Finalmente l’impossibile

27/03/2022

Nella notte dal 1° al 2 aprile – dalle 1.20 alle 6.30 – Fuori orario di Rai Tre manda in onda le riprese fatte lo scorso 21 marzo alla serata Il congedo impossibile (a cura di Luisa Viglietti, Stefania De Santis e dell’Associazione L’orecchio mancante), in ricordo di Carmelo Bene a vent’anni dalla morte. Con la conduzione di Graziano Graziani si sono esibiti, tra gli altri, Tommaso Ragno (dall’Ulisse di Joyce, con introduzione di Enrico Terrinoni), Marco Foschi (dall’Uomo che ride di Victor Hugo), Federica Fracassi (da Mille piani di Deleuze e Guattari), Filippo Timi (dalle Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber) e Iaia Forte (dalla Serata a Colono di Elsa Morante), con le musiche di Gaetano Giani Luporini. Seguiranno due capitoli storici della collaborazione di Bene con la Rai, Quattro modi diversi di morire in versi (1974, ma andato in onda tre anni dopo, da Majakovskij, Esenin, Blok e Pasternak) e Otello o la deficienza della donna (1979, seguito dai “tagli” andati in onda per la prima volta nel 2002 alla morte di Bene). Pubblichiamo qui l’originale contributo di Giulia Morelli, sulla storia d’amore appassionata (e in parte sconosciuta) del Fenomeno con la «Bella Prostituta Viva»: la tivvù.

A.C.

Marzo 1982. Un giornalista di mezza età si aggira tra il pubblico che affolla il Palazzo dello Sport di Milano, raccoglie un po’ di vox populi, chiede agli avventori come mai, quella sera, sono lì, ad assistere a un misterioso recital del cui contenuto, stando ai manifesti che tappezzano la città, nulla è dato sapere e solo l’interprete è noto. Una giovane donna con una zazzera bionda risponde che non le importa molto del programma della serata, è lì per vedere lui. Un’altra donna sulla trentina, dalla chioma corvina e ricciuta, dichiara che il biglietto le è costato 5000 lire e ammette che qualcosa è trapelato: probabilmente verranno lette liriche di un poeta contemporaneo, quali non si sa, ma non è importante. Una ragazza forse non ancora ventenne, coi capelli cortissimi e gli occhi chiari, dice di amare la poesia e di essere lì per quello – e naturalmente per lui. Soprattutto per lui. Il suo accompagnatore, un ragazzetto probabilmente non a proprio agio nei domini di Mnemosine, interrogato dal cronista, capitola: non conosce la poesia, forse gli piacciono un po’ i Futuristi ma di più non sa, ha solo scortato lei, che vuole vedere lui: Carmelo Bene. Davanti a quella folla oceanica il geniaccio di Campi Salentina recita, anzi dice, lacanianamente, i Canti Orfici di Dino Campana, «il più grande poeta del Novecento italiano», alla cui raccolta lo lega una consuetudine e una frequenza di rilettura notevolissima, accompagnato alla chitarra classica da Flavio Cucchi.

La Rai registra il recital che va in onda tre anni dopo, nel 1985, con il titolo La poesia dimenticata: in testa al programma, un’introduzione che raccoglie le testimonianze di cui sopra e una veloce intervista a Bene, che non ha dubbi sulla capacità della poesia di raccogliere moltitudini, anche «a sorpresa», poiché essa di sorpresa vive, e questa è ormai un’evidenza, corroborata dalle oltre diecimila presenze al recital bolognese con Eduardo De Filippo di pochi mesi prima, e, ammettendo controvoglia d’essere un fenomeno, chiude lapidario: «Aedi si nasce».

L’evento documentato dalla tv pubblica, replicato dopo quarant’anni lo scorso 16 marzo all’interno delle venti ore di programmazione della Beneide, trasmessa su Rai5 e curata da Felice Cappa, dedicata al teatro, alla poesia e al teatro musicale di Bene da Rai Cultura nel ventennale della morte, è paradigmatico della relazione tra l’opera di Carmelo e il mezzo televisivo. Le migliaia di spettatori accalcati in uno stadio o in un palasport per ascoltare poesia ignota ma soprattutto per vedere Carmelo Bene – il divo, la rockstar – sono senza dubbio, in larga parte, anche il frutto di un’esposizione televisiva oculata e costante nel tempo, per quanto sempre dirompente, nonostante l’intenzione dichiarata dall’artefice massimo dell’assenza fosse quella, programmatica nella sua cinematografia (se di cinematografia in senso stretto si può definire – come s’è visto nella proposta di Fuori Orario del 19 marzo), di «frantumare e maltrattare il visivo». Non per nulla, è Bene in persona a confessare di prediligere la televisione, «una bella prostituta viva», al cinema, ormai morto e putrefatto nel suo sistema di convenzioni indigeribili.

La maratona teatral-poetica beniana e l’antologia di antologia di apparizioni di Bene nei talk show storici della Rai (dal Processo del lunedì di Biscardi a Mixer, da Domenica in con Corrado Mantoni ad Acquario di Costanzo e Macao con Alba Parietti), entrambe disponibili su Rai Play, offrono la possibilità di mappare le epifanie dell’artista avvenute per mezzo del tubo catodico, consentendo allo spettatore volenteroso e paziente (talvolta, anche in senso etimologico) di mettere a fuoco, attraverso la progressione delle letture e riletture, il meccanismo insondabile della sua «scrittura di scena» – oggetto incommensurabilmente lontano dalla drammaturgia scritta – e la costruzione fisica e sonica della «macchina attoriale». Dunque se gli spettacoli, i recital, i classici in forma di concerto sono la materia poetica, il testo autografo, quelle che oggi definiremmo “ospitate”, le interviste, le dichiarazioni occhi in camera, sempre all’insegna della decostruzione, rappresentano una sorta di testo a fronte geroglifico, assolutamente sui generis, che anziché appianare la lettura ne rende i segni ancor più indecifrabili.

«L’essere buca sempre l’esistenza», ma anche il video. La phoné è l’ascolto che parla, che sfonda la porta della bocca, del corpo, chiosa Carmelo a casa Leopardi nel 1987: dieci anni prima, nel 1977, porta in tv Bene! Quattro modi diversi di morire in versi, una partitura che alterna testi di Blok, Esenin, Majakovskij, Pasternak su componimenti elettronici di Vittorio Gelmetti, e dieci anni dopo, nel 1997 a preludio del bicentenario leopardiano, legge integralmente i Canti in uno studio televisivo, oltre tre ore in primo piano. Letture inaudite, estenuanti, impossibili, impensabili, come quelle da Campana – oltre che nel già citato La poesia dimenticata, Bene affronta nuovamente Canti Orfici a favore di camera nel 1998, all’Auditorium Rai di Napoli –, come quelle dantesche e collodiane: imprese televisive che sono veri e propri agoni fisici con i testi fondanti del pensiero scenico di Bene – assieme a quelli di Shakespeare, di Marlowe, di Joyce – il quale, non ancora trentenne, in una cantina romana, nel 1967, alla domanda fuori campo del giornalista di Cronache del cinema e del teatro su chi sia il suo scrittore preferito non ha dubbi nel rispondere «Io». È chiaro che mente, sapendo di mentire e godendo nel farlo: la sua biblioteca personale di oltre seimila volumi, custodita nel neonato Archivio Carmelo Bene presso il Convitto Palmieri di Lecce, depositaria di questa menzogna, sarà prossimamente consultabile attraverso il Sistema Bibliotecario Nazionale.

Forse il modo migliore per comprendere le sue infinite manipolazioni, ibridazioni, finanche mistificazioni satiriche del Bardo – di cui, televisivamente parlando, ci rimangono i pastiche laforghiani Hamlet (1978), versione ripensata (o de-pensata) del film Un Amleto di meno (1972),e Hommelette for Hamlet (1987)e poi Otello o della deficienza della donna (1978), il deleuziano Riccardo III (1981)e il verdiano Macbeth Horror Suite (1997)– è assistere sbalorditi alla performance di un Bene un po’ alterato che, intervistato all’interno del notiziario Buster Keaton perché (1972) di Luciano Michetti Ricci, chiarisce il senso dell’essere attore in contrapposizione all’impostura dell’interpretare un personaggio, sconfessando l’operato dei registi-attori shakespeariani Orson Welles e Laurence Olivier in favore della faccia-obiettivo di Keaton, del suo distacco assoluto e completo dalla realtà contingente, della sua essenza sostanzialmente deficitaria e tenuta in scacco da limiti insuperabili, che sono quelli dell’essere, in fin dei conti. Una lezione, quest’ultima, mai assimilata dalle avanguardie teatrali, quella romana in particolare, che Bene bolla come suoi «aborti» in un intervento a Settimo giorno (1974), in cui dissimula affilate stilettate a Vittorio Gassman sotto il paramento di complimenti a denti stretti, non rinunciando ad affermare che a teatro, comunque, ci va solo a vedere Eduardo e Peppino.

Carmelo Bene e i suoi concerti poetici sono approdati più volte sui teleschermi nazionali: la vera e propria partitura, anche gestuale, del Manfred. Versione per concerto in forma di oratorio da Lord Byron con musica di Robert Schumann, dal Comunale di Bologna (1983), che seguì il debutto alla Scala nel 1980, segnando la svolta concertistica del teatro beniano, e poi Adelchi di Alessandro Manzoni in forma di concerto dal Lirico di Milano (1985), con le percussioni di Gaetano Giani Luporini a lungo sodale musicale del nostro, tacendo delle versioni radiofoniche di Egmont e Hyperion, per citarne solo due. Televisivo, eminentemente e volutamente televisivo, è infine il suo testamento artistico: Carmelo Bene in Carmelo Bene. Quattro momenti su tutto il nulla, quattro lezioni arricchite dal repertorio, su Linguaggio, Conoscenza, Eros e Arte, che si aprono con queste parole: «Finalmente una trasmissione impossibile, anacronistica».

Nella possibilità di eternarsi, seppur mutila, per frammenti, sibili, monconi, come nella sua In-vulnerabilità di Achille (tra Sciro e Ilio) (1997), data dal video, Bene ha intravisto una possibilità di durata per la sua opera: i limiti formali e linguistici di quelle operazioni, a distanza di tempo, si sono forse resi più evidenti ma il valore testimoniale è tale per cui è impossibile prescinderne. La ripetizione febbrile, l’approccio vampiresco e predatorio alla poesia e alla filosofia, la riscrittura inesausta, la reiterazione e variazione ossessiva su temi e stilemi, l’iconoclastia barocca e quindi ossimorica e sovraccarica, portati in scena per decenni diventano forse davvero intelligibili dopo aver visto e ascoltato le letture beniane da Filosofia dell’espressione e Dopo Nietzsche in Modi di vivere. Giorgio Colli (1980): la comprensione profonda, l’appropriazione di quel pensiero da parte del suo enunciatore illumina retroattivamente tutta la sua carriera, spiana la strada alla produzione che verrà.

Se in lui, nel suo programmatico e scente fallimento, s’è inverata la crudeltà che è il doppio del teatro che Artaud aveva fallito nella pratica, di quel teatro che per Bene «è vita e quando non ho da vivere così prendo un sonnifero e dormo» (Cronache del cinema e del teatro, 1969) e non certo l’ora e mezza di evasione di pubblico e critica – a tal proposito, imperdibile il match tra Bene e i principali critici teatrali della carta stampata in Mixer Cultura (1988) –, la televisione ha gettato un ponte importante tra il pubblico e il suo teatro dell’irrappresentabile e dell’incomprensibile.

Épater les bourgeois, certo – anche se Bene rivela, al microfono di Françoise Rivière per L’altra domenica (1977), grande stupore davanti all’accoglienza entusiasta della «borghesia francese» ai suoi Sade e Romeo e Giulietta al Festival d’Automne –, ma portarli, e in massa, anche in platea o allo stadio e torturarli, scandalizzarli, sconvolgerli con tutto il contrario di quel teatro inviso ad Artaud, «di invertiti, droghieri, imbecilli, finocchi: in una parola di Occidentali»: a cui sono assuefatti e di cui, irrimediabilmente, sono pur sempre complici.

In copertina: Carmelo Bene in Pinocchio, 1966 – fotografia di Claudio Abate

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