R-O-T-H-K-O. Negli Essays in the Art of Writing (Chatto & Windus 1920) Robert Louis Stevenson appunta: «la bellezza di un nome dipende implicitamente dalle allitterazioni e dalle assonanze. La vocale esige d’essere ripetuta, la consonante esige di essere ripetuta, ed entrambe reclamano a gran voce di essere costantemente variate». Pronunciandola all’italiana, con la punta della lingua che batte contro gl’alveoli degli incisivi, la “r”, a differenza di quanto avvenga se articolata come una semplice fricativa, secondo la dizione inglese, non sembra indurre a quella particolare sinestesia per quale si forma oralmente una lettera mentre se ne immagina il contorno, e in virtù della quale essa (raccogliamo volentieri una suggestione di Nabokov, fine ascoltatore della favola dei suoni) evoca un grigio cinereo che si stempera, se ancora s’indulge nell’esercizio d’audition colorée suggerito dall’autore di Parla, ricordo, nell’avorio della o, nel verde pistacchio della t, per quindi tornare a sfumare nel marrone desaturato della h, ravvivato dal mirtillo della k, che però subito sbiadisce per il ritorno del dorso eburneo della o.
Non si vuol proporre, in chiave coloristica anziché musicale, il medesimo artificio col quale Bach ha voluto suggellare la prima edizione a stampa dell’Arte della fuga, dove nell’ultimo brano le prime quattro note – si bemolle, la, do, si naturale – seguendo la notazione tedesca (e anglosassone) in cui ogni nota corrisponde ad una lettera, formano il nome «BACH», ma provare a seguire l’indicazione di coniugare l’«impulso ritmico» per mezzo del quale un colore può sussistere per se stesso con il desiderio che tutte le cose e le parole che le designano si riducano a un puro cromatismo. E ciò in quanto la nostra realtà non può più manifestarsi «nel suo aspetto esteriore», ma è destinata – si legge in una pagina del 1945, che costituisce uno dei documenti più significativi della nuova edizione (completamente riveduta e aggiornata rispetto a quella pubblicata da Donzelli, ancora a cura di Riccardo Venturi, nel 2006) degli scritti di Mark Rothko – a disfarsi «per effervescenza nell’incorporeità della memoria e dell’allucinazione».
La serie di tele Untitled, dominata dall’assolutezza della campitura, intende dare il senso di questa dissoluzione della realtà materiale attraverso l’intersezione di colori vividi, bagnati da una luce che non può propriamente osservarsi, ma soltanto percepirsi come una visione numinosa che avvolge l’osservatore, facendolo partecipare a un “darsi” che segna l’«abbandonarsi al vedere», ovvero all’apparire d’un fenomeno che sorge solo da se stesso, quale ágalma, “immagine informe” che «lacera l’assicurazione disincarnata della pura visibilità», per far emergere – nelle parole di Georges Didi-Huberman (Immagini malgrado tutto, Cortina 2005) – una «singolarità momentaneamente inqualificabile». In questo senso – come Venturi, citando Clement Greenberg, rileva nella sua ampia postfazione – le opere di Rothko segnerebbero uno scacco della comprensione: la loro superficie, «in tutta la sua letteralità», porrebbe una serie di inciampi, di residui, di differenziazioni, che spezzerebbero la «planeità», senza però violarla.
Una prospettiva, questa, che si trova confermata considerando i quadri di Rothko alla luce dei suoi scritti, o, meglio, del percorso che questi suggeriscono, invitando a pensare con le immagini, piuttosto che a pensare le immagini, così da dar vita ad una singolare icono-grafia, la cui funzione – si legge nel tutt’ora inedito album di schizzi The Property of, del 1954, ma se ne ha traccia anche nel coevo carteggio con Katherine Kuh – è di rendere manifesta la «lacerazione» dalla quale nascono tanto le sue tele quanto la sua poetica e la sua riflessione storico-teorica, quale in particolare emerge dalle annotazioni consegnate a L’artista e la sua realtà. Filosofie dell’arte (Skira, 2007). Qui, dietro l’esame delle figure prime della storia dell’arte e delle sue maggiori correnti, si riscontra la tendenza alla rottura e alla ramificazione. Il che, da un punto di vista retorico, si determina in un insistito ricorso all’anacoluto, che rompe la costruzione per «liberare il volo d’un senso nuovo»: un ritrovato che trova il proprio correlato pittorico in una linea idealmente infinita, che sussiste in sé, senza che sia rappresentato l’ente ch’essa delimita, in modo da suggerire una «sensazione di movimento sia all’interno della tela che al di fuori, dallo spazio anteriore verso la superficie».

In diversi scritti di Rothko, là dove ci si aspetterebbe che la relazione delle parole fosse sottomessa alle leggi di una certa probabilità, si osserva una rarefazione che lascia uno spazio alquanto esiguo alla previsione. Accade così che, nel mezzo d’una disamina sul ruolo dell’artista novecentesco, inopinatamente ci si imbatte nei «Fuochi dell’Inferno» (dai quali sarebbe dilaniato colui che abbia perduto il proprio mecenate); ovvero che la parola «aspirapolvere» faccia la sua comparsa accanto a una serie d’esempi d’opere tutte risalenti all’arte ellenistica successiva al IV secolo A.C. (per attestarne la mancanza di originalità). Si tratta di parole che appaiono «supernutrite di colore, di sapore, di forma, insomma di qualità», e che sembrano svolgere, in ambito testuale, la medesima funzione che nelle tele esercitano i “piani parziali” rispetto alla superficie frontale; piani che «sono indipendenti», perché «si trovano in un’area rettangolare limitata. I loro bordi sono leggermente sfregati uno sopra l’altro per lo “sfondo”. Questi diventano quasi dei chiari. Il bordo “frontale” è tenuto per la sua prossimità alla tela (le è parallelo), di modo che l’altro sia costretto a retrocedere» o ad «avanzare», conferendo «respiro» all’univocità della superficie dominante.

In Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio (Mimesis 2011), Marcello Barison ha ritenuto questo movimento rispetto al piano pittorico assimilabile a una «sintassi posizionale», che rifletterebbe il sistema delle reciproche posizioni assunte rispettivamente dai rispettivi piani internamente al campo dell’immagine. Figurativamente l’ordine sintattico dei piani può dirsi tettonico: il divario verticale che li distingue è ciò che permette loro di sovrapporsi, come avviene in Red and Blue over Red (1959), di urtarsi per scorrimento, ove in equilibrio energetico cromatico (così in Light red over black, 1957), o di scivolare uno sotto l’altro (ad esempio in No. 16, del 1950). Ma può altresì riconoscersi, sotto il profilo ermeneutico, che tale sintassi permette che l’opera risulti intelligibile. Il movimento di allontanamento, avvicinamento e attraversamento che la innerva è quello proprio d’una poetica della prossimità nella distanza ovvero della distanza nella prossimità, cui l’anacoluto introduce e che la metafora completa, ove intesa come strumento sia di contiguità che di disgiunzione, per rappresentare la plasticità del reale, il suo perturbante fluttuare fra ciò che è sempre e immutabile e ciò che diviene ed è visibile.
È questo perenne dinamismo a far sì che chi visiti la Cappella Rothko a Houston – ha notato James Elkins (Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti ad un quadro, Bruno Mondandori, 2007) – avverta una sensazione di smarrimento a cospetto di tutti i pensieri ordinati e preconcetti, i quali finirebbero per crollare e svanire, onde lasciare spazio a una inestinguibile apparenza: quella che non cessa d’essere quand’anche qualcuno l’abbia già svelata.

Mark Rothko
Vivere l’arte. Scritti 1934-1969
a cura di Miguel López-Remiro. Edizione italiana a cura di Riccardo Venturi
Donzelli, 2021, pp. 288, € 40
In copertina: No. 16 (Red, Brown, and Black), 1958 – MoMA, New York © Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko (particolare)