Nel 1928 Walker Evans si reca alla Public Library di New York per fare ricerche nell’archivio della rivista di Alfred Stieglitz «Camera Work». Mentre sfoglia il numero giugno-luglio 1917, l’ultimo dedicato interamente a Paul Strand, una foto su tutte cattura la sua attenzione. Quarant’anni dopo Evans dirà in un’intervista: «ricordo di essere uscito da lì sovraeccitato». La fotografia è Blind Woman, «donna cieca», e a raccontare l’aneddoto è Geoff Dyer. Nel suo saggio L’infinito istante, una personalissima storia della fotografia, Dyer ci spiega i motivi di questa fascinazione. Innanzitutto, far sì che «i soggetti siano ciechi alla presenza del fotografo», ovvero fotografare senza essere visti, è una delle più comuni e condivise ambizioni degli street photographers, ma c’è un altro motivo per cui la fotografia è emblematica: «fornisce un’illustrazione vivida della relazione ideale del fotografo con il soggetto». Lo stesso Strand nello scattare era consapevole della necessità di risolvere un problema ben preciso, sentiva che «si poteva cogliere una qualità dell’essere per il fatto che la persona non sapeva di essere fotografata».

Immaginiamo un rovesciamento di questo assunto, una paradossale inversione del desiderio del fotografo di vedere senza essere visto, di fotografare senza che il soggetto sappia d’essere stato fotografato. È quello che fa Gesualdo Bufalino nel suo ultimo romanzo Tommaso e il fotografo cieco, pubblicato da Bompiani nel 1996 poco prima della morte improvvisa dovuta a un incidente automobilistico. Lo scrittore era stato lanciato da Sciascia ed Elvira Sellerio, arrivando al successo a sessant’anni col romanzo d’esordio Diceria dell’untore: un libro dotto, iperletterario e difficile che si trasforma in un caso commerciale culminante con il Premio Campiello nel 1981 e poi con un film ispirato alla storia che racconta.
Da sempre Bufalino è compromesso col mondo dell’immagine. Era stata la sua introduzione a Comiso ieri, volume fotografico uscito nel 1978 proprio per Sellerio, a catturare la curiosità di Sciascia, unitamente alla qualità della scrittura, per la fascinazione che esibiva nei confronti del significato ontologico della fotografia, ben oltre il suo aspetto meramente documentario. Appassionato di teatro, cinema e fotografia, Bufalino tornerà continuamente a riflettere sui loro linguaggi, manipolandoli e lasciando al contempo che diano forma alla vita oltre che alla narrazione. La sua è una conoscenza enciclopedica e catalogatrice che lo accomuna al personaggio del suo romanzo d’addio: Tommaso Mulè è un ex giornalista, ex comparsa a Cinecittà, ex uomo-sandwich per la pubblicità cinematografica; ora fa il portiere tuttofare in un condominio postmoderno, ma continua ad accarezzare la velleità di scrivere. Le sue vicende, raccontate nel suo diario, sono inseparabili da quelle dell’amico Bartolomeo da lui soprannominato Tiresia o «Tir» (alludendo alla mitica figura dell’indovino privo di vista): un fotografo cieco appunto. Ecco il rovesciamento.
«Piuttosto che fotografare ciò che vedevo, fotografavo quello che vedeva la macchina». Non è una citazione dal romanzo, sono parole di Bill Brandt, ma descrivono perfettamente il lavoro di Tiresia. Certo lui non può fare altrimenti, la sua non è una scelta estetica né si affida totalmente alla macchina fotografica nel tentativo di rendersi invisibile, come Evans. È sempre Dyer a raccontare degli scatti che realizza tra il 1938 e il 1941 sulla metropolitana di New York, nascondendo la macchina fotografica sotto il cappotto. Finché non sviluppava la pellicola Evans non poteva sapere cosa avesse fotografato, «se si pensa a una composizione ordinata con precisione, lui scattava alla cieca». Consapevolezza dei soggetti e arbitrio dell’autore sono i grandi discrimini di queste esperienze che ci mettono davanti al punto limite in cui il fotografo abdica il suo sguardo alla macchina; perciò non possiamo fare a meno di chiederci se il potere di una fotografia può derivare da quello che un fotografo non riesce a vedere.
L’idea è la stessa di Bufalino, espressa da Tir non senza ambiguità. Per il fotografo la macchina equivale a una compensazione per intero, non solo della vista, ma della sua virilità: «io, la mia Nikon vede per me, è lei i miei occhi, le mie mani, il mio…». È una compensazione ma non un apparecchio sostitutivo, né un artificio: «“Tutto al mondo è supplenza, protesi, manomissione: capelli tinti, denti finti, parole posticce… soltanto questa non mente” conclude e brandisce trionfalmente la Nikon nera». In effetti è così. La macchina fotografica ritrae la realtà per come realmente le appare. Il che non significa che la realtà non possa apparire diversa da come realmente è. Ma è sempre l’uomo a manomettere la realtà, a emendarla, a truccarla, a ritoccarla esattamente come nella postproduzione fotografica che è sempre un’azione umana. Tir ha ragione: non è la macchina fotografica a mentire.
Che a poche pagine dall’inizio del libro si parli di menzogna, di imitazione e di artificio non sorprende, perché sin dall’inizio era improntata a questi aspetti la poetica dell’autore, premio Strega nel 1988 con Le menzogne della notte. Tutto in Tommaso e il fotografo cieco è espediente, contraffazione e pretesto. Il romanzo, con una struttura a mise en abyme, vorrebbe essere un diario, ma in realtà è un giallo quello che Tommaso sta scrivendo. Eppure, come il colpevole che non vede l’ora di essere scoperto, affida alla pagina la sua confessione. Grafomane, traduttore a tempo perso e patito di enigmistica, Tommaso rivela di fantasticare su un libro tutto suo, un diario magari, con un incipit semplice e convincente come un ricordo: «“Da ragazzo mi piaceva il rumore della pioggia…”»: è questa la frase con cui inizia questo non-romanzo, o iper-romanzo.
Al lettore non resta che farsi complice del narratore; seguirlo quasi suo malgrado, su e giù per il palazzo mentre riscuote gli affitti, dà la caccia ai topi, smista la posta, raccoglie sfoghi e lamentele, ma soprattutto sfrutta ogni occasione per spiare i condomini. A dispetto di una lunga tradizione – a Bufalino ben nota – che descrive il fotografo come un «detector», «ma anche un cecchino, un ladro, una spia… O ancora, se ascoltiamo Roland Barthes, un mallevadore della storia, uno che avalla l’evento e ci garantisce che è stato. O ancora, se ascoltiamo Susan Sontag, un assassino, se è vero che, nel momento in cui confisca e pietrifica un oggetto, lo uccide…»: in questo caso è Tommaso il voyeur.
Per quanto audaci, per quanto pruriginose siano le fantasie di Tiresia, sono destinate a rimanere castrate e i suoi tentativi di soddisfarle si traducono in goffi atti mancati. Le foto che scatta a sua sorella Matilde, per esempio. La nostalgia per le incursioni nella sua stanza che da adolescente, prima di perdere la vista, gli hanno schiuso l’accesso a tanta innocente nudità senza mai approfittarne, ma alimentando un’ossessione che ancora lo porta sulla soglia della ragazza, per fotografarla mentre dorme. «Uno stupro», commenta Tommaso, il suo confessore, «Raddoppiato da un incesto», mentre impassibile l’amico «Ma no» risponde, «Un vicestupro, un viceincesto, semmai». Quello infatti passato per tale “vicevista”.
La visione di Matilde si offre a tutti, tranne che al fratello. Perfino Tommaso, guardando le sue fotografie, può godere della sua figura a patto di descriverne le pose al compare cieco, finché non arriva all’ultima; lì la voce gli manca. «Poiché Matilde vi appare sveglia con gli occhi spalancati verso la macchina, e sulle labbra un riso… Un riso ch’è allo stesso tempo di mortificato strazio e cupa felicità. Matilde sapeva, dunque». A Tiresia cade quello che Dorothea Lange chiama il mantello dell’invisibilità e nonostante questo, anzi proprio per questo, l’immagine riesce a cogliere una qualità dell’essere sfruttando la consapevolezza della persona di essere fotografata. E l’inconsapevolezza del fotografo di essere stato visto. Da vicevista la macchina si fa supervista e Matilde sa – sì, sa – che il fratello la sta fotografando, soprattutto sa che non la sta vedendo. Il suo sorriso ci parla della sicurezza dell’inviolabilità della sua persona. Come scrive Sontag: «fotografare è essenzialmente un atto di non intervento», perché «chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire». Matilde lo sa e lo sa anche il fratello.
Solo la Nikon, che in mano a Tiresia si carica di una esplicita simbologia sessuale, può penetrarne il corpo e nello scatto si consuma un rapporto (un vicerapporto), «perché si ha un bel dire ma di tutte le virtù creative e copulative dell’uomo, con matite, bulloni, pennelli, scalpelli, seme infuso in grembo, quella che più mi appare trascendere le ferree leggi della necessità è la fotografia, l’unica che riesca a vincere la storia, a fermare il Tempo». Ladro, cacciatore o assassino quello che brama il fotografo è sempre il possesso e quando lo raggiunge «un negativo conserva una moltiplicatoria e immortale capacità di rigenerarsi». Seriale come un qualsiasi altro crimine o vizio, la fotografia ha una capacità di riproduzione illimitata.
Nell’introduzione a Comiso ieri Bufalino aveva già scritto: «perché la riproduzione fotomeccanica, ancorché serbi un che di demoniaco e vizioso, nel suo irrigidire il flusso eracliteo delle cose, violando una legge che sentiamo sacra: l’irrevocabilità del tempo, possiede sempre, a dispetto di ciò, un di più di vita rispetto alle altre forme d’arte che mimano manualmente, fosse pure con minuzia fiamminga, il reale. Possiede cioè un drammatico, ineguagliabile valore aggiunto: il sentimento è stato; e che è stato proprio così». Anticipato così di due anni è il «noema della fotografia» che, secondo il più famoso saggio di sempre sulla fotografia, La camera chiara di Roland Barthes, è appunto «è stato» («nella Fotografia […] io non posso mai negare che la cosa è stata là. Vi è una doppia posizione congiunta di realtà e di passato»: «nella Foto, qualcosa si è posto dinanzi al foro e vi è rimasto per sempre»).
Anche Tiresia si attribuisce questo potere: «Io ad ogni flash che scatto mi riprendo un attimo di sole perduto. Sottraggo un oggetto o un evento al suo destino di perdizione e mentre soggiaccio al tempo gli strappo una preda. Sanziono il decesso, ma lo pietrifico in un simulacro immortale…». Quindi il fotografo rivendica una forma di partecipazione e la sua smania di dominio è la risposta a un’ansia: il tempo che scorre e tutto disfa.
Una minaccia costante di perdita alita sugli eventi raccontati da Tommaso. La memoria è un tema cruciale nella sua scrittura che della realtà ci propone una rappresentazione volutamente ambigua, né d’altra parte si potrebbe fare cronaca di una realtà fluida e inaffidabile. Qui non si fa solamente metanarrativa, ma anche metapoetica, perché la weltanschauung di Tommaso è un doppio di quella di Bufalino che ha innalzato la mistificazione a virtuosismo estetico, la retorica a strategia per aggirare la morte e il citazionismo ad allusione dotta ancor più che esibizione narcisistica. Nato come memoriale inattendibile, questo libro ai nessi fotografia/riproduzione e scrittura/falsificazione ne aggiunge un terzo: morte/creazione. «Dico di più: nemmeno l’artista sommo fra i sommi può pareggiarla, la morte, nella sua opera di cosificazione solenne, nel suo diuturno affettuoso corrompere ogni tremito, errore, eroismo della nostra memoria in una levigata perfezione di scheletro».
Spogliata della vita fino all’osso l’umanità mostra la sua forma più essenziale, una «perfezione» contro cui non può competere la cura della parola né l’esattezza dell’inquadratura e allora «se in un gioco si può solamente perdere o barare, si bari».
In copertina: Gesualdo Bufalino