Nel decennale della sua scomparsa (31 marzo 2012), la casa Usher ripubblica uno dei libri più conosciuti e tradotti di Omar Calabrese: L’età neobarocca, uscito nel 1987 per le edizioni Laterza, con un’introduzione di Francesco Casetti, Sterling Professor a Yale e un ricordo di Claudio Castellacci, amico e giornalista (€ 20). Dal 31 marzo al 2 aprile l’Università di Siena (presso il Rettorato in via Banchi di Sotto 55) dedica allo studioso il convegno internazionale Intorno a Omar. Studi, ricerche, dibattiti, al quale sono state invitate personalità che hanno proficuamente interagito con lui: da Francesco Casetti a Victor Stoichita, da Gianfranco Marrone a Giovanni Careri e Maurizio Bettini, oltre a numerosi suoi allievi e collaboratori. Occorre segnalare, inoltre, che le università di Bologna, Siena e Venezia – in cui da anni insegnano alcuni suoi allievi – hanno dato vita al Centro di ricerca Omar Calabrese di Semiotica e Scienza delle Immagini, nel quale – accanto alle usuali attività di ricerca – è stato predisposto uno spazio con una cartografia biografica e la bibliografia delle opere dello studioso. Le note che seguono sono redatte da un’allieva di Omar Calabrese che, dalle aule universitarie dell’ateneo bolognese, ha visto l’evoluzione e il concretizzarsi del volume L’età neobarocca.
Per aprire
Stendere alcune brevi note in occasione della ristampa di L’età neobarocca di Omar Calabrese a dieci anni dalla sua dipartita è senza dubbio un lavoro di responsabilità, anche perché questo è il libro che ha dato una notorietà internazionale al suo autore e che continua a manifestare tuttora una sua grande vitalità.[1]
Una buona annata
Dapprima, però, una considerazione di carattere generale. Le pagine che il lettore può ritrovare appartengono a un libro che può essere definito vintage,[2] dove però il termine va inteso nel suo originario significato e non tanto in relazione al suo anno di pubblicazione, ben trentacinque anni fa. L’etimo vintage – che appunto non ha nulla a che vedere con il numero vingt – ha la sua origine in una parola della lingua francese antica, vendenge, “vendemmia”, a sua volta proveniente dal latino vindemia. Dunque, nell’accezione originaria con l’espressione vendenge si fa riferimento ancora adesso ai vini di buona annata, quelli che con il passare degli anni migliorano, diventano più pregiati. Fuor di metafora, il libro di Omar Calabrese è un’opera che per il metodo impiegato sembra collocarsi fuori dal tempo, continuando a permettere letture innovative in relazione ai sempre più variegati momenti culturali della società in cui viviamo.
Oggetti culturali
Il libro, evitando gerarchie di opere, conduce il lettore in un viaggio attraverso la cultura degli anni ottanta del secolo scorso, e termina con una considerazione sulla valutazione e sulla forma classica. Scrive Calabrese:
Solo attraverso una interdefinizione dei concetti operativi è possibile garantire il controllo sugli oggetti analizzati. I fenomeni non parlano mai da soli e per evidenza. Bisogna “provocarli”. Il che equivale a dire che bisogna costruirli come oggetti teorici. In altri termini non esiste una oggettività immediata dei fatti, ma esiste solo la coerenza della prospettiva con cui li si interroga.[3]
Gli oggetti che Calabrese mette al centro della sua attenzione sono considerati come fenomeni dotati di una forma o di una struttura soggiacente, al fine di individuare tratti comuni in oggetti anche molto disparati e senza rapporto di causa-effetto fra di loro. “Il che equivale a dire che bisogna costruirli come oggetti teorici.[4] In altri termini, non esiste una oggettività immediata dei fatti, ma esiste solo la coerenza della prospettiva con cui li si interroga, dell’orizzonte entro il quale li si eccita a rispondere”.[5]
La validità fuori dal tempo del libro L’età neobarocca consiste nel fatto che Calabrese ha intercettato il gusto della società di allora e ha messo a punto un metodo di indagine fatto di categorie oppositive, di considerazioni plastiche. Un metodo che ancora oggi può aiutare nell’indagine dei fenomeni della contemporaneità.
Come? Con tre mosse fondamentali: la prima consiste nel prendere degli oggetti culturali – anche assai disparati tra loro – e considerarli fenomeni di comunicazione, cioè fenomeni dotati di una forma, di una struttura soggiacente. Che cosa fa l’analista? Prende un film, una scultura, un quadro, una partitura musicale, un programma televisivo, una serie di azioni di un gruppo di persone, ma non ne analizza le manifestazioni, eterogenee e composite: ne ricerca piuttosto una forma soggiacente, che può essere di tipo narrativo, plastico, figurativo, tematico, e sulla base di questa forma procede alla comparazione per mettere a punto le differenze e le somiglianze.
La legge del buon vicinato
L’idea forte da cui partiva Calabrese era la constatazione, per certi versi ancora oggi ‘sconvolgente’, di una uniformità stilistica in grado di travalicare i confini abituali dell’estetica, includendo sotto il termine neobarocco non solo la produzione propriamente artistica – visiva, musicale, letteraria, teatrale, ecc. – ma anche quella mediatica, in particolare televisiva, nonché i fumetti, le canzoni, senza peraltro tralasciare le teorie scientifiche e filosofiche che allora erano al centro del dibattito culturale,[6] mettendo così a punto quella che è stata definita un’“estetica sociale”.[7] È tuttavia un’idea che non nasce ex novo e ex nihilo, ma che – come il più delle volte succede – ha nobili precedenti. Il più immediato è Miti d’oggi di Roland Barthes, uscito nel 1957, dove il raffinato intellettuale francese analizza la cultura di massa del periodo: dai dischi volanti allo striptease, dal “nuovo Nautilus” (la leggendaria DS 19 della Citroën) al Tour de France, da Marlon Brando a Greta Garbo, al music-hall, ecc.; al quale occorre subito aggiungere Diario minimo del 1963 di Umberto Eco, con la sua irresistibile Fenomenologia di Mike Buongiorno.
A ben guardare, però, il più datato antecedente dell’attenzione verso quella che poi sarà definita cultura di massa è rappresentato molto probabilmente da Aby Warburg, il quale nello spazio della ricerca già nel 1928 ha accostato immagini fra di loro distanti nel tempo e nello spazio, agglomerandole secondo quella che lui stesso definisce “legge del buon vicinato”, rintracciando cioè assonanze di forme del pathos che hanno origine nella cultura antica e – come un fiume carsico – perdurano fino ai nostri giorni. Un esempio abbastanza emblematico è la tavola 77 del Bilderatlas Mnemosyne: in essa le antiche pathosformeln riemergono in due dipinti di Eugène Delacroix, e – come traccia mnemonica, depositaria di un certo contenuto informativo, vale a dire come engramma – vengono proposte le pubblicità di giocatrici di golf, francobolli dell’isola Barbados, inserzioni pubblicitarie che vanno da quella della crema per la pelle fino a quella della Hausfee, la“Fata della casa”, ossia la carta igienica, che manifestano parentela formale con le forme patetiche dell’antica cultura greco-romana.[8]
Classico e Barocco
Che cosa intende Calabrese per Barocco? “Non solo e non tanto un periodo determinato e specifico della cultura, ma un atteggiamento generale e una qualità formale dei messaggi che lo esprimono. In questo senso, ci può essere del Barocco in qualsiasi epoca della civiltà. Barocco è insomma quasi una categoria dello spirito, contrapposta a quella di ‘classico’”.[9] E che con il Classico si interdefinisce: entrambi vanno comunque intesi come conviventi modelli morfologici o forme del gusto:
L’uno non esiste senza l’altro, e anzi l’uno pone necessariamente l’altro in modo implicito (o addirittura esplicito). Classico e Barocco pertanto non si rincorrono nella storia. Convivono. La storia è eventualmente il terreno nel quale si attuerà una prevalenza, quantitativa o qualitativa che sia. Osservarla, darà luogo a una storia delle forme. Descriverne i fondamenti dà luogo a una teoria delle forme” perché la semiotica – come ho già detto – ricerca le forme soggiacenti, le strutture astratte, al di là delle manifestazioni concrete.[10]
Secondo Calabrese, l’opposizione tra questi due termini è valida nella definizione del gusto contemporaneo. La definizione neobarocco, che va a spodestare l’abusata etichetta di postmoderno, sostituisce un periodo di ordine omogeneo con uno eterogeneo e privo di un’ideologia predominante.
A questo punto una considerazione sulla parola “neobarocco” è doverosa: come spiega il suo autore, il conio spetta a Gillo Dorfles,[11] anche se la scelta di Calabrese è motivata da una riconsiderazione generale di quel periodo storico che, oltre a studi considerati fondativi,[12] nel periodo “pre” e “post” L’età neobarocca, ha visto un considerevole fiorire di pubblicazioni che mettevano il barocco al centro di una rinnovata attenzione e considerazione.[13] E come nel barocco “la società attuale pare diffusamente permeata da una specie di ‘estetizzazione’ come nessun’altra prima”, e il “neobarocco” consiste “nella ricerca di forme (e nella loro valorizzazione) in cui assistiamo alla perdita dell’interezza, della globalità, della sistematicità ordinata in cambio dell’instabilità, della polidimensionalità, della mutevolezza”.[14]
Non è però che il classico si chiuda e il barocco si apra, vero è che esistono momenti di convivenza in cui il predominante non esclude quello più di nicchia. Non è un caso che a questo proposito Calabrese faccia riferimento all’Antirinascimento di Eugenio Battisti[15] e a Rinascimento e Pseudorinascimento di Federico Zeri,[16] in entrambi la vincente filosofia rinascimentale non cancella filosofie non allineate.
La fortuna editoriale
È ora il momento di dare una scorsa alla fortuna editoriale di questo libro, quello sicuramente più conosciuto dell’autore anche a livello internazionale. Lo stesso Calabrese – in uno scritto del 2011 che doveva essere l’introduzione a un nuovo libro sul Neobarocco, al quale ha continuato a lavorare fino alla fine – si apre proprio ricordando che:
molti artisti e numerosi critici continuano a ispirarsi a quel termine fortunato [Neobarocco]. Nel 2007 a Salamanca è stata organizzata una grande mostra, Lo inferno de lo bello, dedicata appunto al tema del barocco nell’arte contemporanea, ma nello stesso anno anche alla fiera dell’arte di Verona sono state allestite due esposizioni, una pubblica e una privata, dedicate ad artisti ‘neobarocchi’. In Inghilterra negli Stati Uniti e persino in Australia sono apparsi libri sull’argomento. Il più noto è stato Baroque’ n roll, un testo di Brigitte Brophy, scrittrice e saggista, uscito nello stesso 1987, in piena sintonia con quello che ho scritto io. In Australia gli studi sul clima culturale neobarocco sono stati assai accentuati con Angela Ndalianis […]. C’è stato, insomma, tutto un evolversi della consapevolezza di questo genere di gusto e di stile.[17]
Occorre aggiungere che il libro ha visto una traduzione in lingua inglese negli Stati Uniti nel 1992, e una riedizione del 2017, una in portoghese a Lisbona e una a São Paulo e una in lingua spagnola a Madrid che è arrivata, nel 2021, alla quinta edizione. Anche in Italia è stato pubblicato due volte e questa terza edizione lo ripropone nella sua integralità originaria. Inoltre, lo stesso Calabrese dopo la pubblicazione aveva messo alla prova le sue idee curando più esposizioni artistiche.
Istruzioni per l’uso
Nelle “Timide conclusioni”[18] Calabrese ha riconosciuto nell’allora crisi di valori, nel dubbio eletto a principio di ogni possibile sistema e nella passione per una continua sperimentazione, il quadro di una nuova civiltà barocca. La proposta interpretativa che ne è derivata consisteva nell’offrire una definizione precisa, un emblema per l’epoca.
Nella società estetica della contemporaneità, a ben guardare, il gusto manifesta tracce di continuità con quello degli anni ottanta del secolo scorso, tanto da poter dire che “il neobarocco continua a esistere”.[19] E se lo dice l’autore della formula non ci sono dubbi. Anzi a dieci anni dalla scomparsa di Calabrese il neobarocco è ancora attuale. Ed è proprio L’età neobarocca, con il suo metodo lineare e coerente, a permettere di impiegare quella metodologia di forte valenza semiotica al fine di esaltare il neobarocco come strumento in grado di leggere la contemporaneità. Qui sta il grande merito del semiologo fiorentino: quello di aver intercettato un gusto estetico che pervadeva la cultura della fine del XX secolo nel suo momento di crinale, nella fase in cui andava stabilizzandosi e stava diventando vero gusto estetico.
Ma se è vero che il neobarocco continua a esistere, è altrettanto vero che “ritmo e ripetizione”, “limite ed eccesso”, “instabilità e metamorfosi”, “disordine e caos”, “complessità e dissipazione”, “distorsione e perversione” restano oggi categorie ancora valide, addirittura portate a una vera e propria esplosione, senza che per questo venga completamente meno la dimensione tradizionale del classico.
Riferimenti bibliografici
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[1] Sul volume L’età neobarocca è stato scritto molto; in particolare, nel 2018, l’Associazione Italiana di Studi Semiotici ha dedicato una sezione del convegno dedicato al Metodo semiotico proprio al “Neobarocco trenta’anni dopo”, con contributi di Tarcisio Lancioni, Riccardo Finocchi, Massimo Leone, Francesca Polacci. Cfr. anche Traini 2012; Lorusso 2014.
[2] Lancioni 2018, pp. 227-228, ha già impiegato il termine vintage in relazione a L’età neobarocca, riferendosi in particolare agli esempi e alle forme trattate nel libro: “è sicuramente un libro ‘datato’, a causa del forte legame che lo radica nel proprio tempo, alle mode, ai prodotti mediatici, alla produzione artistica e scientifica ‘di allora’, tanto da poter apparire quasi come una sfilata ‘vintage’ di reperti degli anni ’80”. Qui il termine invece viene usato in riferimento a tutto il libro in sé e per sé, come un valore dell’opera stessa.
[3] Calabrese 1987, p. 10.
[4] L’espressione “oggetti teorici” è una ripresa dall’ambito francese: precisamente dal gruppo di “Histoire et Théorie de l’arte” dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, in particolare da Daniel Arasse, Hubert Damisch e Louis Marin; un filone di ricerca ora portato avanti da Giovanni Careri. Parigi con la sua École è un centro con il quale Omar sarà in costante rapporto e non solo con chi si occupava di immagini, ma anche con il fondatore della semiotica strutturale e generativa, Algirdas-Julien Greimas (1917-1992).
[5] Calabrese 1987, p. 10
[6] In particolare Mandelbrot 1977; Thom 1978; Prigogine, Stenghers 1979.
[7] Stando a quanto scrive lo stesso Calabrese (1987, p. VIII), spetta a Paolo Fabbri “il conio di questa definizione, che introduce a pennello lo spirito del lavoro”.
[8] Warburg 2000. Il richiamo a Warburg non deve suonare come un azzardo. Omar Calabrese aveva frequentato il londinese Warburg Institute e nel 1984 aveva scritto un importante saggio sullo studioso tedesco. Inoltre, la premessa al suo libro La macchina della pittura (2012, pp. 33-78) porta l’emblematico titolo: “Il quadro teorico. Una semiotica neowarburghiana?”.
[9] Calabrese 1991, p. 16
[10] Ibidem.
[11] Per Dorfles, la data cruciale per la nascita della teoria sul “neobarocco” è il 1946, anno in cui escono i suoi contributi su “Attualità del barocco” e “Spazialità e plastica nella nuova architettura”, che presentano molte delle tesi riprese nel volume del 1951; cfr. anche Dorfles 1985.
[12] Wolfflin 1915; D’Ors 1932; Sarduy 1974.
[13] Tra altri cfr. Pauly 1993; Calloway 1993; Echeverría 2000; Armstrong, Zamudio-Taylor 2000.
[14] Calabrese 2011, p. 14.
[15] Battisti 1962.
[16] Zeri 1983.
[17] Calabrese 2011, p. 22.
[18] Calabrese 1987, pp. 201-204.
[19] Calabrese 2011, p. 21.
In copertina: una scena dal film di Peter Greenaway, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover), 1989