legno collocate vicino a un querceto, in una zona generalmente riservata alla selvaggina. Poggiano, più che ergersi, nel paesaggio, ritagliate seguendo i contorni delle rocce adiacenti. Sono immerse nella valle della Drobie, nelle Cévenne d’Ardèche. All’estremità delle assi sono incisi i nomi delle specie dei licheni che crescono sulle rocce circostanti. Ci troviamo a Saint Régis, un piccolo villaggio sconosciuto alle mappe digitali tra Saint-Mélany e Dompnac, a due ore e mezza di macchina da Valence o da Montpellier, una zona tagliata fuori dal ramificato sistema ferroviario francese e raggiungibile solo con mezzi propri. L’isolamento è garantito.
Belvédère des lichens è il titolo scelto dal suo autore, il paesaggista-giardiniere Gilles Clément. Nel 2007 è coinvolto nel programma artistico e di ricerca “Regards croisés sur les paysages” promosso dall’associazione Sur le sentier des Lauzes, attiva sin dal 2001 per volontà degli abitanti che s’interrogano sull’evoluzione del paesaggio dei Parchi naturali regionali di Pilat, di Vercors e dei monti d’Ardèche. Un progetto che nel 2012 coinvolgerà anche Giuseppe Penone, che proporrà una trascrizione musicale della struttura degli alberi.
Belvédère des lichens, uno degli interventi di Clément più minimali e meno conosciuti, è installato in cima a un rilievo montuoso a strapiombo, facilmente raggiungibile seguendo un sentiero già tracciato che attraversa una dorsale, offrendo un punto di vista da cui cogliere bene l’identità paesaggistica. L’idea è semplice, come i suoi numerosi interventi in cui si tratta di mettere in valore la radura-giardino e la foresta, agendo il meno possibile, fedele all’idea di giardino in movimento: “fare giardinaggio vuol dire non fare troppo, non disperdere energia in senso contrario, fare il meno possibile contro e il più possibile con”[1].

Clément è invitato a ragionare sulla valle della Drobie in corso di re-inselvatichimento, a seguito dell’abbandono dell’attività agricola e della crescita del sottobosco che ha favorito la biodiversità e l’apparizione di specie vegetali e animali. Tenendo insieme questi fattori, lascia emergere il paesaggio a partire dal suo elemento più marginale secondo il punto di vista umano, ovvero i licheni. Come Clément riporta nel libro eponimo: “ho scelto di attirare l’attenzione su ciò che sfugge facilmente allo sguardo. Troppo piccoli, di una scala inadatta alla vista umana, buoni solo per incastrarsi nella roccia, a cosa servono i licheni se non a nutrire qualche renna nel remoto nord?”[2]. Dalle tre piattaforme – che dall’alto ricordano delle pozzanghere – si può così ammirare un “paesaggio lunare da decifrare”, un viaggio nel “mondo minerale e ruvido di questi curiosi esseri viventi”. Due anni dopo Corinne Bauvet, dell’associazione francese di lichenologia, pubblicherà un’analisi dettagliata di tali forme di vita locali.
Facciamo un passo indietro. Clément ci tiene a restituire il percorso che lo ha portato a questo intervento disadorno, a partire dal suo iter verso Saint Régis, quando s’incammina su strade antiche dominate dall’orizzonte, si avvicina ai villaggi esitando e lambendone la cintura esterna, tenta strade alternative, ammira pascoli di pecore quanto rare costruzioni, rallenta il passo quando la destinazione è vicina, si familiarizza col paesaggio su cui presto interverrà. A interessarlo è il Sentier des Lauzes, un anello di cinque chilometri attorno a un massiccio che si estende su un asse nord-sud. Cerca un punto il più possibile elevato per mostrare assieme il remoto e il prossimo, l’orizzonte delle montagne e i licheni sulle rocce che circondano la piattaforma.

È questa la doppia natura del suo belvedere non cinto da alcun parapetto come accade di solito: avvicinare il lontano ma anche rendere visibile ciò che cresce rasoterra, all’altezza dei nostri piedi e che è altrettanto degno della nostra attenzione.
Come sperimentato in altre occasioni, in una prima fase Clément si limita a osservare, prendere appunti, realizzare disegni che accompagneranno il suo testo. La sua attenzione erra: “Ero venuto per vedere il paesaggio, ho incontrato la gente”, ovvero non tanto gli autoctoni abbarbicati alla loro identità e alle tradizioni locali ma quanti si sono trasferiti qui per le valli abbandonate, “per l’aria, per la natura, per le promesse del vuoto” – per quello stesso paesaggio insomma ora scrutato da Clément. I suoi committenti non sono più contadini in una società pre-industriale e non sono più agricoltori, che siano intesi come coloro che hanno abbandonato la terra attratti dalla vita urbana o coloro che, ammaliati dal mito della produttività, hanno finito per sfruttare e impoverire i loro terreni. Sono invece quelli che in Francia si chiamano “neo-rurali”, promotori di quella deurbanizzazione che, a seguito della quarantena, è di recente tornata alla ribalta.
Certo è che le “promesse del vuoto”, per essere tali, vanno mantenute e rilanciate, in accordo allo spirito che anima chi si è trasferito da queste parti non per consumare il paesaggio ma “per viverci e per farlo vivere”. È un tema al cuore del pensiero e della pratica di Clément: dare spazio a ciò che è immateriale, dinamico, in movimento, a quelle piante vagabonde di cui ha tessuto l’elogio, a “tutto ciò di cui i paesaggi non parlano se li interroghiamo in quanto geografi. Dobbiamo quindi scriverli altrimenti”, abbandonando ad esempio la ragione cartografica, come direbbe Franco Farinelli. E la vita è tanto nei licheni che nel quotidiano dei valligiani, nell’uso dell’acqua, nelle discussioni municipali, nei trasporti scolastici, nei rapporti di vicinato, “cose che i libri non indicano” e che sfuggono anche a chi si limita ad attraversare questi luoghi d’estate.
Clément ascolta e a suo modo partecipa alle discussioni degli abitanti, attento ai legami e alle tensioni vivificanti che tengono insieme una comunità piccola ma tenace: “Le cose importanti si trovano nei dettagli, nel grado di una cottura, nel contenuto di tannino di una bevanda sperimentale; le preoccupazioni vanno all’acqua troppo rara e alla sua cattura. Ma niente di questo edificio si terrebbe in piedi senza il legame assoluto. Indefinito, mai formulato, resistente alle intemperie e come indistruttibile, tale da cancellare gli ostacoli, permette la vita attraverso il riconoscimento dei fatti – le differenze, come unirle senza intaccarle?”. Immerso in tale milieu, Clément finisce per concentrarsi su quel paesaggio lunare offerto dai licheni e che offre nondimeno un modello di vita e di coabitazione.

“Prima di conoscere i pendii e gli altipiani, i querceti, i ghiaioni, gli abeti rossi, le brughiere e i castagneti, i punti di vista, i ponti, le rocce tagliate dall’acqua a fondo valle, i cinghiali; prima di visitare tutti questi luoghi, di controllare l’erosione, la copertura arborea, la scarsità dell’acqua, la ridotta importanza delle coltivazioni nell’immensità della foresta, mi ero fatto un’idea”. I vissuti altrui aiutano Clément a raccogliere idee e a riflettere a come si è evoluto il paesaggio francese nella seconda metà del XX secolo, seguendo “un processo di inversione di pieni e di vuoti: i pieni si rischiarano, i vuoti si riempiono. Questa dinamica si osserva ancora oggi: le aree piane e facilmente coltivabili si aprono sempre di più e vengono riorganizzate a scapito di micro-parcelle, siepi e sentieri. Le aree in pendenza, abbandonate dai pastori, dove le macchine agricole non possono penetrare, si chiudono, soggette alla normale evoluzione dei suoli abbandonati a se stessi, sulla via del climax della foresta, di un sistema ritenuto stabile e sostenibile”.
Quello dell’Ardeche è un caso interessante perché ha invertito le proporzioni di apertura e chiusura dei paesaggi, raggiungendo un climax o un optimum di massa verdeggiante.
Clément capisce ad ogni modo che il paesaggio in cui è invitato a intervenire è naturale quanto umano, fisico quanto mentale. Un compito di cui non gli sfuggono le difficoltà: cosa potrà realizzare qui un visitatore furtivo come lui, distratto da tante commissioni ma allo stesso tempo catturato da un paesaggio così diverso da quello de La Vallée nella Creuse, la sua regione d’infanzia dove si è trasferito nel 1977 costruendo la sua casa in pietra e il giardino in cui è germogliato il suo pensiero? Di certo non è venuto nell’Ardèche in qualità di giardiniere, se per giardiniere s’intende quel soldato con elmetto e maschera protettiva (perché i prodotti che utilizza sono tossici anche per lui), educato a sterminare le forme di vita che lo circondano, che si tratti di malattie, piante, animali, insetti. In questi termini, tra il divertito e il provocatorio, descrive il suo apprendistato nel documentario Le jardin en mouvement (2013)di Olivier Comte. Se suona caricaturale, non si discosta dalla realtà: lo studio del dosaggio di pesticidi ed erbicidi chimici era più diffuso della conoscenza botanica sul vivente: “ci insegnavano i dosaggi di un erbicida come se bisognasse uccidere la natura per ricostituirla”[3]. E quando Clément comincia a insegnare all’École du paysage negli anni 1980, la parola “giardino” non veniva neppure pronunciata.
Insomma, Clément è venuto in Ardèche per mettere a frutto alcuni capisaldi del suo pensiero, quali friche, Terzo paesaggio e radura, che qui ripercorro brevemente. Anzitutto, la parte meridionale dell’Ardèche ha un rilievo così accidentato da renderne il suolo incompatibile con i macchinari agricoli. Poco sfruttato e poco sfruttabile, con la fabbrica del carbone di legno a partire dalla quercia verde ormai abbandonata, questo paesaggio è oggi composto da montagne ricoperte di alberi, non così diverso da quello dei primi insediamenti umani con poche radure. Per questo le friches, zone incolte tra le praterie e la foresta, bisognose di rovi e sostanze azotate prodotte dai rifiuti degli insediamenti umani, sono rare da queste parti.
Il Terzo paesaggio indica territori eterogenei accomunati dall’assenza di attività umana, distinti sia dall’ombra propria delle foreste sia dalla luce propria delle praterie. Luoghi-rifugio di diversità dal patrimonio genetico complesso, sono agli antipodi della macchina devastatrice delle monoculture di mais e colza pesantemente trattate così come, più in generale, della PAC, la politica agricola comune dell’Unione europea, concepita nel 1962 per facilitare l’industrializzazione, aumentare la produttività del settore agricolo e garantire la sicurezza alimentare. A differenza del Limousin dove Clément ha elaborato la nozione di Terzo paesaggio, nell’Ardèche meridionale questo copre la quasi totalità del territorio.
Che questa situazione favorisca anche la varietà di biotopi e biocenosi? Solo parzialmente in realtà, a causa della natura acida dei terreni ma anche della sovrappopolazione dei cinghiali o meglio di una nuova sotto-specie, i “cochonglier” o “sanglochon” (crasi tra “cochon” e “sanglier”), che saccheggiano le coltivazioni. Si tratta di un ibrido genetico tra il maiale d’allevamento e il cinghiale selvatico, un ibrido che, riproducendosi due-tre volte più velocemente dei suoi genitori, si è rivelato poco controllabile. Non avendo più predatori naturali, non cessa di moltiplicarsi – e poco ha potuto la caccia. L’ennesimo caso di un disequilibrio ecologico naturale quanto artificiale.
La radura – “un buco nella foresta” composta da sacche e recinti – è il segno che l’uomo ha vissuto in queste vallate. Poiché il Terzo paesaggio è qui così esteso, Clément ritiene che qualsiasi attività dovrà concentrarsi sulla radura-giardino, piccola ma circoscritta e gestibile.
Attento agli elementi naturali come umani, l’attenzione di Clément va anche all’architettura, legata ai primi tentativi di modellare l’Ardèche fino all’esodo rurale massivo della prima metà del XX secolo, seguito dallo sfruttamento delle superfici coltivabili grazie all’agroindustria, poco praticabile su un territorio così in rilievo. L’Ardèche ritrova così un’intensa attività vegetale dove la natura cicatrizza sia le proprie ferite che quelle inferte dagli umani. Le terrazze create dall’essere umano vengono ricoperte dalla vegetazione, il tecnologico scompare sotto l’azione persistente del biologico, che risparmia giusto alcuni frammenti come i muretti di un casa. Vestigia architettoniche che raccontano la coabitazione umana col paesaggio, un insediamento fragile e temporaneo, sottomesso all’erosione, a un tempo profondo e implacabile.
Centrale, infine, è il ruolo dell’acqua: tutto qui dipende da un bene tanto più prezioso quanto raro, parte del paesaggio umano più che naturale: l’acqua è ricercata, catturata, canalizzata, stoccata, convogliata verso gli orti e le case grazie alle infrastrutture. È un attore principale, una figura politica dotata di agentività, la garante della sopravvivenza della comunità umana insediatasi sul territorio. Un bene tanto più prezioso se pensiamo che “96% delle acque di superficie in Francia ha superato le soglie di inquinamento, il restante 4% sono tesori da proteggere e valorizzare al meglio”, e l’Ardèche rientra in questo secondo gruppo.
Con Belvédère des lichens Clément valorizza il Terzo paesaggio di questa vallata, un paesaggio della diversità ben rappresentato dai licheni: “Conosciuti per la loro capacità di ‘vivere d’aria’, i licheni possono colonizzare i tronchi degli alberi, conficcarsi nei muri delle case in piena città e, a seconda della specie, indicare una buona o cattiva qualità dell’aria. Che tutti i licheni del Belvédère siano dei bio-indicatori?” È su queste piattaforme appena sopraelevate e non invasive che i licheni ci portano a riflettere al nostro impatto sull’ecumene e alla nostra capacità di pensare e creare altri mondi.
Già, perché il giardinaggio per Clément è un’utopia politica che mobilita un pensiero scientifico assieme sperimentale e poetico. Come scrive Sébastien Thiéry, responsabile del Pôle d’exploration des ressources urbaines (PEROU), un collettivo di urbanisti, sociologi e artisti che interviene ai margini delle città e di cui Clément è stato il primo presidente: “il giardinaggio è anche un atto sovversivo, che consiste nel far posto alla vita”, alla “botanica come strumento per pensare il politico”[4].
Secondo Clément bisogna “dare priorità alla vita che è già lì, preziosa e precaria”[5]. Del resto quelle in Ardèche non sono le prime piattaforme che costruisce: una si trova proprio a casa sua, a La Vallée, dove ha realizzato un giardino che all’amico e storico dell’arte Gilles Tiberghien ricorda quello all’inglese dell’Élysée a Clarens, descritto da Jean-Jacques Rousseau in Julie ou La nouvelle Héloïse (1761, lettera XI). In mezzo a un campo si trova una pedana da cui osservare insetti e piante con un binocolo, soprattutto agli albori della stagione estiva. A volte Clément passa la notte all’addiaccio, steso su questo letto rudimentale, perché parte dell’attività animale e vegetale è visibile solo al crepuscolo e all’alba.
Non è questo anche il destino delle “esistenze in sordina” (Camillo Sbarbaro) dei licheni, forme di vita discrete oggi al centro di una riflessione inter-, multi- e trans-specie? Resi visibili dal belvedere, entrano a far parte a tutti gli effetti non solo del paesaggio dell’Ardèche e di quelle promesse del vuoto che hanno incitato uomini e donne a ripopolarlo, ma di quel giardino planetario i cui confini, secondo Clément, coincidono con la nostra Terra.
[1] Gilles Clément, Sébastien Thiéry, “Partout, favoriser la vie”, in “Critique”, 860-861, 2019, pp. 56-69, cit. p. 62.
[2] Gilles Clément, Le belvédère des lichens, Jean-Pierre Huguet Éditeur, Parc Naturel Régional des Monts d’Ardèche, 2017, da cui provengono le citazioni successive.
[3] In Gilles Clément, Gilles A. Tiberghien, Dans la Vallée. Biodiversité, Art et Paysage, Bayard, Montrouge 2009, p. 109.
[4] S. Thiery in “Partout, favoriser la vie”, p. 57, p. 60.
[5] G. Clément in “Partout, favoriser la vie”, p. 58.