“Proof”. Fotografie di un non vedente

I primi fotogrammi di Proof (Istantanee, 1991) fluiscono entro un veloce montaggio di fotografie “mal inquadrate” di nuvole, alberi e cani.  Sono immagini realizzate con puntamenti e inquadrature casuali sul mondo quotidiano. L’incipit visuale è la chiave del film, porta l’attenzione sul decentramento di queste prime inquadrature: le immagini fotografiche paiono al contempo focolai di verità e contraddizioni semi-formate, che dipanano un senso di irresolutezza.

Il protagonista della narrazione è Martin, un non vedente sin dalla nascita che ricerca assiduamente testimonianze fotografiche del reale. Cerca di visualizzare queste presenze anche attraverso i polpastrelli delle sue dita e le descrizioni di chi ha vicino. Il “fotografo cieco” sembra una contraddizione in termini o una metafora che nasconde in sé qualcos’altro. Il soggetto è interessante e apre questioni legate alla volontà di voler vedere nonostante non vi sia un apparato visivo in grado di farlo. Mi riferisco all’atto di chi vuole capire l’immagine anche senza la vista. Le immagini di Martin operano prevalentemente come un sostituto della memoria visiva. Il non vedente, come ogni altra persona vedente, sceglie ciò che vorrebbe guardare, decide dove puntare la sua macchina fotografica, attirato o da suoni o spinto da una scelta istintiva. Secondo John Berger, “le fotografie di per sé non narrano”, ma possono solo “conservare le apparenze istantanee”. E quali sono le apparenze individuate da Martin?  La fotografia ha poco valore empirico, non rivela nulla al protagonista sulle insidie delle sue stesse orchestrazioni. Perché affidarsi a un medium visivo quando si è impossibilitati a utilizzare gli occhi? Ricordo un sottile lavoro di Sophie Calle, The Blind (1986), dove l’artista francese ha chiesto ad alcuni non vedenti dalla nascita di definire la loro concezione di bellezza. Le risposte erano prevalentemente legate a esperienze tattili o uditive, sensoriali quasi sempre.

Sophie Calle, The Blind, 1986 – Hair, My bedroom

Che immagini otterremmo se entrassimo in una stanza totalmente oscurata o a occhi chiusi, dotati di una piccola torcia e di una macchina fotografica, puntando la luce su ciò che abbiamo sentito col tatto o con altre facoltà?  Le immagini ipotizzate corrisponderebbero a quelle realizzate senza guardare con gli occhi? Quali immagini si visualizzano mentre una persona racconta una storia o descrive un’opera d’arte visuale che non conosciamo? Ognuno farebbe una lettura personale e metterebbe in evidenza immagini e aspetti anche molto diversi di ciascun quadro. Ma tornando all’opera di Sophie Calle, mi ha colpito la risposta di un uomo intervistato: “Bellezza, io ho sepolto la bellezza. Io non ho bisogno di bellezza. Non ho bisogno di nessuna immagine nel mio cervello. Da quando non posso apprezzare la bellezza, io non ho fatto altro che sfuggirle”.

Invece Martin segue un’altra via. Nel corso della narrazione filmica e attraverso una serie di flashback si arretra al tempo in cui Martin bambino ascolta diffidente la propria madre mentre descrive il giardino fuori dalla finestra della sua camera da letto. Mentre lei racconta che in quell’istante qualcuno sta rastrellando le foglie in giardino, lui non sente il rumore del rastrello e presume così che la madre gli stia mentendo. Questo episodio infantile è una esperienza (e poi ricordo ricorrente) che Martin collega all’inganno e lo porta a pensare che le persone vedenti approfitteranno o approfittino della sua cecità per mentirgli o per compatirlo. Diventato una persona risentita e amareggiata passa le giornate a scattare fotografie del mondo che lo circonda, per poi farle descrivere da persone che incontra nelle sue passeggiate. La sua ossessione lo porta a testare continuamente se le fotografie che ha scattato coincidono con le narrazioni dei vedenti – porta con sé alcune foto già descritte in braille per appurare se l’interlocutore che incontra dice il vero – , se il mondo intorno a lui è davvero come gli altri lo descrivono.

Jocelyn Moorhouse, Proof, 1991 – Martin inquadra un soggetto con la macchina fotografica

Tornano alla mente teorie realiste. Sostenevano che l’apparato meccanico della macchina fotografica permetteva di riprodurre oggetti fisici attraverso l’azione ottica e chimica della luce che incontra i sali di argento, quasi per magia. A differenza di un dipinto o di un paragrafo descrittivo, l’immagine fotografica non era considerata un’interpretazione inconsistente e discutibile del suo soggetto. Prometteva una prova irrefutabile del mondo fisico, un senso di conoscibilità concreta: tutto all’interno dell’inquadratura è una “registrazione” o “traccia” di qualcosa che è o era, sembra fornire una garanzia per andare al di là della soggettività e arrivare alla reale verità.

Proof sonda e mette alla prova i limiti di tali verità, indaga come vi si accede e come informano la nostra percezione. Martin è interessato a trovare frammenti visivi di questa presunta verità.

Facciamo un passo indietro, ancora verso il flashback. Cerchiamo di vedere altri particolari. Martin bambino allunga le dita e tocca il viso di sua madre. Lei indietreggia. Pensa che le dita non sono come gli occhi. Ogni giorno descrive a suo figlio cosa succede fuori dalla finestra del loro appartamento. Spesso c’è un uomo fuori. Il ragazzo lo percepisce dal rumore delle foglie che crepitano sotto il rastrello. Ma il giorno che abbiamo già citato, il ragazzo non sente quel crepitio. Il ragazzo crede che lei gli stia mentendo. La madre protesta, e risponde al figlio che forse non stava ascoltando attentamente. Prende forma la presa di coscienza che in questo caso specifico le sue dita, il tatto e l’ascolto non servono per capire se fuori l’uomo è presente in quel momento.

Jocelyn Moorhouse, Proof, 1991 – Martin bambino intrappolato dietro la finestra mentre sua madre descrive il mondo fuori

Torniamo a una giornata abitudinaria della vita adulta del protagonista. Gli spostamenti di Martin non vanno oltre il parco locale e il laboratorio che sviluppa le pellicole. Le sue relazioni con gli altri sono marginali. Ha interazioni litigiose e spesso costellate di piccole crudeltà con Celia, la sua governante.

Celia ha una cotta ossessiva per Martin; ha appeso alle pareti del suo appartamento e distribuite sui tavoli e scaffali file e file di fotografie che ritraggono l’amato. Le ha realizzate di nascosto, mentre Martin passeggia ignaro e scatta le foto casuali. Il suo amore non è però corrisposto e allora nel corso degli accadimenti sfoga la sua frustrazione tormentando Martin con infantili rivalse. Il suo desiderio è ossessivo e denuncia anche la violenta malizia di chi decide di vivere ugualmente una relazione a senso unico. La sua creazione di immagini è uno sforzo per intrappolare Martin, sia all’interno che all’esterno della cornice. Qui la sua fotografia è intesa come testimonianza di chi ha catturato una preda, entro meccanismi routinari di autoprotezione che non permettono alcun tipo di intimità fra i due in gioco. Le foto scattate ma non viste da Martin sono da collegare alla convinzione che sua madre abbia finto la sua malattia per abbandonarlo. Emblematico è il momento sconvolgente in cui tocca la bara di sua madre e pronuncia: “è vuota”.

Jocelyn Moorhouse, Proof, 1991 – Martin e le fotografie incorniciate da Celia

Un giorno Martin (interpretato da Hugo Weaving) incontra Andy (Russell Crowe), e colpito dalla profondità e dai dettagli con cui Andy descrive le sue fotografie, instaura giorno dopo giorno con lui un rapporto di amicizia, arrivando presto a fidarsi di lui implicitamente. Già pochi minuti dopo l’incontro, Martin si porta una macchina fotografica agli occhi e inquadra e riprende Andy, che in quel momento tiene in braccio un gatto malato, nello studio di un veterinario. Il giorno dopo, il fotografo va a trovare il fotografato e gli chiede di descrivergli ciò che è stato fissato nelle stampe. Desidera sapere per cercare di toccare veramente il vero: “Questa è la prova che quello che ho percepito è quello che hai visto con i tuoi occhi. La verità”. In questo film sulla solitudine, la richiesta di Martin lascia trasparire quel bisogno doloroso di connessione quando non si sa bene come raggiungerlo.

Nel corso della trama, a causa di gelosie e menzogne, accade qualcosa che porterà a una rottura fra i due uomini. In un dialogo Andy convince Martin raccontando che tutti hanno dei difetti e non dovrebbero essere giudicati in termini così semplici: “La gente mente”, ma non sempre. Ed è questo il punto”. Questa asserzione calza anche per quanto asserisce lo statuto del fotografico? La fotografia è veritiera, un documento attendibile, o un medium che mente sempre perché sottomesso alla volontà di ciò che il fotografo o l’artista vuol vedere? Lo spostamento del fotografico verso il macchinico, ovvero le fotografie realizzate per essere viste e fruite solo da altre macchine, si avvicina a una visione “veritiera” o c’è sempre una impossibilità a priori già contenuta nell’inconscio tecnologico della macchina creata da umani? Qualsiasi verità che possiamo raccogliere sulle persone è frammentaria, messa insieme in modo amatoriale, come Celia che sistema le fotografie di Martin su Andy in un patchwork mostruoso che non è del tutto umano, e nemmeno completo. Il senso del film lascia intendere che non conosceremo mai gli altri completamente, ma per sviluppare legami validi dobbiamo accettare qualsiasi misero frammento che possono darci e, in cambio, esporci, offrire le nostre parti brutte e insufficienti agli altri, accettando la possibilità che possano essere rifiutate, o peggio, affilate e rivoltate contro di noi.

Jocelyn Moorhouse, Proof, 1991 – una delle fotografie casuali scattate da Martin

Verso la conclusione della storia Martin chiede ad Andy di descrivere un’ultima immagine per lui, prima che si separino, una che ha tenuto nascosta per anni, ovvero la prima e più importante fotografia che avesse mai scattato. Si tratta di una foto del giardino d’infanzia. Fu scattata pochi istanti dopo che sua madre aveva descritto cosa stava accadendo fuori dalle finestre di casa in quel fatidico giorno. La descrizione dettagliata di Andy include l’iconico uomo che rastrella le foglie, figura di cui la madre gli aveva parlato e che Martin aveva rifiutato per tutti gli anni successivi. Attraverso la descrizione di Andy, Martin capisce finalmente che sua madre non gli ha mentito, ma l’immagine non è magica, non rivela nulla della vera verità che aveva sperato fosse nascosta lì, in quell’immagine fotografica. L’amore o l’odio di sua madre rimangono indimostrabili. Noi spettatori, come Martin, non vediamo mai la foto; ci affidiamo alla descrizione di chi presumiamo sappia vedere veramente le immagini e ci riveli il loro significato profondo.

Nella chiosa del film di Jocelyn Moorhouse, questa rivelazione non fornisce al protagonista la prova che ha cercato ossessivamente per tutta la vita, scattando innumerevoli fotografie, e nemmeno la sua liberazione emotiva. A prescindere dalla qualità della narrazione, la trama di Proof lascia intravvedere alcuni spunti interessanti, alla luce di ragionamenti e considerazioni che interessano le ricerche dell’arte contemporanea e dei visual studies.

Sono solo i nostri organi visivi a guardare, o non piuttosto l’intero corpo, che sente come totalità senziente e che percepisce le cose del mondo, facendosene di volta in volta un’immagine? Il corpo non è una sommatoria di funzioni e percezioni nettamente distinte le une dalle altre, ma è un tutto organico costantemente esposto al contatto e aperto alla possibilità della relazione con l’altro che vede, percepisce, sente. L’immagine realizzata tramite una macchina fotografica scaturisce da interazioni complesse di più piani percettivi, sensoriali e immaginativi, che si mettono in gioco quando un corpo entra in un luogo o in un ambiente o in un paesaggio o nello spazio vitale di un’altra persona. Ovviamente il mondo delle immagini si mette in azione anche quando qualcuno dorme, sogna, o immagina, anche senza entrare in contatto con altri. Queste immagini possono apparire successivamente nella mente ed essere tradotte o realizzate attraverso un medium. L’immagine descritta a voce o evocata da una musica può essere fruita da  ipovedenti, vedenti, diversamente vedenti, non vedenti, ovviamente con declinazioni, sfumature e tratti diversi. Ognuno si fa un’immagine delle cose in un certo modo, indipendentemente da ciò che i suoi occhi vedono o non vedono, a prescindere da quello che anche altri sensi inducono nella memoria e nell’immaginazione. Se l’immagine è sempre una derivazione da una relazione fra corpi, in essa non è visibile soltanto la realtà oggettiva, ma anche una realtà percepita in un determinato modo da una persona che le dà forma. Nell’immagine prende forma la cosa percepita, secondo le peculiarità e le specificità del soggetto che la percepisce. La cosa si specchia in una persona non meno di quanto ogni individuo si rispecchia nella cosa guardata. Ma esistono anche immagini che non hanno bisogno di qualcuno che le crei. Mi riferisco alle forme e alle presenze vitali della Natura, che si crea e si ricrea da milioni di anni a prescindere che vi siano umani a dare nomi, significati e collegamenti di senso a quelle forme e presenze.

In Proof, le immagini costruiscono, distruggono e collegano qualche frammento di vita. La verità esiste appena oltre la portata, lontana e impenetrabile, e mai precisamente ciò che si spera: le connessioni sono esigenti e deludenti, ma disperatamente necessarie. Non ci conosceremo mai completamente e crederemo a molte menzogne, di volta in volta, ma cosa c’è di meglio di quei momenti in cui parti di noi e del mondo sono rivelate e conosciute?

In copertina: Jocelyn Moorhouse, Proof, 1991 – il ritratto di Andy costituito da accostamenti di più fotografie

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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