Non sono simmetrico e non sono mai simile a me stesso. C’è una buona parte di questo me stesso, informe, plastica, sensibile, su cui fanno presa le impronte come sul mastice del fabbro. Eccomi da quasi dieci anni fra coloro che appiccano fuoco alle fattorie, rubano il carbone sulle chiatte, commettono frodi e fanno i vagabondi, questi rifiuti di meno di diciotto anni che compiono crimini e sono ingrati, pubblicassistenziano, e si masturbano l’esistenza. Sifilide, alcool, tubercolosi, indiscutibilmente. Topaia, stalla umana, madri puttane e il padre sulla figlia, tutto questo va da sé… Invento, parlando con loro, intuizioni o riflessioni che non ho avuto. E, da menzogna a simulazione, io mi formo. Divento l’educatore che avrei dovuto essere, un po’ affannato nella rincorsa di questo me stesso da me descritto in momenti di entusiasmo. Astuto, cocciuto, vanitoso ed esigente nella vita attuale, sempre preso dentro alla rete sociale come un vagabondo nel reticolato di un recinto… Allora io cerco in compagnia di coloro che non hanno trovato[1].
È così che Fernand Deligny si descrive nel suo testo I vagabondi efficaci. Fernand Deligny è un uomo che cerca, osserva, indaga. Un uomo che oppresso dalle sue incertezze ricerca nello smarrimento del mondo oscuro dei ragazzi – delinquenti, incurabili, ineducabili, autistici, psicotici – un modo per essere presente, per sentirsi vivo. È con questi ragazzi che hanno “assaggiato il delitto” che Deligny sfida la poesia, l’immaginazione, la distruzione, l’isolamento, la paura.
Nel 1967, dopo il fallimento della clinica della Borde con Jean Oury e Félix Guattari, Fernand Deligny decide di ritirarsi sulle Cevenne – un complesso montuoso della Francia Meridionale – e di istituire delle comunità, fatte di vaste aree di soggiorno dove venivano assistiti bambini che nessuno avrebbe preso in carico diversamente. Lo stesso anno segna dunque l’inizio di un nuovo tentativo pedagogico grazie all’incontro con Janmari, giovane ragazzo autistico e mutacico definito incurabile dalla scienza e dalla psichiatria. Deligny lavorerà per tutta la vita sempre ai margini delle istituzioni psichiatriche e pedagogiche, portando avanti metodologie inusuali. Non voleva esser psichiatra, né psicanalista o pedagogo. In particolare, Deligny critica e denuncia i limiti epistemologici e terapeutici della psichiatria e della psicanalisi per la loro concezione dell’uomo come essere di significato, essere capace di esprimere significati attraverso il linguaggio e di attribuire con esso un senso alle cose e alle persone. Da qui nasce il progetto esperienziale delle Cevenne, “il metodo dei vagabondaggi, dei bighellonaggi, del trasloco e della transumanza. È l’apertura di uno spazio di azione e di vita comune, nel quale l’educatore asseconda i bisogni del bambino, anziché correggerli. Il che significa abdicare a ogni pretesa di correzione o effettiva educazione dell’autistico alle regole della società; significa, in altre parole, dismettere il ruolo del pedagogo, per farsi “presenza vicina”[2]. Interrogando e interrogandosi, Deligny approda a un nuovo linguaggio senza linguaggio. Deligny voleva farsi gesto, simbolo, segno, voleva assolutamente trovare un modo per farsi acqua, pietra agli occhi dei ragazzi, rendersi visibile. Non c’era assoluta differenza tra Deligny e i ragazzi, dunque, nessun educatore e nessun allievo ma soltanto un vivere comune. In questo modo ribalta completamente la logica dell’educazione, sovverte quei ruoli gerarchici tra chi educa e chi viene educato.
Esperienze non autoritarie nella scuola, convegno tenutosi a Milano nel giugno del 1970, pone al centro l’antiautoritarismo come punto cardine proprio del 67-68, come volontà di “colpire soprattutto l’organizzazione interna dello sfruttamento, che passa attraverso i rapporti autoritari e gerarchici; sottrarsi a tutti i meccanismi di controllo diretto”[3].
Appellatosi a tutte quelle circostanze meschine e autoritarie imposte dalle amministrazioni, rifiutando i sottoprodotti dell’educazione borghese, Deligny si dedica completamente ad una pratica del “Noi”, dove gesti, progetti, percorsi avvengono nella totale assenza di linguaggio. “Perché un bambino possa avere un luogo altrove che nei luoghi previsti dallo Stato per il suo stato, bisogna che qualche adulto si sia sottratto alla forza d’attrazione dell’impiego che lo aspettava, qui o là, e decida di vivere nell’incessante ricerca di un “noi altri” che permetta a questi bambini “proibiti” di osare, di osare di essere, che il verbo ci sia o non ci sia”.[4] Questo tentativo, questa ricerca, questa pratica rivoluzionaria porta Deligny a tracciare, archiviare, segnare qualcosa che è leggibile soltanto per chi vuole vederlo.
Allora
su cosa si può contare
quando manca il linguaggio?
fidarsi dei nostri occhi
fidarsi delle nostre mani
ci siamo messi a tracciare segni
questo ragazzino che non è parlante traccia segni
per mesi e mesi. La sua mano ha tracciato dei cerchi nient’altro
ne traccia ancora
noi
noi ci siamo messi a tracciare segni
le nostre mani segnavano una traccia
di quel che i nostri occhi vedevano
i nostri occhi
quello che il nostro sguardo riusciva
a vedere
a cogliere
a venirci a dire[5]
Jacques Derrida in Mal d’archivio analizza il concetto di archivio ripartendo dall’archè “nel senso fisico, storico, ontologico, cioè all’originario, al primo, al principale, al cominciamento”[6]. È in questa direzione che potremmo definire Deligny un archivista. In primo luogo, conservando, investendo, raccontando, Deligny fissa nella storia la propria esperienza e quella dei ragazzi abbandonati, distanziati ed esclusi dalla società. Si fissa in un tempo preciso distruggendo il tempo stesso e fissa nelle carte la storia, il dispositivo, consegnandosi e consegnando i ragazzi nel luogo della memoria. Si crea una casa, un luogo del dopo che assicura la sua possibilità di memorizzazione nel tempo, dunque, la memorizzazione nel tempo e nella storia anche dei ragazzi. Inoltre, grazie al suo essere archivista si inserisce nella storia come documento, come studio per l’altro, diventa esso stesso archivio della sua vita e se si vuole dei suoi processi privati e pubblici. Diviene scoperta per la storia della sua pratica istituzionale, clinica, pedagogica, scoperta delle vite dei suoi ragazzi, dei loro scambi personali e scientifici. Allo stesso tempo, Deligny fa della forma archivio il suo stesso momento di disinnesco: non più semplice applicazione di un potere, ma metodo continuo di liberazione.
“L’archivio, come stampa, scrittura, protesi, non è solo il luogo di stoccaggio e di conservazione di un contenuto archiviabile passato…No, la struttura tecnica dell’archivio archiviante determina anche la struttura del contenuto archiviabile nel suo stesso sorgere e nel suo rapporto con l’avvenire”[7]. Dunque, l’archiviabile non rimane mai uguale a se stesso ma si sovverte continuamente.
Non determina e non registra soltanto l’evento, ma condiziona la forma e fa nascere una nuova forma. L’archiviabile diviene un atto d’amore alla memoria e per la memoria, un atto d’amore al prossimo, un atto di liberazione. L’archiviabile è una veglia sul niente.
La parola archivio e la sua nozione, dunque, sembra rimandare al passato ma la questione dell’archivio “non è, la questione di un concetto di cui disporremmo già a proposito del passato, un concetto archiviabile dell’archivio. È una questione di avvenire, la domanda dell’avvenire stesso, la domanda di una risposta, di una promessa e di una responsabilità per il domani”[8].
L’archiviabile a questo punto potrebbe avere come destino il consumarsi mentre consuma gli altri, le cose, fino a diventare nient’altro che la forma stessa del suo consumarsi. Edmond Jabes nel Il libro della sovversione non sospetta indaga sull’avventura stessa della scrittura. “Scrivere-essere scritti – vuol dire, dunque, senza che ci si renda sempre conto, muovere dal visibile – dall’immagine, dalla figura, dalla rappresentazione che ha la durata d’un incontro verso la non-visibilità, verso la non rappresentazione, contro le quali lotta, stoicamente, l’oggetto. Vuol dire muovere dall’udibile, che ha la durata d’un secolo, verso il silenzio, nel cui orizzonte dolcemente sprofondano le nostre parole”[9]. È così che Deligny scrivendo, tracciando inventa questa pratica delle carte e dei calchi chiamata da lui Linee d’erranza. Trascrivendo queste carte topografiche sovrapposte a calchi trasparenti registrava di giorno in giorno i vari percorsi e spostamenti dei bambini e degli oggetti con cui essi entravano in relazione.

Fanno riferimento al metodo di Deligny anche Gilles Deleuze e Félix Guattari quando parlano delle carte e dei calchi. “Il metodo di Deligny: fare le carte dei gesti e dei movimenti di un bambino autistico, combinare più carte per lo stesso bambino, per più bambini… Se la carta o il rizoma hanno per natura entrate molteplici, si dovrà considerare il fatto che ci si può entrare per il cammino dei calchi o la via degli alberi-radice, tenuto conto delle precauzioni necessarie (qui, ancora, si rinuncerà a un dualismo manicheo)”[10]. Ecco allora che concetti quali territorialità, deterritorializzazione, e riterritorializzazione, configurazione e piani di consistenza, linee di fuga e tracce di intensità, concatenamento e modi del concatenamento in rapporto a tipologie di potere sociale combaciano perfettamente con la metodologia di Deligny.
In quest’organizzazione di rete nelle Cevenne, si vive una vita semplice, si coltivano le piante, si fa il pane, si allevano polli, si prepara da mangiare, si lavano i piatti. Non si trasmettono conoscenze ma si studiano i gesti. Deligny la definisce così “Vita da zattera”[11].
Qui e là, il SOLCO: quelle cose sono forse gesti, gesti di deriva, cose avvenute per la presenza di ragazzi che vivono quell’assenza del linguaggio che ci permette di stabilire il concertato…il più piccolo dei nostri gesti, è prima di tutto qualche cosa, e la minima cosa può suscitare tutto un mondo di gesti…ornata, la zattera dei nostri modi d’essere consueti, da gesti, da percorsi, da oggetti maneggiati che si mettono a divenire “qualcosa”, che strabordano da ogni parte dal loro uso puro e semplice, “modi di fare” che non ci sarebbero accaduti se qui regnasse in tutta tranquillità il linguaggio[12].
Marcel Jousse nel La sapienza analfabeta del bambino pone al centro del suo studio il concetto del mimismo. Per Jousse l’uomo nuovo potrà risorgere soltanto quando i bambini potranno crescere spontaneamente. Dunque, ritornare al mimaggio per nutrire “quello strano algebrosema che attualmente chiamiamo linguaggio, inteso come gesto della lingua, e che non è altro che un puro e semplice residuo dell’espressione umana primordiale”[13]. Dunque, fornire nel viaggio con quei bambini gesti antichi, e non parole è stato l’intento di Deligny; regalando loro il silenzio del linguaggio, ha garantito il diritto del loro silenzio. Soltanto in questo modo si garantisce l’immutabile. Soltanto in questa organizzazione rizomatica nella sua vibrante ripetitività, può accadere che il bambino assuma il gesto dell’adulto, per contagio o imitazione. In un secondo momento l’educatore potrà ampliare il gesto, decostruirlo, rimanendo prossimo a lui e tracciando.

Partendo dal corpo per finire sul corpo. Non serve nient’altro. Il corpo, scrive Rubina Giorgi, “è il termine del processo di creazione e nascita. Esso emerge dal nulla germinante – come un nulla a sua volta germinante, come un segnato segnante”[14]. Ecco che questa segnatura, questo solco di cui si parlava prima, è il gesto stesso, gesto alla deriva, è l’impronta, l’evento, è qualche cosa, è tutte le cose, è corpo in cui il mistero si riversa, è il mistero stesso in quanto manifesto.
voglio dire che non smetterebbe mai
di pelare patate
o di lavare i piatti
da quel buono a niente che era
eccolo diventato una straordinaria
macchina tuttofare
senza il linguaggio nessun fine
una verità evidente che può evitarci di vedere
che il linguaggio può avere i propri fini
e di noi non glie ne frega niente al
linguaggio né più né meno[15]
O “mal chiusa” la chiama Deligny, il disegno che spesso fa Janmari, cerchio aperto che diventerà il punto cardine di tutto il suo studio, il progetto da cui partire, un progetto che rimane sempre aperto, dunque, sempre possibile. Vediamo così un passaggio netto e preciso che va dal disegno al gesto del bambino, al luogo, alla collocazione del gesto nello spazio, alle strutture esse stesse aperte dove i bambini abitano. Il bambino, dunque, diventa esso stesso disegno, luogo, struttura, gesto, territorio, nodo.

“Quel dondolare di Janmari ci ha spinti a cercare nelle carte un punto di orientamento. Non credo agli stereotipi che risalirebbero a una meccanica propria del bambino autistico. Ogni movimento indicato all’infinito evoca l’idea di un possibile nodo: e lì affiora l’umano”[16]. Creare dunque nodi, connessioni. Nel momento in cui il bambino torna e ritorna a battere sulla pietra, a fissare ossessivamente l’acqua del torrente o un fuoco antico, nel dondolio incessante e ripetitivo, in quel momento lì, affiora l’umano. Quel momento lì, è il teatro. Quei bambini sono attori, gli unici veri attori che non sanno di esserlo e non lo pretendono. L’attore, scrive Artaud, è colui che quando si muove “violenta le forme, al di là di queste forme e attraverso la loro distruzione raggiunge ciò che sopravvive alle forme e provoca la loro continuazione”[17].

Ecco che questi ragazzini privi di linguaggio, senza saperlo rifanno continuamente il teatro. Raggiungendo l’essenza stessa della vita, hanno in mano la conoscenza di ciò che ancora non esiste e la fanno nascere. Gesti spinti al limite, ossessivi, ristabiliscono il legame fra ciò che è e ciò che non è. Le loro crisi non sono nient’altro che il manifestarsi della natura e del vuoto, gesti geroglifici dunque, che rimandano ad aspetti della natura, che ritornano al principio della stessa crisi: la vita. Non esiste passaggio fra gesto, grido, suono, ambiente circostante: tutto si fonde. Tutta la materia si rivela, si disperde in segni, e non c’è più un confine tra concreto e astratto. Sono tutti gesti fatti per durare quelli che fanno i ragazzi. “In questo teatro ogni creazione viene dalla scena, trova la sua traduzione e le sue origini in un impulso psichico segreto che è la parola di prima delle parole”[18]. Un teatro puro, al quale nessuno ha mai tentato di dare la minima realtà, la minima credibilità. Un teatro che inventa un nuovo linguaggio dove la parola non serve più, dove i gesti minimi violentano il reale, dove lo spazio viene utilizzato in tutte le direzioni e piani possibili. Giocano con il silenzio questi ragazzini, gridando contro il silenzio. Il corpo in uno stato di trance, gli occhi sbarrati sembrano vedere attraverso gli oggetti, le orecchie si innamorano del fruscio dei rami e dell’acqua del torrente, le loro mani ci ingannano, i piedi indugiano continuamente. Quel ragazzo girando attorno a se stesso è improntato sul niente, non ha nessuna finalità e, proprio per questo, ha in sé il dominio del possibile. Il dondolio ossessivo coincide con un punto di arresto, un momento in cui le traiettorie dei ragazzini si fermano inesorabilmente, dunque un inizio, punto di partenza, incontro con l’avvenire. Si è davanti a questi ragazzi inermi, travolti come da forze maggiori, da gesti violenti. Scriveva T.T. Eliot: “Il genere umano non può sopportare troppa realtà”.[19]

“Tutto ciò che agisce è crudeltà”[20], scrive Artaud. È in questa prospettiva che potremmo guardare i gesti di questi ragazzi in vacanza dal linguaggio. Una crudeltà come la intende Artaud, dunque, priva di sangue, di carne martoriata o di gesti violenti, ma lucida, controllata, rigida. Questi ragazzi toccano con mano la realtà e la distruggono, la squarciano, tagliano il vuoto creando un’azione magica totale. È la vita stessa che gioca. Nei loro corpi la pesantezza, l’estensione, la stanchezza, lo spessore si fa gesto urlante dell’esterno. Questi gesti così violenti e concreti sono talmente efficaci da farci dimenticare la necessità stessa del linguaggio parlato. La parola è solo un intralcio al gesto. È tutto lì, nel ragazzo che tenta e ritenta di legare una corda, è tutto li tra il tentativo e il rinnegare lo stesso tentare. Ecco che la comunità costruita sulle Cevenne diventa la scena, spazio riempito dai ragazzi, luogo dove succede qualcosa, dove il linguaggio parlato lascia il posto al linguaggio dei segni. “Si tratta niente meno che di modificare il punto di partenza della creazione artistica e di capovolgere le abituali leggi del teatro. Si tratta di sostituire al linguaggio articolato un linguaggio di natura diversa, le cui possibilità espressive equivarranno al linguaggio delle parole, ma la cui fonte si troverà in un punto più nascosto e più remoto del pensiero”[21]. Questo è un teatro che si rifà alla vita, non a quella individuale, ma a una vita che scaccia l’io dove l’uomo, dunque, non è altro che un riflesso. Questo è un teatro che crea miti, che esprime la vita così com’è, e che da essa estrae immagini. Questi ragazzini dichiarati incurabili in verità sono gli unici che vedono la realtà troppo bene, loro sono la realtà. La loro visione è il mezzo per assentarsi da se stessi. Loro sono e si fanno acqua e fuoco, le loro esistenze muoiono e rinascono in esse. Loro sono gli unici che possono cancellare il tempo, loro sono fuori dal tempo. Questi ragazzini hanno fame del nulla, “e il nulla ha fame del qualcosa, e tale fame è desiderio. Ma il desiderio non ha nulla da poter fare o prendere. Prende dunque solo se stesso, e imprime se stesso”[22]. Questa fame del nulla è il teatro.
Bibliografia
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, ed. Giulio Einaudi editore, Torino 2000
F. Deligny, I vagabondi efficaci, ed. Jaca Book, 1997
F. Deligny, Una zattera sui monti, ed. AlfaBet, Firenze 2020
G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, Capitalismo e schizofrenia, ed. Giulio Einaudi editore, Torino 2002
J. Derrida, Mal d’archivio, un’impressione freudiana, ed. Filema, Napoli 2005
T.S. Eliot, Quattro quartetti, ed. Aldo Garzanti editore, 1959
E. Fachinelli, G. Sartori, L.M. Vaiani, Pratica non autoritaria nella scuola, ed. Giulio Einaudi editore, Torino 1971
R. Giorgi, Alla ricerca delle nascite (lingua e mania), a cura di M. Mussio, ed. La Nuova Foglio, Pollenza-Macerata 1978
E. Jabes, Il libro della sovversione non sospetta, a cura di A. Prete,ed. SE, Milano 2005
M. Jousse, La sapienza analfabeta del bambino. Introduzione alla mimopedagogia, a cura di A. Colimberti, ed. Libreria Editrice fiorentina, Firenze 2011
Sitografia
L. Amara, Dopo il disastro del linguaggio. Le lignes d’erre di Fernand Deligny, La deleuziana – rivista online di filosofia – ISSN 2421- 3098, N.3/2016 – La vita e il numero
[1] F. Deligny, I vagabondi efficaci, ed. Jaca Book, 1997, p. 110
[2] F. Deligny, Una zattera sui monti, ed. AlfaBet, Firenze 2020, p. 17
[3] E. Fachinelli, L.M. Vaiani, G. Sartori, Pratica non autoritaria nella scuola, ed. Giulio Einaudi editore, Torino 1971, p. 16
[4] Deligny, Una zattera sui monti cit., p.42
[5] Ivi p. 31
[6] J. Derrida, Mal d’archivio, un’impressione freudiana, ed. Filema, Napoli 2005, p.12
[7] Derrida, Mal d’archivio cit., p.28
[8] Ivi, p.48
[9] E. Jabès, Il libro della sovversione non sospetta, a cura di A. Prete,ed. SE, Milano 2005, p.62
[10] G. Deleuze, Dopo il disastro del linguaggio. Le lignes d’erre di Fernand Deligny di L.Amara, in «La vita e il numero», IIV, 2016, p. 187
[11] Ivi, p. 99
[12] Deligny, Una zattera sui monti cit., p.70
[13] M. Jousse, La sapienza analfabeta del bambino. Introduzione alla mimopedagogia, a cura di A. Colimberti, ed. Libreria Editrice fiorentina, Firenze 2011, p.43
[14] R. Giorgi, Alla ricerca delle nascite (lingua e mania), a cura di M. Mussio, ed. La Nuova Foglio, Pollenza-Macerata 1978, p. 46.
[15] Deligny, Una zattera sui monti cit., p.36.
[16] L. Amara, Dopo il disastro del linguaggio cit., p. 202
[17] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, ed. Giulio Einaudi editore, Torino 2000, p. 132
[18] Ivi, p.176
[19] T.S. Eliot, Quattro quartetti, ed. Aldo Garzanti editore, 1959, p. 7
[20] Artaud, Il teatro e il suo doppio cit., p.199
[21] Ivi, p. 244
[22] Giorgi, Alla ricerca delle nascite cit., p. 50
In copertina: Fernand Deligny, 1959 Courtesy Éditions l’Arachnéen