Al di là del testo: Celati, Boccaccio e il desiderio

15/03/2022

Per gentile concessione dell’autrice pubblichiamo l’intervento tenutosi al convegno Il Semplice. Vite e voci di una rivista, tenutosi all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia il 10 e 11 febbraio scorso per le cure di Elisabetta Menetti, Nunzia Palmieri, Cecilia Monina, Gabriele Gimmelli, Michele Maiolani, Michele Ronchi Stefanati.

Gianni Celati è l’autore che più di tutti nel panorama italiano del secondo Novecento ha tentato di andare al di là della letteratura.[1] L’esigenza di uscire dal testo è stata sottolineata in diversi scritti teorici degli anni Settanta e Ottanta, tra cui spicca una nota a margine del saggio Su Beckett, l’interpolazione e il gag:

Oggi direi che la scrittura libresca è sempre silenziosa, opaca, meccanica e metafisica (perché allucinazione d’una regola superiore); ma la finzione che ho studiato qui riguarda la possibilità della scrittura di apparire non silenziosa bensì portatrice di voci che parlano; non opaca bensì trasparente, che lascia vedere dei gesti: non meccanicamente ripetitiva come è la linearità tipografica, ma piena di movimenti e risposte interne; non allucinazione metafisica d’una regola superiore, ma produzione d’un manufatto. Tutto dipende dal valore che diamo al verbo apparire. Ma è verissimo che dalla scrittura si evade solo facendo altre cose.

Le «altre cose» includono senz’altro il cinema e le arti visive, «materia di riflessione e di formazione del pensiero, un oggetto di ricerca critica e artistica, un incontro e uno scambio per pratiche interdisciplinari e scritture ibride»[2]. In particolare, è stata recentemente messa in luce la rilevanza degli esperimenti fototestuali condotti col fotografo bolognese Carlo Gajani (1929-2009) precedentemente alla collaborazione con Luigi Ghirri, Il chiodo in testa (1974) e La bottega dei mimi (1977). Se è vero che «la forma iconotestuale s’inserisce in quella corrente della scrittura occidentale che ha inteso mettere in discussione lo statuto profondo della letteratura, della testualità e della rappresentazione»[3], un’analisi degli iconotesti apparsi presso i tipi della Nuova Foglio di Pollenza (recentemente ristampati da L’Orma, nel volume Animazioni e incantamenti, per le ottime cure di Nunzia Palmieri) risulterà cruciale per rispondere a una serie di domande, una su tutte: cosa cerca Celati al di là del testo? Limiterò la mia analisi a Il chiodo in testa, facendo riferimento a un caso inedito di intertestualità verbovisiva.

L’immagine di copertina del Chiodo riprende, in uno studiato reframing, uno scatto in bianco e nero di Gajani, selezionandone un particolare: una sezione del corpo femminile – ne intravediamo solo le gambe e il sesso – è guardata da un volto maschile nascosto dall’obiettivo. Poco sopra fa capolino il titolo, tutto in minuscolo, e più in alto ancora i nomi degli ideatori dell’esperimento: il ruolo autoriale ne risulta indistinto, mirando a tradurre l’idea un’opera a quattro mani (o a quattro occhi). La sovrapposizione delle parole sull’immagine sembra farne un vero e proprio emblema in cui la scritta «il chiodo in testa» rappresenta l’inscriptio, posizionata in modo studiato proprio accanto alla testa del fotografo-ossessionato. Nel mezzo, in un carattere che mima lo scarabocchio della penna, appare la scritta «alter»: riferimento ad «altro», iconica collana ideata da Magdalo Mussio, che ironicamente allude anche al desiderio triangolare tematizzato nell’iconotesto. Il nome della casa editrice agisce invece da subscriptio: sentenza che pone immediatamente la relazione tra parola e immagine sotto l’egida dell’interruzione.

Alla logica dell’estraneità rispondono anche le fotografie, come segnalato dalla quarta di copertina della prima edizione, di cui Andrea Cortellessa ha evidenziato la derivazione barthesiana, attribuendo una volta per tutte il testo al giovane Celati[4]: «Questo libro unisce due mezzi molto dissimili come fotografia e scrittura per raccontare la stessa vicenda, che è il tentativo di fissare e definire un’ossessione visionaria»[5]. Se da un lato è innegabile che «più che un lavoro a quattro mani, il Chiodo dà insomma l’impressione che Celati abbia, di volta in volta, adattato il proprio testo a partire dal ricco materiale iconografico fornito da Gajani»[6], dall’altro ineludibile è la sua appartenenza alla struttura mobile del fototesto, i cui autori possono coincidere ma anche essere diversi. Ma, effetti iconotestuali a parte, in che modo la voce mattoide del testo originariamente apparso sul «Caffè» viene messa in relazione[7] col crudo erotismo delle fotografie? Una possibile risposta emerge da una lettera di Z a Giovanna:

Cara Giovannina,
La seguente visione è abbastanza soddisfacente per me. […] Eri su una strada di campagna inseguita da due mastini, che ti addentavano le sottane, lasciando così vedere le mutande che tenevi sotto, rosa. Correvi alla casa delle guardie per denunciare il proprietario dei mastini. Eri giunta poi in questa casa delle guardie per denunciare il proprietario dei mastini, ma le guardie dormivano tutte appoggiate ai tavoli; come se le avesse drogate un qualche mago che non ama i buoni. Allora prendevi il telefono per chiamare soccorso dalla città di Acquemorte, che era una città vicina,  a quanto pare. […] Io speravo che tu non avessi voglia di tornare in preda a lui; ed infatti uscivi dalla porta di dietro trovandoti così in un vasto prato verde, con molti alberi. Poi camminando su questo prato ecco che mi incontravi me, il tuo umile corrispondente, seduto sotto un albero a scrivere delle lettere. È stato un incontro magnifico, lasciamelo dire.[8]

Ecco un tipico esempio del “pensiero visivo” di Celati, ovvero di una «attivazione dell’immaginazione stessa che agisce, non solo attraverso il pensiero e sul pensiero, ma sulla realtà stessa ricreandola».[9] In questo caso però non ci troviamo né davanti a un’immagine evocata dalle fotografie di Gajani, né a un’ecfrasi nozionale[10]: il riferimento cifrato, finora sfuggito ai radar della critica, è alla scena dell’inseguimento della donna nuda nella selva all’interno della novella di Nastagio degli Onesti della quinta giornata del Decameron. Si tratta d’un avantesto verbovisivo centrale a livello macro e micro strutturale. Ci troviamo infatti di fronte dell’unico caso in cui la componente verbale — solitamente reticente — fa esplicito riferimento alle scene di bondage elaborate da Gajani sul versante iconico, negando la modalità autocensoria tipica di molte opere doppie, che di solito lasciano solo alle immagini la possibilità di dire liberamente ciò che il testo teme di affrontare. Inoltre, l’allusione all’assalto maschile e alla discussa vittoria sul femminile, rilevato a più riprese dagli interpreti della novella, risulta decisiva nell’interpretare il male gaze di cui è pervaso il Chiodo, oltre a permettere di chiarire il valore del susseguirsi delle “visioni” per parole ed immagini all’interno del fototesto.

Ma analizziamo la scena più da vicino. Tipicamente boccacciano è lo sdoppiamento della narrazione: due cavalieri (Nastagio e l’antenato Guido degli Anastagi) e due donne nella novella; due uomini e due donne, una raccontata e una rappresentata in foto, nell’impresa Celati&Gajani. Celati fa proprio l’avantesto leggendolo alla luce del desiderio triangolare, in una quête che innerva il ritmo dell’intero fototesto: alla donna «scapigliata e graffiata dale frasche» (Dec. V, 8) inseguita da Guido degli Anastagi viene sovrapposta l’immagine di Giovannina, che nelle immagini di Gajani appare fortemente sessualizzata, in bilico tra piacere e sofferenza; Guido, che nella novella funge da doppio-aiutante, diviene il fotografo-rivale che ha una relazione sadomasochistica con la donna-oggetto del desiderio. Il narratore si identifica invece con Nastagio, agens e auctor della scena: ne è parte eppure la osserva dall’esterno, raccontandola. 

Eppure, quello di Celati è un Boccaccio mediato e intrecciato alle letture dei poemi cavallereschi, cui viene alluso esplicitamente attraverso il toponimo di Acquemorte e il riferimento ai maghi: alla matrice dantesca di Comiche e Guizzardi[11] il Chiodo sostituisce insomma una donna erotizzata mutuata dalla funzione Boccaccio-Ariosto, attraverso una rielaborazione che attribuisce alla scena un moderno significato.[12] L’ipotesto stabilisce un legame tra la punizione della donna sdegnosa, costretta a ripetere ciclicamente l’inseguimento e il proprio martirio, e le caratteristiche della sospensione e dell’attesa della punizione tipiche del rapporto masochistico, tematizzato nelle fotografie ad alto tasso di fissazione erotica di Gajani.

Uno sguardo attento rivela però che la voce narrante si sta affidando, oltre al testo di Boccaccio, anche ad altre imagines agentes: il riferimento metatestuale alla duplice natura del personaggio «seduto sotto un albero a scrivere delle lettere» riverbera la nota visualizzazione[13] dell’episodio ad opera di Sandro Botticelli e bottega, che con tutta probabilità Celati conosceva: faceva parte d’un ciclo più ampio, quattro pannelli d’una spalliera offerta da Lorenzo de’ Medici come dono nuziale per la famiglia Pucci. Lo si evince dalla natura stessa della “visione n. 4”, quasi un’ecfrasi declinata in seconda persona: Z fa infatti riferimento a dettagli praticamente assenti nella novella, ma che nella traduzione visiva vengono di molto amplificati. In particolare, viene fatta menzione del «vasto prato verde, con molti alberi» e alle guardie che «dormivano tutte appoggiate ai tavoli», evidente richiamo alle bianche tovaglie con gli astanti presenti nei due dei quattro pannelli del ciclo atti a rappresentare il banchetto e il matrimonio di Lucrezia con Nastagio, Il banchetto nella foresta e il Matrimonio di Nastagio degli Onesti.

Assistiamo quindi a una dinamizzazione[14] dei quadri cui viene fatto riferimento, fusi in un tutt’uno ed evocati nel loro farsi. L’occhio del narratore “taglia” i dipinti, invocati solo attraverso alcuni dettagli, che in quanto tali suscitano una risposta emotiva, riuscendo ad agire sulla realtà della narrazione. Su tutti emerge quello dei lembi delle vesti della fanciulla addentate dai mastini, «segno naturale»[15] del ciclo pittorico echeggiato a più riprese nelle lettere, dove le mutandine di Giovannina divengono feticcio dell’ossessione amorosa non meno del chiodo che dà il titolo al volume. Oltre a rivelare l’ossessione per il dettaglio tipica di questa modalità immaginativa, il ricorso a un immaginario feticista svela come l’evocazione-ricreazione della novella di Boccaccio tradotta visivamente da Botticelli diviene emblema d’una visione punitiva del femminile che dominerà le pagine dell’iconotesto[16]. Inoltre, il far riferimento a una novella in cui la visione ha un effetto risolutivo permette poi di chiarire il ruolo che le immagini – evocate in absentia o presenti – assumono nel libro: come nella novella di Nastagio, anche nei fototesti la “visione” è un processo che si articola a due livelli[17], la cristallizzazione mentale e la successiva riproposizione come rappresentazione: il vedere comporta sempre il rivedere per poter ricreare attraverso l’immaginazione.

In copertina: Sandro Botticelli, Nastagio degli Onesti, primo episodio, 1483


[1] Cfr.  M. Belpoliti, Gianni Celati, la letteratura in bilico sull’abisso, in G. Celati, Romanzi, cronache e racconti, I Meridiani, Mondadori, Milano 2016: «Celati aspira a qualcosa che sta al di là della letteratura, o forse prima della letteratura».

[2] M. Martelli, La scrittura dello sguardo. Gianni Celati e le arti visive, «Recherches», 2020, p. 21.

[3] M. Cometa, Forme e retoriche del fototesto letterario, in M. Cometa-R.Coglitore (a cura di), Fototesti, Letteratura e cultura visuale, Quodlibet, Macerata 2016, pp. 72-73. Sul fototesto si veda anche G. Carrara, Storie a vista. Retorica e poetiche del fototesto, Milano-Udine, Mimesis 2020.

[4] A. Cortellessa, Chiodi in testa e oggetti soffici. Celati e le immagini negli anni Settanta, relazione presentata al convegno Gianni Celati in Context, a cura di E. Morra e K. Pizzi, Istituto Italiano di Cultura, Londra, 9-10 dicembre 2020, in c.d.s. nei relativi atti.

[5] G. Celati-C. Gajani, Il chiodo in testa, Nuova Foglio, Pollenza 1974, s. n. di p.

[6] G. Gimmelli, Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema, Quodlibet, Macerata 2021.

[7] Relazione mai illustrativa, ma sempre nel segno della discontinuità, come previsto da quest’ecosistema generato dallo scontro agonale tra codici.

[8] G. Celati-C.Gajani, Il chiodo in testa, in G. Celati con C. Gajani, Animazioni e incantamenti. «Il chiodo in testa», «La bottega dei mimi» e altri testi sul teatro e sulle immagini, a cura di N. Palmieri con una nota di P. Fameli, «fuoriformato» L’Orma, Roma 2017, p. 32.

[9]  M. Martelli-M. Spunta, La scrittura dello sguardo. Gianni Celati e le arti visive, «Recherches», 2020, p. 21.

[10] J. Hollander, The poetics of ekphrasis, «Word & Image», 1988, pp. 209-219, definisce «nozionale» l’ecfrasi il cui oggetto non esiste realmente, ma è frutto dell’immaginazione dell’autore o è andato perduto.

[11] Tessere dantesche sono segnalate da R. Manica, Celati, la follia serena, in Nevrosi e follia nella letteratura moderna, a cura di A. Dolfi, 1992, p. 606; G. Iacoli,Una lettura ravvicinata: Cinema naturale [2008], in Id., La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati, Quodlibet, Macerata 2011, p. 87; P. Kuon, Sulle spalle di Gerione. Riscritture novecentesche della Commedia, Carocci, Roma 2021. Sul primo Celati si veda l’acuto G. Micheletti, Celati ‘70. Regressione fabulazione maschere del sottosuolo, Cesati, Firenze 2021.

[12] Al Lito d’Acquamorta si allude in diversi loci ariosteschi (cfr. Orlando furioso: II, 63; XXVII, 128; XXVIII, 92; XXXIX, 25); sul rapporto tra Celati e i classici rinascimentali si veda l’importante E. Menetti, Gianni Celati e i classici italiani. Narrazioni e riscritture, Franco Angeli, Milano 2020.

[13] Il riferimento è a V. Branca, Interpretazioni Visuali del Decameron, «Studi sul Boccaccio», 15 (1985): 87-119. Si veda anche M. Della Putta Johnston, Illustrator in Fabula: Visual Interpretations of Boccaccios Stories about the Human Heart, «Exploration in Renaissance Culture», 32.2 (2006), 165-189. Sul ciclo botticelliano e la sua ricezione nella cultura moderna rimando a Jill M. Ricketts, Visualizing Boccaccio. Studies on Illustration from the Decameron, from Giotto to Pasolini, Cambridge University Press, Cambridge, 1997.

[14] M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Cortina, Milano 2012, in particolare il cap. «Descrizioni», pp. 11-166. Si concentrano sugli aspetti più strettamente linguistici del tema C. Segre, La pelle di San Bartolomeo. Discorso e tempo dellarte, Einaudi, Torino 2003 e P. V. Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

[15] Si fa riferimento alla importante distinzione tra «segni naturali», cioè mimetici, delle arti visive, e i «segni arbitrari» propri dei linguaggi verbali (cfr. M. Krieger, Ekphrasis: the illusion of the natural sign, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1992).

[16]  Basata su un’estetica fondata sul fermo-immagine, la relazione masochistica si presta meglio a essere tradotta in supporti mediali basati sul congelamento dell’attimo nello spazio quali la pittura o la fotografia: Cfr. G. Deleuze, Il freddo e il crudele, SE, Milano 2007, p. 37.

[17] C. Segre, La novella di Nastagio degli Onesti (Dec. V VIII): i due tempi della visione, in Id.Semiotica filologica, Einaudi, Torino 1979, pp. 87-96.

Eloisa Morra

è assistant professor di Italianistica alla University of Toronto. Dopo il diploma alla Normale di Pisa si è addottorata a Harvard, dove ha insegnato e preso parte a progetti curatoriali, pubblicando saggi sulla letteratura e l’arte italiana del Cinquecento e del Novecento. È autrice di “Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja” (Quodlibet 2014, Special mention Edinburgh Gadda Prize); del poeta-pittore ha pubblicato un album illustrato (Tre per un topo, Quodlibet 2014) e curato una raccolta di taglio interdisciplinare (“Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte”, Carocci 2019).

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