Dopo le edizioni del 1967 (Franco Maria Ricci), del 1974 (Scheiwiller) e del 2004 (Bompiani, accompagnato come adesso dai notevoli contributi di Giovanni Raboni e Marco Vallora, ai quali ora si aggiunge un partecipato profilo biografico, dell’artista, di Sandro Parmiggiani), appare per la quarta volta da Abscondita (pp. 143, € 19) il Ligabue di Cesare Zavattini: dal quale proponiamo qui – per la cortesia dell’editore e di Arturo Zavattini – un estratto.

Diceva Raboni in abbrivo alla sua introduzione che con Zavattini ci si sente «perennemente in debito». Col poemetto su Ligabue è successo, a me, come con Un paese: ne conoscevo l’esistenza ma, per un motivo o per l’altro, non l’avevo mai letto prima di questa (dunque) benvenutissima riedizione. Ha ragione Raboni a dire che, a fronte della sua generosità straripante, Zavattini dalla «cultura letteraria “ufficiale”» ha avuto poco, troppo poco. Ma conclude che «va benissimo così»: il «relativo apartheid», la «sottile, riguardosa emarginazione» a lui comminata si addicono all’«irregolare per vocazione, e quasi per professione», a «uno che non è , ma altrove». (Ciò malgrado coltivo la mia parte, seppur minima, di senso di colpa: giusto nel raccogliere i saggi di Raboni sulla poesia italiana contemporanea, ormai tanto tempo fa all’indomani della sua morte, tralasciai per colpevole ignoranza queste sue pagine, invece, così partecipate e penetranti.)

C’è solo un caso di versatilità paragonabile al suo, ed è quello di Pasolini. Solo che, contrariamente a lui, Pasolini (non solo mercè sovraesposizione anniversaria) è sempre qui. Dev’essere colpa, ho finito per pensare, della simpatia irresistibile di Zavattini (laddove Goffredo Parise, nei Sillabari, di Pasolini ha memorabilmente ritratto l’Antipatia). La sua figura è talmente inconfondibile (una sagoma, si dice dalle mie parti) che si pensa sempre di conoscerlo già: al punto che si trascura, nei suoi confronti, il più elementare gesto d’informazione (assurdo pensare di «riscoprirlo», dice Raboni; certo, chi non lo conosce?). Per poi scoprire che del suo multiforme ingegno ci mancava un pezzo importante, magari decisivo. Come in questo caso. Perché Ligabue, è il caso di esplicitarlo, è un capolavoro.

Il testo nacque per accompagnare una fastosa edizione d’arte, di quelle che F.M.R. cominciava allora a produrre (il primo titolo – programmaticamente il Manuale Tipografico di Giambattista Bodoni – risaliva a quattro anni prima), ma non era – a differenza di tanti casi simili – un più o meno giudizioso accoppiamento occasionale: la vicenda di Ligabue, non solo per motivi territoriali (che per lui comunque contavano, eccome), a Zavattini premeva assai. Tanto che in seguito vi tornerà a più riprese, accompagnando il testo con un denso post-scriptum, per la riedizione del ’74; e poi firmando insieme ad Arnaldo Bagnasco soggetto e sceneggiatura del serial RAI di tre anni dopo, diretto da Salvatore Nocita con un memorabile Flavio Bucci (mia indelebile memoria infantile).

Inclassificabile, come quasi tutto quello che Zavattini scrive. Certo non è poesia “pura” che prenda a mero spunto un’ekphrasis, diciamo alla maniera di W. H. Auden o W. C. Williams (anche se questo “rotolo” di versi dall’accentuata natura “orale” – Vallora definisce il suo un «tessuto stereofonico, contrappuntistico, radiodiffuso quasi» – ricorda in effetti, più della nostra, la tradizione anglosassone). Di tradizionalmente “lirico” nulla resta in questa «“poesia” saltimbanca, così poco lirica, così anticrociana», in cui di continuo «s’inciampa nel filo teso dei contenuti» (sempre Vallora); e poi in effetti descrizioni vere e proprie di dipinti, dal testo, latitano. Né si può dire, come da progetto di F.M.R., una «biografia lirica in versi liberi» del pittore: a dispetto (e anzi, a ben vedere in ragione) dell’irrituale messe di dati da “stato civile” che offre («nacque nel novantanove / da una friulana e padre incerto / a Zurigo. / Dodicenne vide / morire l’adorata madre» ecc.). Opportunamente ha ricordato Riccardo Donati (in uno dei rari contributi critici dedicati a questo misconosciuto capo d’opera: nel suo Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione, Le Lettere 2014) come proprio l’impossibilità della biografia fosse anzi, di Za, uno dei più saldi convincimenti. Il testo riporta, anche ordinatamente, gli incontri dell’autore con Ligabue (quattro in tutto): per lo più atti mancati, errori di coincidenza, occasioni perdute. Né si può ovviamente definire, Ligabue, un saggio in versi (alla maniera, poniamo, del Picasso di Pasolini nelle Ceneri di Gramsci), sebbene – survoltandone il modello, come quello della biografia – non manchi di riportare più o meno autorevoli opinioni di altri (citandoli, sempre irritualmente, per nome e cognome: Giancarlo Vigorelli, Lorenza Trucchi…).  

La sintesi migliore la dà, in forma aforistica, Raboni: «racconta di un pittore, un grande pittore, ma anche dell’uomo bizzarro e sventurato che quel pittore era; racconta di quel pittore e di quell’uomo, ma anche del poeta che ne parla, e di come questo poeta sia tentato di identificarsi con quel pittore; racconta del poeta che parla che è tentato, ma anche dell’uomo che questo poeta è; racconta del pittore e del poeta e del loro essere bizzarri e sventurati o bizzarri e tentati, ma anche del tempo in cui hanno vissuto e vivono, dei loro quadri e delle loro poesie, di che cos’è un quadro, di che cos’è una poesia». Quella dell’identificazione è in effetti una “tentazione” esplicita, d’acchito («Ho attraversato la piazza di Luzzara / fingendo di essere Antonio Ligabue»), e ancorché chi scrive confessi più avanti che «il tentativo dell’imitazione / in principio accennato / mi è fallito» («non riuscivo a immedesimarmi / in quanto la gente / a me sorride sempre / per motivi buoni o no»: il problema di Zavattini, come si vede, è sempre la sua simpatia…), resta questo l’enzima-chiave.

E allora, se è vero che questo è un «esperimento d’impersonificazione» (Donati), viene da pensare che la mimesi dell’artista – da parte di uno Zavattini che, non si dimentichi, era pittore a sua volta; e che dal ’41 prese a “commissionare” a tutti gli artisti che incontrava dipinti del formato “minimo” di 8 x 10 centimetri, privilegiando il genere dell’autoritratto e finendo per assommarne circa 1500… – “raddoppi”, del modello, il suo modo d’impersonificarsi. A “scoprirlo”, nel ’28, era stato Marino Mazzacurati: che s’era imbattuto per caso nelle sculture fatte con l’argilla degli argini del Po, dove questo sociopate terminale aveva trovato rifugio, e che gli mise in mano tavolozza e pennello. Come racconta una ricca aneddotica, a quel tempo Ligabue viveva davvero allo stato brado, e il suo modo d’impersonificarsi consisteva nel “divenire-animale”: «ululava / se dipingeva lupi / ruggiva se dipingeva leoni», «si arrotava il naso contro il muro / per averlo adunco / voleva essere aquila». Perché, riflette Zavattini, «forse gli animali vedono le cose quali sono / per questo tentava / di trasformarsi in loro» (trascinato alla Cappella Sistina scuote il capoccione: «non è pittore chi non mette in un quadro le bestie»). Il divenire-animale è la forma materialistica, o se vogliamo animistica, dell’imitatio Christi (tema ricorrente in Zavattini): o almeno così la intese Nietzsche, quel giorno fatale a piazza Carignano. Imitare uno come Ligabue vuol dire la stessa cosa. All’inizio Za non trova di meglio che mimare, quella mimesi, proprio fisiognomicamente (ancorché con la significativa mediazione di una figurazione intermedia, di Arnaldo Bartoli: il «manierismo» di cui parla Vallora) – «andavo con la sua faccia arricciata / come nell’acquaforte di Bartoli / mandando cancheri a chiunque sottovoce» –

ma alla fine capisce di averla mimata ben più profondamente, in effetti, con tutto il suo pugno di versi. E conclude: «se dovessi narrare in una riga / la storia di Ligabue / direi era meraviglioso come noi». L’esercizio trascendentale di Zavattini ha dato a tutti «noi» l’illusione di poter essere Ligabue. Solo l’illusione, per fortuna.

Andrea Cortellessa

È il ferragosto del sessantasette
un caldo antico.
Neanche in chiesa ci sarà una candela dritta.
La luce rimbalza sulle lamiere delle auto
con uno smagliante silenzio
equivalente al rumore.
I miei compaesani sono ai monti ai mari.
Sulla faccia dei rimasti
una vaga paura
che dalle crepe del Po asciutto
venga su qualche morto.

Ho attraversato la piazza di Luzzara
fingendo di essere Antonio Ligabue.
Distiamo sei chilometri da Guastalla
dove lui si innamorò
otto da Gualtieri
dove spirò nel sessantacinque.
Andavo con la sua faccia arricciata
come nell’acquaforte di Bartoli
mandando cancheri a chiunque sottovoce.
Questo pittore nacque nel novantanove
da una friulana e padre incerto
a Zurigo.
Dodicenne vide
morire l’adorata madre
e due fratelli
per ingestione di carni infette.
Dopo si sa soltanto che visse
presso una famiglia tedesca
nel cantone di San Gallo.
Un biografo serio dovrà
vedere che tracce
restano lassù di Ligabue
«Ricordate un ragazzo, italiano mingherlino
dagli occhi un po’ torvi bravo a scuola in disegno?
Da bambino aveva avuto i convulsi
adolescente fu messo in un istituto
che cura
i malati di mente e
nel museo delle bestie imbalsamate
stava a lungo a guardare».
Forse alzeranno le spalle perché
non hanno simpatia per i nostri
emigranti che rubano
i bei cigni a portata di mano
nei frequenti specchi d’acqua
e li mangiano per mandare
più soldi a casa.
A torto sospettandolo reo della sciagura familiare
Antonio odiò il patrigno nativo di Gualtieri
da cui ebbe
il nome
Laccabue (e le conseguenze di legge) che
si scrollò di dosso nel quarantadue
con un quadro regalato al messo comunale
e diventò Ligabue.
Firmava talvolta Ligabün
per riudire rimbombi dell’infanzia.
[…]
Infine si appartò con gli animali
di cui divenne padre
in un folto nei pressi del Crostolo
affluente del Po,
sopra la sua testa
passavano i carrelli
della fornace Altomani.
Dicevano nel bosco c’è un uomo
che mangia topi.
Lui sedeva sulla riva del fiume a lungo
anche per la sua natura pigra,
quando vedeva i fiori di schiuma
preannuncio delle piene
sono certo che non gli importava nulla.
Perisca pure il mondo.
Aspettava la crisi del male
tra un frinire o un frinare di cicale
gli spari freddi
dei cacciatori
centinaia di migliaia
in Italia
e pochi uccellini ormai.
Se avvertiva di stare per scollarsi
si aggrappava a una zattera invisibile
le vene del collo si ingrossavano
come a un sollevatore di pesi.
Quelle volte salvatosi
restava immobile
col respiro affannoso di dopo una salita
altrimenti
domandava di essere lasciato solo
suppongo sprofondasse in osceni dolori.
Pare avesse dipinto una donna nuda su un tronco
per vederla i boscaioli pagavano dieci centesimi.
Qualcuno mi ha parlato
dei primi suoi leopardi
sui mattoni dei portici
fatti col gesso disinteressatamente
finché incontrò Mazzacurati
il quale aveva nella testa
i colori della scuola romana
e secondo Alfredo Mezio proprio con questi lo influenzò.
Ma non amava chi gli dava consigli.
Non piangeva con facilità eppure – sembra
inventato – davanti a una rosa
una volta scoppiò in lacrime.
[…]
Quattro volte l’ho visto, la prima
sopra una motocicletta rossa a petto scoperto
lo sguardo corrucciato e fisso
lungo l’argine della Tagliata
con un quadro ancora fresco
legato dietro la schiena
attraversava il nostro paesaggio quasi
ignorato nella sua pittura
perché venuto dall’estero
con già ogni cosa dentro.
Nell’ultimo autoritratto
a un mese dalla paralisi progressiva
anziché i soliti sfondi elvetici
c’erano blu nebbiosi
con un presagio di temporale
dietro cinque pioppi guastallesi che
a aggiustare romanticamente le cose
si potrebbero prendere
per un omaggio
alla terra in cui insomma conveniva
che l’avrebbero seppellito […]
La seconda volta lo ricordo
in mezzo a un capannello
di luzzaresi
la mia auto aveva il motore acceso
pochi minuti di ritardo
e avrei perduto il rapido.
Con lo sguardo basso
insaccato nel vestito insisteva
mi porti a Roma
per cercarvi quadri smarriti.
Il mese venturo (io)
adesso (lui).
Studiavo il modo di salutarlo e non toccarlo.
Lo lasciai sotto i portici
con un abbraccio mentale per farmi perdonare
il non abbraccio reale […]
La terza volta che vidi Ligabue
è stato nell’ospedale di Gualtieri
in una camera a due letti
col vicino trascurato dai visitatori.
Si arrivò preceduti
da un cabaret di paste,
un pallore mortale
gli ingentiliva la scompostezza fisica.
Voglio sapere il giorno che guarisco.
Con vocetta da evanghelion (così Ligabue
chiamava il vangelo)
rispondevamo le tradizionali frasi di conforto.
Compreso l’inganno
si mise a bestemmiare
come prima
di Serajevo.
La suora imperturbabile
gli rimboccava le coperte sporche […]
Ligabue non voleva morire,
che cosa gli premeva
ora che il braccio per dipingere
era inservibile per l’eternità?
Lo avrebbero consunto nel Pio Ricovero.
Le famiglie si liberano dai nonni
i quali alla vigilia
di entrare nella porta inferi
dell’Opera Assistenziale
vivono l’ultima giornata alla pari
coi concittadini.
Comprendo e respingo il finale blasfemo di Antonio Ligabue
altrettanto quello di coloro
che surrogano anche in extremis
nientemeno che la vita con parole
credute create per l’occasione più unica che rara
ma sono sempre quelle che possiamo.
Al suo funerale c’erano i preti in testa
da lui non cercati
era un materialista (o un calvinista scrive Vigorelli).
Afferma su un nastro (inciso nel 62?)
di anima di anima si parla e
il Papa stesso
si cura con clinici famosi
per stare qui qualche anno di più.
Gli sarebbe piaciuto
contro il vento camminare
con un gran cane a lato
i gambali e i risvolti larghi
di una divisa, l’occhio aggressivo che
si intenerisce e chiede
pietà per tutti
in un solo autoritratto
reperibile nell’appartamento
di Bertacchini l’ex campione motociclista […]
Gli occhi di Ligabue
li ritroviamo all’improvviso
riconoscibili e scrutatori
in un cavallo o un pollo
dei suoi quadri.
Forse gli animali
vedono le cose quali sono
per questo tentava
di trasformarsi in loro.
[…]
Sognava di entrare a Gualtieri su un cavallo bianco
per umiliare tutti.
Quale feroce
necessità di essere amati abbiamo.
È una rivalsa del morto
(per quel che conta)
che nessuno degli abitanti
del comprensorio chiamiamolo ex prampoliniano
può fare a meno di parlare
di lui a letto con la moglie
o dal cocomeraio con la faccia mezza dentro a una fetta o
sui fienili che in questa stagione
s’incendiano e nelle
stalle i buoi allungano i colli
per rendere più duraturo il muggito.
Ieri notte sentendo odore di bruciato
cercavo nel cielo compatto
un bagliore che suggerisse dove,
presi una bicicletta casuale appoggiata a un pilastro
arrivai dai Ducón
il tetto stava sprofondando
bello
le faville a miriadi annullavano
quel che di triste aveva la figlia piangente del mezzadro
nel portare in salvo una specchiera.
Il cuore di Toni non batteva solidale
i giorni delle grandi disgrazie (al
tempo dell’alluvione portò in salvo a Guastalla
i suoi figlioli nutriti di erbe costose). Era stato
impossibile far diventare
suo luogo natale Gualtieri.
Quanto ci ha messo il luogo natale
a sembrare fatto apposta per noi
senza un centimetro di troppo,
anche il rotolio di un barattolo
risuona come specifico del posto,
a lungo andare scoprirei che cosa c’è sotto
ma non voglio
rovinare tanto lavoro
imperniato sulla mia credulità.
[…]
Costui
il cui livello intellettuale
si legge
nella relazione Zonta
era modesto
con un giallo più forte o meno
fa garantire a uomini che sanno:
è un artista straordinario.
Che cosa è l’arte?
Lo stesso impasto di pane
il sapore è diverso
se muta la forma.
Ha veduto i maestri?
sono nell’aria.
Spregiava gli altri pittori
con educazione.
Mescolava sulla tavolozza
scaracchi ocre avanzi di cibo
suppongo sperma
diluiva i colori con il piscio.
Era anche l’ansia di trovare
un segno verso l’impossibile
poi col pennello in mano
rientrava nelle regole.
Può darsi che l’arte sia
di tutte le energie
la meno libera.
[…]
Voleva la gloria Ligabue? Voleva che una sera
fosse venuta a bussare nel suo casotto
una di quelle ragazze
che vedeva sporgere la testa
da un cespuglio nel bosco
insensibile alle pungenti zanzare
chinarsi verso il basso
in che l’attende l’amante sbottonato
quante ne ha viste dai capelli diversi
però sempre luminosi
nel bosco dove incontri pecore appena sgravate
giranti intorno a se stesse
perché il neonato
nell’inseguire la mammella
impratichisca le gambe. Le ragazze
sono venute al convegno senza mutande
per far presto
tornano deflorate nell’abitato con
l’espressione estranea per allontanare il sospetto.
Gli piaceva la trifola ossia il tartufo?
lo vedo raspare in persona sui fianchi
degli arginelli addentare il tubero che stride
per il terriccio non del tutto tolto.
Se dovessi narrare in una riga
la storia di Ligabue
direi era meraviglioso come noi.

In copertina: Antonio Ligabue

(Luzzara 1902-Roma 1989) è stato sceneggiatore, giornalista, commediografo, narratore, poeta e pittore. Come sceneggiatore ha lavorato con Mario Camerini, Mario Bonnard e Alessandro Blasetti, prima di iniziare un lungo sodalizio con Vittorio De Sica, “inventando” il cinema neorealista: da “Sciuscià” a “Ladri di biciclette”, da “Miracolo a Milano” a “Umberto D.”. Le sue “Opere” letterarie sono state raccolte a più riprese dall’editore Bompiani.

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