Di massa e di materia: Jameson scrive Benjamin

A poco più d’un anno dall’edizione originale pubblicata da Verso è appena uscita da Treccani, nella bella collana «Visioni» dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, l’edizione italiana di Dossier Benjamin di Fredric Jameson, a cura di Massimo Palma e nella traduzione di Flavia Gasperetti (pp. 379, € 26). Per la cortesia di autore ed editore, proponiamo un estratto dall’introduzione del curatore.

Dedizione e sospetto

Il più grande critico americano tra i due secoli, forse. Di certo tra i maggiori. Il più grande critico tedesco del primo novecento. Così voleva essere ricordato. Marxisti, entrambi. Entrambi grafomani, ma attenti ai dettagli. Rigorosi nelle letture, precisi nelle interpretazioni. Diversi, mai opposti, anzi simili, eppure non elettivamente affini. Piuttosto, potrebbe dirsi che dalla pubblicazione di Illuminations – la raccolta di scritti di Walter Benjamin curata da Hannah Arendt che nel 1969 ne introdusse il pensiero nella cultura statunitense – Fredric Jameson abbia guardato a Benjamin con infinita dedizione e altrettanto sospetto. Le ragioni stanno tutte nella complessità di un percorso critico tanto lungo quanto originale (vale la pena ricordare che Benjamin era ancora di questo mondo quando tale percorso è iniziato).

Se le radici del metodo-Jameson sono, molto più che negli Usa, nella Francia e nella Germania frequentate in gioventù (e idealmente nella Budapest asburgica e poi sovietica di György Lukács), la questione Benjamin lo attanaglia sin dal principio della sua ricerca entro le forme letterarie e i modi espressivi (poesia e prosa, fotografia e cinema) dell’età capitalista. Per questo può ben dirsi che quando nel 2020 Jameson ha ceduto al fascino opaco del suo autore-feticcio, pubblicando The Benjamin Files (qui tradotto, con qualche tentativo di fedeltà, Dossier Benjamin), si è chiuso un cerchio lungo una vita.

Per questo autore versatile, critico letterario e pure cinematografico con solidissime basi filosofiche, americano dal forte radicamento europeo, Benjamin – i suoi opera omnia, i suoi grandi saggi ma anche i frammenti, le recensioni nascoste – è stato un compagno di viaggio da sempre. Come Sartre, come Brecht. Più di Barthes, di Greimas, di Chandler, per menzionare autori studiati a fondo, e all’occorrenza prelevati da una cassetta di attrezzi fidati cui Jameson da decenni ricorre per penetrare testi, spessori interpretativi, strutture dialettiche. Da cinquant’anni Jameson lavora con Benjamin con l’ambivalenza propria di chi continua a usare un utensile non ben identificato. Utile, efficace, ma pericoloso.

Nella prefazione alla traduzione italiana di Marxismo e forma (1971), Franco Fortini sottolineava come Benjamin apparisse a Jameson il filosofo che «ha esaltato con qualche ambiguità il senso del passato come strumento dell’avvenire, […] la nostalgia come strumento rivoluzionario»[1]. In quel libro, nel breve capitolo Walter Benjamin (o della nostalgia)[2], Jameson ne sottolineava in effetti «l’atteggiamento irresoluto e ambiguo verso la moderna civiltà industriale, che sembra averlo tanto affascinato quanto depresso»[3]. È evidente come già allora lavorasse in Jameson la necessità di individuare e rimuovere qualcosa come una zavorra nell’efficace lettura del moderno proposta da Benjamin: «[…] mentre avevamo pensato di emergere nel presente storico, in realtà, ancora una volta ripiombiamo nel distante passato dell’ossessione psicologica». Mentre in alcuni scritti– su tutti la celebre conclusione dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – veniva produttivamente indicata la strada brechtiana di una politicizzazione dell’arte, altrove, e in perfetta contemporaneità, proseguivano inesauste le antiche fascinazioni benjaminiane per gli enigmi, gli emblemi allegorici, i libri per l’infanzia. Lievi ossessioni finemente indagate, descritte e riscritte, ma altrettante tare di un lavoro sulla storia che appena aperta l’immagine “in pericolo” rischia di richiuderla, di negare l’accesso pratico, politico, al presente.

Da mezzo secolo, dunque, Jameson lavora con Benjamin senza soggiacere alla sua allure, né al cambiamento di approccio che ne ha fatto, da illustre sconosciuto esaltato da figure assai più popolari di lui (Adorno, Arendt), un’icona onnipresente e fin troppo citata nell’infosfera. Per Jameson, Benjamin è uno strumento di lavoro. Cinquant’anni dopo, Dossier Benjamin non risparmia giudizi negativi che ricalcano, in vesti mutate, quelli sull’ambiguità e l’irresolutezza già lamentate nel 1971, fondandoli su una ricognizione puntuale di molti dei testi fondamentali dell’autore. Alcuni vengono ingenerosamente bocciati, come nella singolare valutazione – con sovrano sprezzo di studi approfonditi lunghi decenni di rivalutazione – riservata all’Origine del dramma barocco tedesco e alla scelta del suo tema: «[…] tutta questa splendida eloquenza può essere vista come un modo di giustificare a sé stesso (e a tutta la commissione esaminatrice) di aver sprecato così tanto tempo in ricerche su un argomento che non lo meritava». Altri scritti vengono tacciati di «incorreggibile dispersività» (niente meno che il saggio sull’Opera d’arte).

Ma Benjamin si dice in molti modi, avverte Jameson. Sono tanti i “files” da lui aperti, tanti i faldoni, i documenti, le cartelle, e tutti si parlano e procedono per negazioni. Jameson lo afferma subito, quando decide di concentrare la sua luce prospettica sul nucleo esplosivo di quell’«incorreggibile dispersività» del Kunstwerkaufsatz: l’estetica (che pure finisce per giudicare con qualche fretta, trascurandone il valore di “dottrina della percezione” proprio lì sottolineato). «Meglio non cedere alla tentazione di attribuire a Benjamin un’estetica ufficiale — “un’estetica della discontinuità”, per esempio – è più prudente e utile fare un elenco delle sue avversioni – all’idea di progresso, alla psicologia, alla storia dell’arte, all’estetizzazione, all’estetica stessa – che ostinarsi nel tentativo di attribuirgli formule positive. Possiede senz’altro un suo canone, ma caratterizzato da marginalità ed eccentricità, da un’ostinata anti-canonicità, più che da un elenco di valori formali condivisi».

Il gioco materialista

Fredric Jameson, dunque, vede Benjamin mettersi in gioco per antitesi. Lo vede operare ai margini delle sue stesse avversioni. Data questa premessa di metodo, da subito Jameson etichetta Benjamin, il “platonista” con velature plotiniane (come qui rileva quasi da ultimo parlando della “lingua” e del Compito del traduttore) ossessionato dalla rappresentazione-Darstellung delle idee, come “materialista”. Titolo di prassi, per un marxista che si è affaticato a disciplinare il materialismo storico secondo nuove coordinate attraverso cui redimere il passato.

Ma è da rilevare come Jameson, che pure dedica alle tesi Sul concetto di storia il capitolo finale del Dossier, quando si tratta di spiegare l’approccio materialista di Benjamin, si occupi principalmente di una delle premesse sostanziali di quel lavoro finale sulla storiografia, ovvero il ruolo ricoperto, agli occhi di Benjamin, dalla strana alleanza Baudelaire-Blanqui. E qui uno dei temi più oscuri della Passagenarbeit, o del Baudelairebuch che dir si voglia, viene a chiarezza. Non è politica della letteratura quella baudelairiana, è politica della lingua – poesia che si muove mimetica e strategica nella materia urbana che ha di fronte.

Non è insurrezionalismo cieco quello di Blanqui, ma strategia metafisica alla ricerca di gesti che incarnino l’azione possibile nell’oceano di oppressione del presente: in questa chiave «“politico” vuol dire la storia in un senso diverso, la storia discontinua delle grandi sollevazioni, delle devastanti sconfitte, dei tiranni rovesciati, il diritto irresistibile alla rivolta, l’apocatastasi». Il poeta reazionario eppure sulle barricate va visto come compagno di strada del rivoluzionario statico e sognante nella sua eterna prigione degli ultimi anni. A entrambi spetta di decodificare un gesto all’altezza della nuova percezione che va maturando in quel moderno che entrambi rifiutano: per Jameson il Baudelaire di Benjamin «identifica parole e sintassi, la frase in azione, come atto corporeo, come ciò che Brecht chiamava Gestus».

In questa concentrazione sul gesto – politico e letterario –, materialismo è voler indagare, oltre la lingua, oltre i versi, gli atti corporei e i caratteri dell’esperienza urbana. Come si riempie la percezione nella vita metropolitana? Il primo a saperlo è il poeta. Ma condivide il primato con l’operaio. Perché quello della loro esistenza è un gioco a somma zero. Un gioco di ripetizioni e interruzioni, che mostra il suo fallimento nel momento in cui, come il lavoratore di fabbrica che nella sua opera parcellizzata ha come unico fine e sostanza il reddito, il poeta – sempre Baudelaire – investe di senso un evento (l’epifania della donna-significante di A una passante, poesia tradotta e commentata da Benjamin), per scoprirne il significato nell’isolamento percettivo. Anche il poeta gioca coi significanti: «[…] la schiavitù del salariato fa, in qualche modo, pendant a quella del giocatore. Il lavoro dell’uno e dell’altro è egualmente libero da ogni contenuto»[4]. Benjamin propone dunque un’analogia sorprendente tra il poeta, il giocatore e l’operaio salariato, un’analogia radicata nella loro percezione mentre “producono”: la “libertà dal contenuto”, l’investimento di senso e desiderio nel percepire staccato, quasi per fotogrammi, il contenuto di ogni gesto. Per il lavoratore non specializzato e per l’artista della parola ormai precario, il reale sta lì come aggregato di scene, come autentico piano d’immanenza – totalmente neutro –, ad attendere un montaggio.

Jameson ravvisa quindi in Benjamin un’analisi rischiosa eppure materialista di gioco: per “disalienare” il lavoro esperito come gioco (come serie di eventi, di giocate avulse da ogni storia produttiva), c’è bisogno di articolare diversamente la produzione, oltre che di narrarla diversamente. Attento – pur senza qui menzionare il suo saggio del 1984 sul «postmoderno» né le infinite questioni seguite – ai segnali di abbandono del canone modernista nel primo novecento, all’apertura della faglia post-modernist che caratterizza a suo avviso il nostro “stato dell’arte”, Jameson avverte in Benjamin un ponte tra due ere, antiquato rispetto alle svolte tecnologiche a venire, ma segnalatore d’incendio e di rimedi che pure ha «subito tutto il fascino di questo paesaggio “degradato” di kitsch e scarti», rincorrendo cumuli e frammenti, nonché la «pratica indiscriminata dell’eterogeneo»[5], ma fissando criteri e margini di azione. Di fronte alla constatazione “estetica” delle similitudini, alla paradossale sovrapposizione, fino alla coincidenza, tra percezione del tempo di lavoro e percezione del tempo di vita, il fine teorico e politico è quello di restituire all’azione umana, tanto ludica quanto lavorativa, un «futuro; una dimensione temporale che le droghe sospendono, e che nel gioco è usata per esacerbare il presente e portarlo a una sincronica e totale identificazione con il mondo stesso».

Per questo, per dare futuro – operatività – all’azione nella sincronia strutturale delle cause del mondo com’è, Benjamin si rivolge al passato, con l’ambiguità che Jameson notava sin dal 1971. Dopo il giocatore adulto e la sua pericolosa analogia “temporale” con l’operaio, Jameson prende in considerazione un’altra delle sinergie impreviste di Benjamin: quella tra il bambino alle prese col giocattolo e il collezionista alle prese col caos dei ricordi suscitato da un oggetto collocato in una serie “preziosa”. Entrambe attratte dai materiali di scarto, entrambe indifferenti a un approccio soggettivo al mondo cosale, queste figure sviluppano una qualità differente dell’attitudine produttiva, che molto ha a che fare con la distrazione, molto con la distruzione – che Benjamin, anche prima del Carattere distruttivo (1931) vede dialetticamente imparentata con la produzione.

Oltre l’intenzione soggettiva che dona il senso, oltre la restituzione del “vissuto”, Benjamin punta, sondando queste figure, alla valorizzazione dell’elemento impersonale di ogni narrazione. Di qui il suo interesse solo relativo per il romanzo, la cui esperienza non è di massa, non è collettiva, perché è “esperienza di un altro”. Diversamente dal cinema, com’è ovvio, dalla tempra delle immagini offerte all’esperienza simultanea del pubblico. Ma anche dalla poesia, che nel momento in cui è letta si rende scrivibile; che come il teatro «investe di un compito unico: trovare le parole e le frasi giuste per descriverla».

È in questa stessa chiave di gesti leggibili come neutri eppure scrivibili – che chiedono interpretazione (ma non all’autore che ne parla) –, in questa scia di «parabole senza dottrina», che Jameson valorizza pure il carattere brechtiano della stessa lettura benjaminiana di Kafka. Le storie bizzarre, “minori” dell’opera kafkiana restano in attesa di un’ermeneutica dedicata, sono scene teatrali (più Brecht di Scholem, dunque) che documentano stadi sospesi del mondo, e quindi narrabili, scrivibili[6].

Nel teatro come nella poesia, nel cinema come nel gioco, nel lavoro come nell’ebbrezza, sono masse di documenti senza soggetto che premono per una narrazione. Per un’apertura. […]

Materia, felicità, democrazia

Il confronto di Jameson con Benjamin è totale. Il corpo a corpo vede costanti, ripescaggi, repulsioni, idiosincrasie. Ma certo è il Benjamin “finale” che gli indica la via. Non il vessillifero di un’escatologia teologica o politica a venire o già avvenuta, come alcune letture in chiave “fine della storia” non hanno mancato di suggerire negli ultimi trent’anni. Ma quel Benjamin che nel Narratore elenca i modi antichi e odierni per dire l’esperienza, che nel secondo saggio su Baudelaire (Di alcuni motivi) trova il nesso tra il poeta e «la materia grezza della vita sociale». Il Benjamin che nel Fuchs scopre il potenziale della collezione – la «rappresentabilità della storia», – che nelle tesi Sul concetto di storia dà la scarica al suo concetto di immagine dialettica come «interruzione dell’azione senso-motoria», in cui «diversi presenti temporali si sovrappongono e sembrano coincidere», come rileva Jameson potenziandola con Deleuze e Bergson. Ne emerge una comprensione “tangenziale”, simultanea, di molte epoche insieme, «come in un time-lapse».

Ma l’imperativo storico – rendere “scritte” quelle immagini leggibili, comporre quelle scene giustapposte – viene visto da Jameson sotto una luce etica ancora una volta materiale. L’esito della lettura “fortunata” (politica) di più epoche insieme è per Benjamin sotto l’indice della felicità (la tesi II del suo ultimo scritto, dove parla di un appuntamento segreto tra le generazioni). Benjamin ha però una «concezione quasi biologica» della felicità, afferma Jameson. Un passaggio per i sensi, fisico, di un processo psichico, immaginale che si fa storiografico. Non c’è narrazione storica che non redima “davvero” gli oppressi del passato quando passa per i sensi, quando la tecnica artistica è davvero politica. Ecco la fissazione di Benjamin per l’apocatastasi, a partire dal saggio sul Narratore.Non c’è materialismo storico, se la gioia non è fisica, se la dialettica non arriva ai corpi, se la stasi del concetto non freme di un moto interno davvero percepibile nella materia.

Nella lettura a tutto campo di Jameson, i “files” di Benjamin – la mole di documenti sempre in dialogo che ha portato con sé, il suo archivio “esterno” – propongono in ultima analisi, molto più che una teoria della lotta di classe, una proposta culturale all’altezza di quell’inedito nella storia universale che è la società di massa. Quando leggiamo che «la politica di massa è al centro del suo pensiero», ci accorgiamo che in pochi, prima di Jameson, hanno davvero visto in Benjamin un teorico rigoroso, acuto, inquieto, di quell’interrogativo aperto che oggi chiamiamo “democrazia”. Democrazia dopo il moderno, che vive e annaspa, e ancora mima la felicità futura, nei moti di impensabili, sensibili masse.


[1] F. Jameson, Marxismo e forma. Teorie dialettiche della letteratura (ed. orig., Marxism and Form: 20th-Century Dialectical Theories of Literature, 1971), Liguori, Napoli 1975, p. IX.

[2] Ivi, pp. 75-100.

[3] Ivi, pp. 98-99.

[4] W. Benjamin, Su alcuni motivi in Baudelaire, in OC VII, p. 399; GS I, 2, p. 633.

[5] F. Jameson, Il postmodernismo, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano 1989, p. 10 (ed. orig., Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, 1984).

[6] L’insistenza sulla coppia leggibile-scrivibile ha una radice profonda e perlomeno triplice – oltre Roland Barthes – ed è illuminata da Jameson nel saggio L’inconscio politico. La narrativa come atto socialmente simbolico (Garzanti, Milano 1990, p. 89; ed. orig. The Political Unconscious: Narrative as a Socially Symbolic Act, 1981): «La storia – la ‘causa assente’ di Althusser, il ‘Reale’ di Lacan – non è un testo, essendo fondamentalmente non narrativa e non rappresentazionale; si può aggiungere, però, la precisazione che la storia ci è accessibile solo in forma testuale».

(Roma, 1978) scrive, traduce e fa ricerca. Studioso del pensiero e della letteratura tedesca e francese del Novecento, ha scritto libri su Walter Benjamin, Eric Weil e Alexandre Kojève e i saggi "Foto di gruppo con servo e signore", e "I tuoi occhi come pietre. Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon" (Castelvecchi 2017 e 2020). Ha tradotto e curato opere di Max Weber ("Economia e società", Donzelli 2003-2018), Walter Benjamin ("Senza scopo finale"; "Esperienza e povertà", Castelvecchi 2017 e 2018), Georges Bataille ("Piccole ricapitolazioni comiche", Aragno 2015), e Georg Heym ("Umbra vitae", Castelvecchi 2020). Come narratore ha pubblicato "Berlino Zoo Station" (Cooper 2012), "Happy Diaz" (Arcana 2015, Castelvecchi 2021), "Nico e le maree" (Castelvecchi 2019). "Movimento e stasi" (Industria & Letteratura 2021) è il suo primo libro di poesia.

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