Scrivere di Lina Bo Bardi è addentrarsi in una materia ricca di insidie e di paradossi. Lo è sempre stato, sin dai tempi in cui l’amico Bruno Zevi la rimproverava amabilmente della sua indomabile cocciutaggine. La forza della biografia di Zeuler R. Lima sta proprio nel non evitare questi paradossi, spesso stimolanti, a volte imbarazzanti. Per riuscire a fondere in una biografia di carattere divulgativo questi elementi contrastanti, l’architetto e studioso brasiliano, professore alla Washington University di Saint Louis, non esita ad attingere a piene mani al repertorio dell’interpretazione psicanalitica di scelte e comportamenti dell’architetta. L’autore prende dei rischi nell’interpretare la persona al di là dei documenti, certamente, ma nel caso di Lina Bo Bardi, che, nota per il monumentale museo MASP sulla Avenida Paulista, negli ultimi decenni di vita arriverà a teorizzare una architettura che si fonde e quasi scompare nell’azione sociale, l’approccio risulta avvincente.
La biografia è uscita anche in Brasile nel 2021 con un titolo diverso, Lina Bo Bardi. Quello che volevo è avere una storia, presso la Companhia das Letras, mentre in contemporanea, proprio a sottolineare il rilievo dato all’eredità dell’architetta nel dibattito contemporaneo, usciva presso la casa editrice Todavia il voluminoso Lina. Una biografia di Francesco Perrotta Bosch. Si tratta delle due case editrici che si contendono il primato dell’editoria letteraria in Brasile, dove il genere della biografia è centrale sia per le preferenze dei lettori che per la qualità dell’offerta editoriale (si pensi ad esempio al successo delle ambiziose ricostruzioni storiche che l’antropologa sociale Lilia Moritz Scwarcz ha dedicato all’imperatore Pedro II e allo scrittore Lima Barreto).
Tornando a Bruno Zevi, fu lui a definire Lina Bo Bardi una “dea stanca”, il primo paradosso sta quindi proprio nel titolo della biografia, un epiteto stonato. Lina infatti coniugava una inesauribile vitalità con una pigrizia spesso rimarcata dai suoi colleghi. Le faceva forse difetto la disciplina individuale e solo quando passò a lavorare con una squadra di fedeli e affezionati collaboratori, quando cioè, a partire dall’esperienza di Salvador, il lavoro si fece davvero collettivo come aveva sempre teorizzato, la stanchezza della dea non rappresentava più un ostacolo, ormai c’era tutto un Olimpo intorno.

La contraddizione del capolavoro
L’opera più nota di Lina Bo Bardi, il suo capolavoro, è certamente il MASP, il Museo di Arte di San Paolo, terminato nel 1968 per ospitare la collezione di arte europea che Pietro Maria Bardi aveva messo insieme per lo spavaldo magnate dei media brasiliani Assis Chateaubriand (la sua biografia, Chatô, di Fernando Morais, fu un best-seller quando uscì nel 1994 e oggi lo stesso Fernando Morais è in testa alle classifiche di vendita in Brasile con il suo Lula). La creazione di un museo di alto profilo e l’opportunità di allontanarsi dall’Italia del dopoguerra erano stati i motivi che avevano convinto Pietro Maria Bardi ad accettare l’invito di Chateaubriand, in perenne lotta di prestigio con Ciccillo Matarazzo, il grande industriale e collezionista brasiliano di origine italiana che negli stessi anni raccoglieva piuttosto opere di arte moderna. La prima sede del MASP occupava un piano della sede dei giornali di Chateaubriand, ma già Lina vi sperimentò dei cavalletti innovativi, che collocavano le opere al centro della sala e non lungo le pareti. Quando sorse l’esigenza di creare una nuova sede per il MASP, Chateaubriand non si fece scrupoli nel ricattare personalità in vista, con minacce di pubblicazioni scandalose, per estorcere generose donazioni. Lo stesso terreno su cui sorge il MASP, nella versione dei fatti monellescamente accreditata dalla stessa Lina Bo Bardi, venne concesso con la promessa di aiuti elettorali al sindaco di San Paolo. Lina a quel punto viene incaricata del progetto architettonico e riprende l’idea di un blocco sospeso che poggia su quattro robusti pilastri di cemento armato che aveva già ipotizzato nel 1951 per un museo mai realizzato a São Vicente, località sul litorale prossima a San Paolo.

Lina Bo Bardi segue da vicino i lavori e ha rapporti tempestosi con gli operai che lo realizzano. Dopo dieci anni il monumentale edificio sulla via più prestigiosa e moderna della San Paolo dell’epoca, la Avenida Paulista, è terminato. Ad ammirare l’ardito contrasto tra il vuoto del vano che lascia libera la vista in direzione del centro e il massiccio blocco sospeso, in occasione dell’inaugurazione l’8 novembre 1968, viene addirittura la giovane regina d’Inghilterra Elisabetta II. Un piano è riservato alle mostre, un altro alla collezione, disposta in ordine cronologico in un grande open space con cavalletti di vetro su una base di cemento armato. Ognuno può passeggiare liberamente e trovare i suoi percorsi nella storia dell’arte. Le descrizioni delle opere sono sul retro dei quadri, la fruizione deve essere diretta, non mediata.

Il MASP è un’opera straordinaria, eppure non sarà la più personale di Lina. Lei stessa in tarda età arriverà quasi a ripudiarla. Questo perché negli ultimi decenni di vita Lina Bo Bardi sviluppa un’idea di architettura sempre più vicina all’essenzialità, a una semplice funzionalità con materiali di riuso. Prevale l’intenzione di creare spazi che favoriscano una socialità democratica, la valorizzazione delle tradizioni popolari, l’integrazione dell’artigianato nel progetto industriale. Un’architettura che si fa addirittura invisibile, come nelle scenografie degli anni Settanta e Ottanta per il Teatro Oficina, dove l’essenzialità rasenta l’assenza.
Il capolavoro della Bo Bardi matura è la trasformazione di vecchi impianti industriali nel moderno centro culturale SESC Pompéia. Un progetto straordinariamente innovativo per l’epoca in America Latina, in cui non solo i padiglioni industriali, i magazzini e le ciminiere erano reinventati dall’architetta, ma venivano creati nuovi spazi accoglienti che gli stessi frequentatori del centro culturale avrebbero reinterpretato liberamente. Prima della ristrutturazione Lina Bo Bardi aveva visitato l’impianto abbandonato in una zona densamente popolata di San Paolo: benché le vecchie strutture fossero in rovina, l’area era ben frequentata e l’architetta era rimasta affascinata dalla vivacità dell’ambiente: ragazzi che giocavano al calcio, operai in pausa che mangiavano, un gelataio ambulante… Si ripromise di creare una struttura capace di conciliare il gusto della ricerca e della modernità con la spontaneità popolare che era già presente in quel luogo. Il cantiere permanente del SESC Pompeia, che durò dal 1977 al 1986 e si interruppe solo quando venne messa in discussione l’autonomia decisionale di Lina Bo Bardi, prevedeva non solo interventi architettonici ma anche mostre, laboratori, scuole di formazione, ristorazione, attività sportive, concerti e ogni forma di agglomerazione culturale possibile e immaginabile negli effervescenti anni terminali della dittatura militare in Brasile. È questo il capolavoro di Lina, fatto di un’architettura coraggiosa ed originale, con i ponti tra i padiglioni e i grandi oblò colorati, ma che sa anche farsi da parte, scomparire dietro l’idea di partecipazione popolare: l’architettura come creazione di uno spazio condiviso per l’interazione sociale democratica e produttiva, non come solido da ammirare stupefatti. Lina è ormai lontana dalla plasticità del MASP, in tarda età la associa addirittura alla retorica fascista del razionalismo monumentale degli anni della sua formazione in Italia.

Zeuler R. Lima spiega bene nella sua biografia qual è stata la stagione della vita in cui Lina Bo Bardi ha trovato la sua voce più originale di architetta. È la fine degli anni Cinquanta, quando viene chiamata a Salvador de Bahia per un nuovo progetto di polo museale, in un primo tempo nell’atrio del Teatro Castro Alves, semidistrutto da un incendio, quindi al Solar da Unhão, un antico complesso manifatturiero affacciato sulla Bahia de Todos os Santos. Lina va sola a Bahia, Pietro Maria Bardi non è direttamente coinvolto nel progetto, e trova un ambiente effervescente. Bahia in quegli anni è un polo di innovazione culturale, all’Università brillanti docenti di teatro, musica, arte e antropologia incontrano una generazione di studenti ansiosa di trovare nuove forme di espressione. È l’ambiente da cui nasce il tropicalismo e il cinema novo, e Lina Bo Bardi è al centro di queste tendenze. Collabora con artisti come Mário Cravo Junior, registi teatrali come Martim Gonçalves, giovani cineasti come Glauber Rocha. Spesso è l’unica donna, ma la sua leadership è rispettata, il suo piglio deciso ammirato. I viaggi all’interno di Bahia la avvicinano a quelle realtà amate e spesso idealizzate di architettura e design spontanei, funzionali, necessari e senza orpelli. Sviluppa il concetto di pre-artigianato per gli utensili ricavati da latte industriali e scatolame vario. La responsabilità sociale e la rivalsa delle creazioni delle persone più umili occupa ora il centro della sua preoccupazione, coniugare il senso estetico della modernità a una architettura mai al servizio delle classi privilegiate. È a Bahia che Lina Bo Bardi diventa l’architetta che ha lasciato un’eredità che va al di là delle poche opere pienamente realizzate giunte fino a noi, soprattutto al di là del MASP, straordinaria realizzazione che alla fine della sua vita sembrerà pesare come un clamoroso successo di classifica giovanile per un musicista che continua a sperimentare per tutta la vita.
Il pubblico, il privato
Una contraddizione generale e costante, che emerge dalla biografia di Zeuler R. Lima, sta nelle differenze tra posizioni pubbliche e condotta privata in ambito politico-ideologico. Se con il tempo Lina Bo Bardi, grazie anche alla prossimità con le correnti culturali più rivoluzionarie nel Brasile degli anni Sessanta e Settanta, diventa un’icona della sinistra antifascista, la sua biografia evidenzia costanti tentativi di reinterpretare episodi del passato in termini più consoni alle posizioni maturate in età avanzata. Così diventa tendenzialmente antifascista una tesi di laurea, dedicata a un progetto di struttura per accoglienza di ragazze madri, che in realtà, dice Lima, era perfettamente in linea con la politica sociale del Ventennio. Lina Bo Bardi finisce anche per vantare una sua attiva partecipazione alla Resistenza, nient’affatto provata. D’altro canto, mai parlerà del flirt con Piacentini, relatore della sua tesi di laurea nel 1939 e principale nome del classicismo monumentale fascista. Una storia che termina solo al sorgere della relazione con Pietro Maria Bardi, il famoso gallerista a lungo sostenuto personalmente da Mussolini, capace di mantenere una posizione centrale nel mercato dell’arte italiano pur essendo entrato in conflitto con le gerarchie fasciste a causa della perdurante difesa di un razionalismo moderno e cosmopolita.

Il ritratto della giovane Lina che emerge dalle pagine di Zeuler R. Lima è di una donna ambiziosa e determinata, che non si fa scrupoli pur di avvicinarsi al potere e affermarsi in una società e in un ambiente dominati dalle figure maschili. Sono contraddizioni che si porterà dietro per tutta la vita, quando in Brasile i coniugi Bardi profitteranno delle condotte estorsive e truffaldine di Chateaubriand, quando Lina racconterà allegramente degli intrallazzi per ottenere il terreno del MASP, quando in tarda età ripeterà ai suoi collaboratori che il mondo è dei forti. C’è in Lina un profondo disprezzo delle procedure corrette, della burocrazia. Non parteciperà quasi mai a una gara pubblica per ottenere un incarico e non ne vincerà nessuna. Lavora solo per chiamata diretta dei suoi amici e ammiratori. Non accetta compromessi, anche quando è circondata da collaboratori vuole il controllo assoluto dei suoi lavori. Quando questa centralizzazione si incrina, come avviene negli ultimi anni al SESC Pompéia, il rapporto si deteriora, benché in teoria difenda sempre la condivisione creativa.
Al lettore di Zeuler R. Lima resta inevitabilmente l’impressione che Lina Bo Bardi, pur militando culturalmente nel fronte opposto, resti personalmente legata a parametri comportamentali e di valutazione tipici del ventennio fascista. Quando Lina nel 1951 realizza la prima costruzione autonoma, la splendida Casa di Vetro, la moderna residenza dei Bardi che tuttora ne preserva la memoria attraverso l’Istituto Bardi, mentre l’edificio padronale viene attrezzato con i più moderni ed eleganti elettrodomestici, alla servitù viene riservata una modesta abitazione sul fondo, in nulla dissimile agli spazi riservati al personale di servizio nelle dimore patrizie brasiliane. Il piglio autoritario con gli operai, il disprezzo della tanto dileggiata mediocrità, sono tutti elementi caratterizzanti della personalità di Lina Bo Bardi, che d’altra parte si batterà negli ultimi decenni della sua vita in una lotta culturale per una società più giusta e democratica, meno classista, partecipata. E lo farà attorniandosi di giovani collaboratori entusiasti che si riuniscono in memorabili pranzi alla Casa di Vetro. E lei, civettuola come sempre, si dichiara “stalinista e antifemminista”, come ama provocare. Si batte disperatamente per una cultura architettonica e di design genuinamente brasiliana, che non sia appiattita dall’incipiente globalizzazione, che non sia succube di modelli europei e soprattutto statunitensi. Certamente vive in pieno la stagione della rivendicazione di una emancipazione politica e culturale latinoamericana, ma non si può dimenticare che lei stessa è cresciuta nella retorica di un’arte genuinamente nazionale. Se da giovane, negli articoli che scriveva per riviste femminili come “Grazia”, consigliando alla donna moderna di liberarsi da tutti gli orpelli dell’arredo domestico, l’innovazione significava allontanarsi dalla retorica nazionalista per abbracciare un funzionalismo razionalista tendenzialmente cosmopolita, nell’età matura il richiamo alla razionalizzazione degli ambienti domestici si associa all’apologia dell’architettura e dell’artigianato umile e rurale dell’interno del Brasile. Il nuovo razionalismo pauperista diventa l’emblema di una controproposta autentica e nazionale al linguaggio anonimo del razionalismo internazionale.
Sono queste solo alcune delle contraddizioni permanenti che Zeuler R. Lima traccia coraggiosamente nel suo libro, che spazia con naturalezza dalla dimensione pubblica a quella privata, e in cui viene descritta una Lina Bo Bardi profondamente infelice nella sua vita sentimentale, legata a Pietro Maria Bardi in un connubio di ammirazione e rispetto che poco spazio lascia a quella pienezza e vivacità dei rapporti, delle relazioni e degli affetti che la sua architettura vuole favorire – a volte gioiosamente, altre disperatamente.
Zeuler R. Lima
La dea stanca. Vita di Lina Bo Bardi
traduzione di Teresa Albanese e Nicoletta Poo
Johan & Levi 2021, 396 pp. ill. col., € 40
In copertina: Museo de Arte de São Paulo