Su certe antiche anfore minoiche abita una piovra immensa quanto l’Egeo, molle come l’argilla da cui è sorta. Lungo i flutti dei suoi tentacoli ondulati pullula la vita animale, quella vorticante massa polimorfa in cui il pesce diventa riccio, il riccio cavallo, il cavallo uccello: nel suo grembo salmastro deflagra un Cambriano delle immagini.
L’anima egea sognò insieme il mostruoso e l’armonia, il palazzo e il labirinto. Sognò affreschi brillanti d’azzurro e oro, di spirali, triangoli e conchiglie, ma soprattutto tori, piovre, delfini, crostacei. Sfondo e protagonista del sogno fu thálassa, l’oceano profondo, l’immanenza inafferrabile del dio preomerico, a un tempo uranico e terrestre, maschio e femmina. Doppio come la folgore, come la scure, come le corna taurine mutate in tridente. Doppio come la dea, Afrodite in superficie, in acqua nautilus argonauta dagli ampi tentacoli. Ora incarnato in un toro bianco, ora nel serpente turchino che avvolge la terra, confuso e sovrapposto nella folgore lucente o nella nera Ananke. I riflessi dell’immaginazione pagana qui non conoscono ancora individualità, ma solo variazioni di qualità proteiformi, funzioni e predicati rifratti provvisoriamente in un fantasma, un coagulo della mescolanza, un equilibrio instabile della chimica celeste. In questo gioco di maschere, dove il cielo si scambia col mare, il fuoco con l’acqua, sta, secondo Florenskij, il fondamento della filosofia antica.

A Creta vissero gli avi del pensiero greco; ma è a Milesio che la filosofia muove i suoi «primi passi», come titola il manoscritto delle undici lezioni di Florenskij tenute a Mosca nel 1909, edite da Andrea Dezi per Mimesis. Undici indagini sul legame tra la preistoria egea e la coscienza ionica, tra gli oscuri simbolismi minoici e la luminosità razionale della classicità. Undici riflessioni che preconizzano le opere florenskijane della maturità, come Le porte regali o La prospettiva rovesciata, nella misura in cui dalle immagini si dischiude o esplica lo sviluppo delle idee, sicché «i concetti filosofici non sono altro che trasformazioni delle forme mitiche». Un Florenskij per altri versi inedito, appena trentenne, che invita i suoi studenti a frequentare la sua vasta erudizione, muovendo tra testimonianze storiche, archeologiche, iconografiche; indagando le forme della ceramica e della moda, dei colori e dei metalli; interrogando assiduamente la mitologia, la dossografia e l’epos antichi. Ma esortando anzitutto a guardare il mare, a rinnovare quell’esperienza numinosa e infantile, a ravvivarne gli stati d’animo, lo stupore e la quiete originari che nutrirono il pensiero ancora in fasce.
Le analisi florenskijane, dotte e trasognate, inseguono la scienza fanciulla che inizia a muoversi sulle proprie gambe, appena svezzata dai miti e dai culti, ma ancora immersa nelle impressioni marine: quelle di una città portuale, la Milesio del sesto secolo, che dal mare trae sostegno, al mare rivolge domande e preghiere, nel mare trova la propria memoria e, non di rado, la propria morte. Proprio a Milesio, dove era il culto ionico di Poseidone azzurro, nacque Talete, e con lui il pensiero dai due corni inconciliabili: metafisica e naturalismo. Fu infatti teoreta, ponendo per sempre le questioni prime della filosofia: l’arché, il theion, l’ousía. E fu scienziato, perché il suo materialismo si sviluppò, stando a Simplicio, dall’osservazione dei processi vitali, scevra di dogmi o preconcetti, sempre in cerca di ciò che resta, dell’immutabile qualcosa sussistente a ogni trasformazione: se infatti materia è ciò che sempre muta di stato, «divina» è la natura immutabile in essa manifesta, l’unica mente, commenterà Cicerone, che trascolora di forma in forma.

Talete meditò sul principio, osò domandare della natura ultima degli dei. Concepì quindi il divino «senza inizio e senza fine», come le correnti. Nell’acqua collocò il principio di ogni cosa, elemento e causa e forza primigenia. Nell’acqua vide il rivelarsi di potenze finora ignote ai greci, e che volle indagare. Il Talete di Florenskij è certo una vita immaginaria, nitida e anacronistica, costellata di simboli – come il noto aneddoto del pozzo in cui cade mentre guarda in alto tra le nuvole, anch’esse «pozzi celesti». A ben vedere l’incidente filosofico porta con sé una scoperta segreta: ciò che sta sopra è uguale a ciò che sta sotto, e le acque superiori si specchiano in quelle inferiori. Nel cielo come nel pozzo Talete scopre il primum liquido, come riflesso attraverso un caleidoscopio: il seme, il sangue, l’olio, gli umori, e poi il nutrimento, la fermentazione condividono una stessa natura umida e termica. Chiave di ogni sapienza medica e farmaceutica, l’umidità genera la vita, mantiene o corrompe la salute, permette ogni attività: corpora non agunt nisi soluta.

Primo eretico e primo scienziato, discepolo di nessuno, Talete inaugura quella ricca stagione della Naturphilosophie ionica, così affine, secondo Florenskij, al primo Rinascimento italiano, ugualmente capace di parlare «del divino nei termini della fisica, e dell’acqua nei termini della teologia» (lezione X). Prima di Anassimandro e Anassimene, prima di Eraclito, Talete pensò infatti l’animazione universale, la vita nella pietra e nel magnete: Aristotele in persona gli attribuisce l’idea bizzarra di un’unica zoé ininterrotta, una forza plastica che innerva tutta la materia; Diogene Laerzio lo spinge fino alla scoperta dell’individuazione psichica di tale vita, cioè delle teofanie: determinazioni di un cosmo «tutto pieno di demoni», vivo e agente in ogni piega. Pensando assieme la sostanza e l’anima, il mare sconfinato e la monade in sé conchiusa, l’infanzia filosofica tratteggia l’antinomia millenaria tra l’impersonale e l’ipostatico, il preindividuale e l’individuazione (lezione XI). Antinomia rinnovata in ogni immagine del nume, giacché il simbolismo di Poseidone, parafrasando Borges, non è affatto una metafora, una personificazione dell’acqua, né tantomeno il dio del mare: egli è il dio ed è il mare. Acqua madre sovraccarica e ribollente, in cui tutto si agglutina e tutto si scioglie, l’ousía indeterminata, originaria e fondante, incessantemente si condensa in tori, asce e demoni, moltiplicazione di nomi e volti (lezione V) che lo attualizzano e rivelano: idee, queste, che Florenskij riprenderà nella sua teologia dell’icona.

Talete è dunque un nome della filosofia, così come oceano è un volto della sostanza, del principio scoperto dagli ionici e immaginato dai cretesi: a un tempo abisso e superficie, fato e destino, eternità e dissoluzione. La sua natura duplice rispecchia quella del pensiero che domanda di sé, cifra di ogni vita, che del dio è solo uno specchio, un flusso. Le sue acque, trasparenti e placide, ora sono benevole alle trame degli uomini; ora invece esplodono nella saetta devastante, nella tempesta esiziale, nel naufragio che tutto inghiotte, permanendo solo il sorriso di Afrodite immortale – come nel quadro di Léon Bakst, Terror antiquus,commentato da Florenskij. Ma è proprio la sua bellezza crudele e felice a costringere ancora il pensiero a uno sforzo rinnovato, a riprendere quel «lungo viaggio» che non ha altra meta fuori di sé, della sua stessa origine marina. Qui la mente ritrova il prodigio iniziale, la meraviglia che educò alla meditazione quegli uomini remoti: tutti i passi della filosofia sono, in ultima istanza, sempre e solo «primi passi», con i quali l’infanzia ionica ricomincia perpetuamente.
Pavel A. Florenskij
Primi passi della filosofia. Lezioni sull’origine della filosofia occidentale
Edizione italiana a cura di Andrea Dezi, Mimesis 2022, pp. 257, € 22
In copertina: affresco del Palazzo di Cnosso, dettaglio