Nelle stanze del museo: il Louvre di Yves Bonnefoy

28/03/2022

È uscito da poco il primo numero di “Wunderkammer”, rivista a cadenza semestrale pubblicata dall’Accademia di Belle Arti di Brera e da Silvana editoriale, nel cui comitato scientifico figurano Rossana Bonadei, Michele Cometa, Ruggero Eugeni, Flavio Fergonzi, Giovanni Iovane, Saverio Lomartire, Gianfranco Marrone, Valter Rosa, Salvatore Settis, Carlo Sisi, Vincenzo Trione e Ugo Volli. Per la cortesia di autore, editore e direttore responsabile, Martina Corgnati, proponiamo un estratto di un articolo di Stefania Zuliani.

“Avrei voluto entrare da bambino in un luogo così”[1]. È un’osservazione apparentemente semplice, un richiamo allo sguardo meravigliato dell’infanzia, alla potenza che le immagini esercitano su chi ancora non usa lo scudo della parola, quella che Yves Bonnefoy ha scelto per aprire Le Grand Espace, il libro che racconta in frammentata scrittura il suo viaggio nelle stanze del Louvre. E davvero è un grande spazio quello dell’antico museo, eppure in fondo è (anche) “poca cosa”[2], come annotava appena qualche pagina dopo il poeta, che già aveva evocato “le ali spiegate sul mondo” e le vesti gonfie di vento della Vittoria di Samotracia, la maestosa scultura che da sempre accoglie trionfalmente il visitatore del museo, donna e dea “in piedi sulla prua di una nave conquistata, saccheggiata”[3]. Una visione imponente, frutto di un’intuizione “splendida” che Bonnefoy sente però nel suo scritto l’esigenza di ricondurre ad un orizzonte meno eroico, più umano, in grado di creare un argine a quella vertigine dell’eccesso che ogni museo-mondo suscita.

Si tratta di uno stupefatto smarrimento – non trovavano l’uscita neppure gli sposini de L’Assommoir durante il loro sconclusionato viaggio di nozze nel labirinto del Louvre [4]–  è un’euforia eccedente della quale il poeta nel suo scritto non perde tempo a mostrare la radicale insensatezza, l’inevitabile fallimento. Perché, per quanto ricche siano le sue collezioni, per quanto si sforzi d’essere universale o, peggio, globale, anche un museo come il Louvre, Bonnefoy ne è convinto, non è altro che un mondo incompleto, è un racconto spezzato, appena un’allusione, un simulacro della vita tanto che nelle maestose sale gremite di levigati corpi di pietra si vorrebbe poi incontrare “il vero corpo mortale, nell’impeto della danza”[5].

Candida Höfer, Louvre X, 2005

Nelle stanze numerate, nelle gallerie piene di luce mancano l’odore dell’incenso e il rumore della caccia, il calore di quegli ambienti domestici dove gli oggetti un tempo hanno vissuto, dove sono stati utili, usati e amati prima di diventare fragili cose da esposizione, feticci e trofei in cui il fremito della nuda esistenza si nasconde, soffocato dallo splendore delle vetrine e dalla disciplina delle distanze. Ed è proprio di quel sopito respiro che Yves Bonnefoy ha provato a restituire traccia e segreto nelle pagine, a lungo silenziose, de Le Grand Espace. Lo scritto, pubblicato nel 2008, era stato commissionato quindici anni prima al poeta da Jean Galard, studioso di estetica che ha diretto per lunghi, cruciali anni  – dal 1987 al 2002 – i servizi culturali del Louvre. Galard, che ha dedicando al Louvre des écrivains un monumentale volume[6], nella convinzione che coloro i quali “font droit à la littérature” siano in grado di offrire un contributo irrinunciabile alla comprensione e alla narrazione dell’obliquità, dell’ambiguità di ogni grande opera, aveva infatti scelto di chiedere a Yves Bonnefoy, da sempre attento lettore e scrittore dell’arte del passato e del presente, di realizzare la sceneggiatura per un film che avrebbe dovuto raccontare le trasformazioni recenti del museo, divenuto nel  1989, bicentenario della Rivoluzione, appunto il Grande Louvre . Un’intenzione che il poeta evidentemente aveva colto e interpretato con una libertà tanto radicale da non trovare poi una corretta corrispondenza nel progetto, sostanzialmente celebrativo, del film, dove del testo di Bonnefoy non sono alla fine rimaste, come lo stesso scrittore ha raccontato, che pallide e disconosciute tracce. Un fallimento che però si è tradotto in un libro raro, carico di promesse, un libro che non interroga  l’arte, gli artisti, le opere, come accade per quasi tutti gli autori convocati da Galard nella sua lussuosa antologia, e  che racconta invece proprio il museo, la sua natura inquieta, i suoi trionfi e le sue crudeltà.

Candida Höfer, Louvre XII, 2005

Sono brevi prose, frammenti raccolti “sotto il segno dell’incompiuto, dell’abbozzo, dell’impossibile”[7], folgoranti note che sviluppano un vero e proprio itinerario in cui la soggettività dell’autore si lega in maniera sempre imprevedibile alle luci e alle opere del Louvre. È una vera e propria enfilade di testi spaziati d’aria, in bilico esatto tra impressione e commento, interrogazione e descrizione, che insieme tracciano nelle stanze del museo un percorso a un tempo reale e immaginario. Si parte dunque dall’ingresso, dove la piramide (in realtà, una “clessidra” da rovesciare) scandisce il tempo, opportunamente finito, della visita, e da qui, attraversando sale e cortili sempre trasformati e sempre riconoscibili, si giunge infine all’impossibile uscita – “sto davvero uscendo dal Louvre o non sono piuttosto alla fine di uno di quei sogni che spesso mi coinvolgono, di episodio in episodio, e di cui il ricordo a poco a poco sviene?”[8] – un “lasciare” (“Quitter”) che è poi una promessa di altri viaggi, “avanti, all’infinito”[9].

Né poema né cronaca, e neppure guida sentimentale come quella a cui Alfonso Gatto ha consegnato negli anni Trenta la meraviglia della sua Milano[10], Le Grand Espace è un testo ibrido e per questo vitale, pieno di domande (“Il centro dov’è?” “Si deve incendiare il Louvre?” “Si deve proprio scendere nei depositi?” “Chi è questo giovane pittore?”), una sceneggiatura intima attraversata da riflessioni, digressioni, scandita in stanze, non soltanto poetiche, fittamente abitate da opere e da visitatori. Sì, anche da visitatori perché proprio come accade nelle grandi immagini del progetto  Museum photographs realizzato a partire dal 1989 da Thomas Struth[11], una serie di fotografie dove i musei non si mostrano mai come austeri specchi del passato o come smaglianti istantanee del presente ma come luoghi, a volte caotici, di relazione e di mescolanza, i frammenti di Bonnefoy ci mostrano la promiscuità del museo che è promiscuità di persone ed anche di opere (“Bene andiamo ora da una sala all’altra tra queste braccia tese, questi colli piegati, questi seni grandi e nudi, e queste divinità irritate, questi folli guerrieri, questi assassinii, questi uccelli che si alzano in volo nella pietra”)[12], una “confusione” che Paul Valéry aveva dal canto suo riconosciuto, stigmatizzandola, nel suo celebre resoconto di una visita al Louvre, impura “casa dell’incoerenza”[13].

Thomas Struth, Louvre 4, Paris, 1989

Al pari degli scatti museali di Struth, soprattutto di quelli, più frastornanti, più densi di sguardi e di gesti che s’incrociano, che appartengono alla serie Audience, anche le parole con cui Yves Bonnefoy racconta il (suo) Louvre non espungono i corpi, spesso indisciplinati, sempre inquieti, dei visitatori, al contrario. Non si tratta, va detto, di isolare nei frammenti alcune singole visioni pacificate, persino commoventi come quella dei due ragazzi che, giunti zaino in spalla da lontano, nel fermarsi davanti a un quadro spengono “l’immenso scalpiccio di questi visitatori senza nome, del cui flusso anche loro due sono parte, di sala in sala”[14], perché il pubblico di cui scrive Bonnefoy, proprio come quello fotografato da Struth, ha anche l’irruenza e il suono della massa, è un fiume che travolge, che si espande e si addensa, che fa rumore, calpesta, consuma, incontra. Del resto, come aveva avuto modo di sottolineare Georges Bataille nella definizione di museo proposta, era il lontano 1930, nel dizionario critico pubblicato da “Document”, il museo in realtà non contiene solo oggetti ma anche e soprattutto persone, o, meglio, la “folla”[15]. Questo Yves Bonnefoy lo sa bene e nelle stanze del suo Louvre incrociamo spesso proprio la “folla interminabile”[16] dei visitatori e incontriamo anche i restauratori, creature magiche dotate di alchemici poteri:  “Non si aggirano forse esseri mascherati spugne alla mano, e con pesanti boccette fitte dentro la cassa che posano vicino a tavole o tele?”[17].

Thomas Struth, Louvre 2, Paris, 1989

Quello che il poeta disegna attraverso le osservazioni, le meditazioni raccolte ne Il grande spazio non è, va sottolineato, un racconto lineare, nonostante esso sia scandito da luoghi e opere in successione – le sale dedicate all’Egitto (“Perché amiamo così tanto l’Egitto?” ancora una domanda…), quelle che espongono la scultura greca, “ che raccoglie il miele dei numeri”, e poi la Gioconda, la pittura francese, i cortili vetrati…– e benché esso abbia, proprio come la vita, un inizio, un (incerto)centro, una, magari provvisoria, fine. Non fa del resto meraviglia il rifiuto di una trama, di uno sviluppo senza ritorni e interruzioni da parte di un poeta che si era inizialmente riconosciuto nelle proposte del Surrealismo, movimento che è restato un riferimento sottile nella storia poetica e critica di Bonnefoy anche negli anni in cui la distanza dalle tesi di Breton sembrava e veniva dichiarata definitiva[18]. L’attraversamento che egli compie del Louvre non è certo una, magari poetica, visita guidata, è  piuttosto, una deriva, un percorso fatta di soste e di attese, di ascolto e di consapevole impossibilità: “Essere al Louvre, sapere che là ci sono tante di quelle sale che non si visiteranno, né oggi né mai”[19]. Sono, quelle sale che resteranno nascoste, gli spazi talvolta inaccessibili dell’esposizione, ma sono soprattutto i depositi, i laboratori, gli uffici, quella rete di sotterranei da cui il museo, antica fortezza, attinge la sua forza e il suo mistero. Perché poi andare al museo è alla fine sempre un viaggio nel profondo: “Vado nel museo, ho l’impressione di scendere dentro le immagini, più giù del pensiero che ha loro assicurato la vita, anche più giù, in assoluto, del pensiero stesso. Credo di toccare nel guazzabuglio dei capolavori la stessa materia nera, impenetrata, che urta al di sotto del museo contro le acque del grande fiume”[20]. La scommessa, la stessa che Bonnefoy ha giocato in tutti i suoi testi sull’arte, è quella non soltanto di superare la pura otticità, la verità di superficie degli occhi, ma anche di evitare le restrizioni del concetto (“lo sappiamo, siamo più del fantasma di noi stessi che il concetto ci fa rischiare di essere”)[21] per accedere alla “presenza piena di ciò che è”, pienezza di cui l’arte, “guarigione dal concetto”, è garanzia. Bisogna quindi sprofondare, andare al di sotto del reticolo del sapere analitico, per dare libertà allo sguardo che crea, “non l’universo come è costruito dalle scienze – l’universo degli oggetti e delle leggi, vale a dire semplicemente materiale – ma il luogo in cui gli esseri esistono in quanto esseri e hanno tra loro rapporto in quanto esseri: quello che questa volta chiamerò la terra, la terra degli uomini”[22]. Una terra che, proprio come accade per l’Italia, secondo Bonnefoy privilegiata, innata “terra per le immagini” [23], è abitata, innanzitutto, dal desiderio d’essere che necessariamente agita gli artisti, un desiderio che non è né ambizione di potere né brama di possesso, è, per dirla con Elena Pulcini, un’empatica passione “di cura”,[24] una risorsa sociale che esprime il bisogno di dare senso al nostro essere al mondo attraverso la relazione, dando forza e voce al rapporto dell’Io con l’Altro, con la sua singolare – mai generica, mai astratta – presenza.

Candida Höfer, Louvre XVIII, 2005

Così, il discorso che Bonnefoy conduce sul luogo dell’arte, su quello spazio carico di possibilità, ogni volta da riscrivere e da rivivere, che è il museo, si rivela come un potente discorso sul e del desiderio, una riflessione e una cronaca che parla non tanto delle singole opere, che pure si mostrano, sempre enigmatiche, ma della ricerca incessante di un’esperienza che sappia sporgersi oltre il visibile,  “l’attestazione senza riserve di ciò che è al di là dei segni, di quello che i segni non sanno” [25]. È questo, ad esempio, il senso che Bonnefoy attribuisce alla scultura imperfetta di Alberto Giacometti, artista più di ogni altro amato, che è  poi il senso di ogni autentica opera d’arte, instabile campo di battaglia in cui si fronteggiano la verità sensibile colta dagli occhi e ciò che lo sguardo vede. Una tensione, questa fra gli occhi e lo sguardo, che Bonnefoy riconosce attiva in tutta la storia dell’arte[26], di cui il museo non si limita ad accoglie gli esiti, quasi fossero stanchi relitti da ricoverare, preservandone piuttosto le possibilità proprio come fa la fotografia, che è in fondo un museum on paper,[27] e che soprattutto è un medium in grado di mostrare la presenza: “Il fotografo, scattando la sua fotografia, può far sì che vi sia, anche lì, una presenza, la può persino sottolineare, farne sprigionare la singolarità dal grigiore dell’affaccendarsi quotidiano”[28]. Si tratta, ancora una volta, di una questione di sguardi, o, meglio, di un nuovo “sguardo avveduto e ricreatore (…) effetto dell’invenzione di Daguerre”[29] perché secondo Bonnefoy la fotografia ha generato un profondo cambiamento nella visione – una negazione e una riattualizzazione dell’essere – che ha inciso non solamente sull’immagine ma anche sulla poesia, poesia che, del resto, sta “al di sotto delle diverse forme della creazione artistica”[30]. Ed è proprio questa unità poetica delle arti a rendere il poeta più sensibile alla verità ultima dell’opera che alla sua forma o alle sue contingenti ragioni: “ non sono il critico che ha il compito di analizzare, con gli strumenti di cui dispone l’apporto degli artisti e di valutarne l’importanza. E non sono neanche lo storico responsabile di ritrovare e preservare le opere per situarle nel loro tempo e precisarne il vocabolario. Sono una scrittore che non può fare altro che dedicarsi a una scrittura irriducibilmente personale, che ha la fortuna, talvolta, di far salire sulla sua barca per un momento di ascolto, perfino di scambio, un poeta o un pittore di un’altra epoca che hanno con lui qualche intuizione in comune”[31].

Bonnefoy, che quando scrive dei suoi artisti d’elezione, di Goya, della “santa inquietudine” di Mirò[32] o di Piero della Francesca, non vuole parlare di loro ma con loro, sperando di sentirne la risposta, ha dunque riconosciuto nell’incontro e nel dialogo il nucleo vitale della sua scrittura dell’arte ed anche del museo, che, il poeta non ha dubbi, è un luogo per appuntamenti “che si vorrebbero prendere, con se stesso con amici di oggi, o con altri ancora, che sono nel fondo del passato ma con i quali si parla sempre”[33], è uno spazio dove si va “verso ciò che ancora non sappiamo”[34], dove ci si affaccia oltre il nostro essere.  Del resto, “faire oeuvre est se jeter hors de soi”, e questo Bonnefoy lo ha scritto riflettendo sui monumenti funebri di Ravenna, sull’ineluttabilità di quelle pietre che aprono un varco verso l’eternità, di cui noi, i viventi, possiamo fare soltanto temporanea eppure irrinunciabile esperienza[35]. Museo e mausoleo, per riprendere un accostamento forse ingannevole ma certo efficace – Orhan Pamuk, creatore del Museo dell’innocenza, ne ha di recente smentito drasticamente le ragioni etimologiche  – si trovano così accomunati non nel rinvio mortifero, come aveva suggerito T. W. Adorno[36], ma nell’essere lo spazio di una ricerca e di un possibile, comunque effimero, contatto con l’alterità, con l’enigma, con ciò che sempre ci sfugge e che sempre ci seduce, ci interroga, ci impegna. Si tratta “forse soltanto di uno slancio, che quasi subito ricade”[37] e che però ci assicura la possibilità di un attraversamento di metamorfosi e di conoscenza. Senza fughe e smarrimenti perché nella poesia, nell’arte, nel museo Bonnefoy non ha mai cercato un allontanamento dalla realtà ma il contatto con una realtà più densa, una “presenza di verità”, per citare Michel Leiris, poeta con cui Bonnefoy ha condiviso l’amore per l’arte, per Giacometti, soprattutto, e credo anche un’idea di surrealismo. Nella consapevolezza, lucida ma non per questo impietosa, che dalla poesia, dall’arte, dal museo non dobbiamo aspettarci alcuna redenzione ma “un passaggio verso un altro che comunque sarebbe ancora questo mondo qui”[38].


[1] Bonnefoy, Il grande spazio, 2008, p. 13.

[2] Ivi, p. 21.

[3]Ivi, p. 13.

[4] L’episodio è ricordato da Storrie nel primo capitolo del suo Delirious Museum, 2017, p. 15.

[5] Bonnefoy, Il grande spazio, 2008, p. 21.

[6] Galard, Le Louvre des écrivains 2015.

[7] Bonnefoy, Il grande spazio 2008, p. 9.

[8] Ivi, p. 91.

[9] Ivi, p. 89.

[10] Gatto, Guida sentimentale di Milano 1988. Il volume raccoglie gli articoli pubblicati dal poeta sull’ “Ambrosiano” negli anni Trenta.

[11] Struth, Museum Photographs 2005. Sulle foto di questa serie cfr. almeno Federico Luisetti, Ritratti nel museo 2005.

[12] Bonnefoy, Il grande spazio, 2008,p. 47.

[13] Valéry, Scritti sull’arte 1996, p. 113.

[14] Bonnefoy, Il grande spazio 2008, p. 27.

[15] Bataille, Musée 1930.

[16] Bonnefoy, Il grande spazio, p. 85.

[17] Ivi, p. 49.

[18] Cfr. Buchs, Yves Bonnefoy à l’horizon du surréalisme, 2005. Il testo è preceduto dal saggio Le carrefour dans l’image. Un rapport au Surréalisme dello stesso Bonnefoy.

[19] Bonnefoy, Il grande spazio 2008, p. 77.

[20] Ibidem.

[21] Bonnefoy, Osservazioni sullo sguardo., 2003, p. 6.

[22] Bonnefoy, Osservazioni sullo sguardo 2003, pp.8, 10.

[23] Bonnefoy, La civiltà delle immagini 2005, pp. 3-14.

[24] Pulcini, Tra cura e giustizia 2020.

[25] Bonnefoy, Osservazioni sullo sguardo 2003, p. 19.

[26] “Gli occhi e lo sguardo; ho questa distinzione in mente per caratterizzare ora, sinteticamente, le principali crisi che hanno colpito lo sviluppo delle arti in Europa: in un primo momento vinsero gli ‘occhi’ che imposero per un po’ il predominio del concetto nelle immagini, ma seguì più o meno rapidamente il richiamo al diritto dello sguardo, un di nuovo viva e forte esperienza dell’immediatezza e la sensazione di unità nelle cose e nelle persone”, Ivi, p. 10.

[27] Su questo tema mi permetto di rinviare al mio Obiettivo museo, in Il museo all’opera. Trasformazioni e prospettive del museo d’arte contemporanea 2006, pp. 111-121. Cfr. anche Marra, Fotografia e identità dell’opera nelle pratiche espositive 2020.

[28] Bonnefoy, Poesia e fotografia 2015, p. 58.

[29]Ibidem.

[30] Bonnefoy, Il punto di vista della poesia, in ID. Il grande spazio 2008, p. 114.

[31] Ivi, p. 103.

[32] Bonnefoy, Mirò 2014, p.11.

[33] Bonnefoy, Il grande spazio 2008, p. 55.

[34] Ivi p. 47.

[35] Bonnefoy, Le tombe di Ravenna 1982, pp. 5-26.

[36] Cfr. Adorno, Prismi 1974.

[37] Bonnefoy, Il punto di vista della poesia, in ID. Il grande spazio 2008, p. 111.

[38] Ivi, p. 98.

In copertina: Thomas Struth, Louvre 3, Paris, 1989

Stefania Zuliani

(1968) è docente di Teoria della critica d’arte e di Teoria del museo e delle esposizioni in età contemporanea all’Università di Salerno. Da sempre attenta al contributo che le scritture dei poeti e degli artisti offrono al dibattito critico contemporaneo, negli ultimi decenni ha orientato la sua riflessione all’analisi delle dinamiche che caratterizzano il Global Art World occupandosi in particolare delle relazioni che legano la produzione artistica e critica alla forma-museo e al sistema espositivo. Su questi temi ha pubblicato numerosi saggi e volumi e organizzato convegni e seminari internazionali. Giornalisti pubblicista e critico d’arte, ha curato mostre e cataloghi. Dal 2018 fa parte del comitato scientifico della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma.

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