È il 31 maggio 1975 quando alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna va in scena una di quelle che Fabio Mauri chiama «azioni complesse» (né teatro né installazione né performance, ma un po’ tutto questo insieme). Ha chiesto a un suo vecchio e celebre amico, Pier Paolo Pasolini, di prestarsi (come ha già fatto il regista ungherese Miklos Jancsó) a fare da “schermo vivente” per una delle sue “proiezioni” (dall’allusivo significato non solo psicoanalitico). Dovrà mostrare il petto come un fucilato di Goya, con la camicia dallo sparato più bianco possibile: su quella superficie luminosa scorreranno le immagini di un capitolo altrettanto allusivamente scelto dalla sua filmografia, Il Vangelo secondo San Matteo. Del lavoro ci restano solo alcune fotografie di Antonio Masotti; il suo titolo è Intellettuale, e senz’altro allude al più celebre degli Scritti corsari che da qualche tempo Pasolini va pubblicando, con sommo scandalo, sul «Corriere della Sera» di Piero Ottone: quello che comincia «Io so» («Io so perché sono un intellettuale» ecc.) e che sulle vicende più oscure della recente storia d’Italia getta un raggio di luce tenebrosa, che di nulla «aveva le prove» ma tutto dichiara di sapere.
L’episodio si può leggere in tanti modi, si capisce; ma a posteriori trattare l’icona di Pasolini come uno schermo, da parte di Mauri, denota in lui una vis profetica non minore di quella poi tante volte attribuita, più o meno sensatamente, al suo amico intellettuale. Da allora infatti Pasolini è sempre stato oggetto delle proiezioni più diverse e contrastanti: a partire dal trauma inelaborato della sua tragicissima morte, le maniche di quella camicia sono state tirate in direzioni talora pretestuose («cosa ne avrebbe detto Pasolini» è l’attrezzo più frusto, fra lo ieratico e lo iettatorio, del polemichese da gazzetta) e, quel che più fa specie, a prescindere dalla sua opera. Chi ha letto davvero i suoi capolavori di scrittore (dalle prime poesie in friulano ai saggi di Empirismo eretico, e a un po’ tutto quello che ha scritto negli ultimi mesi frenetici, a partire dall’iper-romanzo e non-romanzo “doppiamente incompiuto” che è Petrolio), fra quanti oggi ne fanno un mito? Quella del «mito», ha scritto una volta il suo maggiore interprete Walter Siti, è appunto la dimensione in cui «leggere effettivamente le opere di Pasolini non è affatto necessario, né è necessario confrontarsi con la critica che ha cercato di capirle». Diciamo allora, con Furio Jesi, che quella che oggi risponde al suo nome è una «macchina mitologica»: quella in cui chi elabora il mito è lo stesso che lo consuma e – con reversibilità micidiale che ricorda il macchinario da tortura della Colonia penale di Kafka – ne viene anche consumato.
Senza probabilmente conoscere questo paradigma un altro intellettuale da Pasolini molto attratto, Elvio Fachinelli, nel ’78 scrisse un saggio, dal titolo Cultura e necrofagia, che si applica ancora più perspicuamente al “caso” in oggetto. La spregiudicatezza con cui l’industria culturale si appropria di determinate figure “proiettive” ricorda per lo psicoanalista quella con la quale in certi «gruppi arcaici» si cerca un legame col «mondo degli antenati […] attraverso la negazione della morte individuale». Questi veri e propri «morti-viventi» svolgono «una funzione normativa nei confronti del polo dei viventi», e nel mondo moderno questo pensiero mitico è ereditato appunto dalla «logica economica dell’industria»: quella che letteralmente si nutre di quei cadaveri insepolti in una «situazione necrofagica». La società può comportarsi in questo modo a dispetto, e a ben vedere proprio in virtù, del ruolo di vittima sacrificale e capro espiatorio a suo tempo rivestito da quella figura (lasciando da parte la questione, al momento indecidibile, di come siano andate le cose, davvero, quella notte da tregenda all’Idroscalo di Ostia).
Si potrebbe dire che a volte anche lo stesso Pasolini, come parte di quella medesima industria culturale le cui storture non mancava di denunciare a voce altissima, abbia trattato nel medesimo modo lo sterminato patrimonio della cultura di cui avido s’era impossessato in giovanissima età (emblematico il progetto, col quale attorno al 1940 si può dire cominci il suo percorso, di fare cogli amici di Bologna – coi quali tanto tempo dopo ne realizzerà una storica «Officina» – una rivista dal titolo «Eredi»): nei suoi periodi più vorticosi facendola letteralmente a brani e usandola ai propri scopi con disinvoltura “crudele” (eloquente l’apologo della Ricotta, col tableau vivant ispirato alla Deposizione di Rosso Fiorentino ma attribuito all’avatar interpretato nel mediometraggio da un tronfio e ispiratissimo Orson Welles…). E in effetti, se tutta questa exploitation si è resa possibile, è dipeso anche da lui. Dalla sua volontà di stupire tutti, prima di tutti sé stesso, con la più proteiforme versatilità (quello che, ai tempi di «Officina» e Passione e ideologia, aveva battezzato «sperimentalismo»): spaziando da scrittore in tutti i possibili generi, e poi ulteriormente “espandendosi” nella musica, nel teatro, soprattutto nelle arti visive sua originaria vocazione. L’approdo al cinema, con Accattone nel ’61, era dunque insieme inevitabile e quasi tautologico.
Sicché, per restare solo al cinema, possono rivendicare l’eredità di Pasolini autori diversissimi: dai citazionisti più estetizzanti agli indignati in denuncia permanente effettiva, dai vitalisti più selvaggi ai concettuali più cerebrali, dai più violenti ai più sdolcinati. Ciascuno “ritagliando”, di quel corpus, il brano che meglio gli si confaccia. Per esempio alla stessa interpretazione di Intellettuale, dicevo, si possono attribuire significati assai difformi. Col suo inelaborato senso del sacro, immaginava Mauri che la luce del Vangelo sul corpo del suo autore ne facesse un alter Christus («quando si andava a cena con Pasolini», ha raccontato una volta l’artista, «sembrava di cenare con Cristo»): e le circostanze della morte dell’amico, appena cinque mesi dopo, gli parranno la più atroce delle conferme. Altrettanto legittimamente, però, quell’episodio permette di assimilare lo sperimentalismo sfrenato dell’ultimo Pasolini, viceversa, alle esperienze più concettuali della performance e dell’installazione d’avanguardia (quelle che lui detestava con toni persino fobici).
Forse il compagno di strada ideale di Pasolini era l’amico che non smetteva mai di attaccarlo con toni da nemico vero, senza quartiere. Come lui Franco Fortini praticava la «sineciosi» che gli attribuiva, cioè «lo scandalo del contraddirsi» rivendicato dalle Ceneri di Gramsci, ma più alla radice una tendenza “manieristica” a voler tenere insieme quanto più, dall’insieme, fa sortire scintille. E suggeriva, in uno dei pezzi raccolti in quel libro mirabile (con ogni probabilità, e per ironia della sorte, il suo capolavoro) che è Attraverso Pasolini, che «per preservare il meglio di Pasolini bisogna […] disaggregarlo», «stabilire un canone di eminenza», e insomma metter mano a una severa «antologia critica dell’opera pasoliniana». Cioè esattamente il contrario di quanto non si è smesso di fare in questo quasi mezzo secolo che ormai ci separa dalla sua scomparsa.
Contro il mito Pasolini, la macchina infernale in cui lui stesso ha fatto in modo di trasformarsi restandone infine vittima (furono le ruote della sua stessa Alfa-feticcio a schiacciargli definitivamente il fiato in gola), oggi va allora rivendicata la sua opera. Cioè le sue singole opere. Naturalmente questo non risolverà il conflitto che, da quando era vivo, suscita Pasolini (come Cristo, davvero, era venuto con la spada). Anzi: ciascuno di noi si vorrà prendere solo una parte del lascito, una sua reliquia più o meno cospicua. Per quanto mi riguarda, e a dispetto della voga (ora forse un po’ appassita) di fare di lui un artista fauve e quasi naif, che «getta il suo corpo nella lotta» ed è portatore di una «parola diretta» antidoto dirompente contro il postmodernismo venuto dopo di lui, il Pasolini oggi più vitale è proprio l’artista-intellettuale, “complesso” e in senso lato concettuale – che pare difficile sottrarre dalla cornice storica del postmoderno –, al quale Mauri aveva dato corpo colla sua azione alla Galleria di Bologna.
Era quella, del resto, un’immagine dialettica. All’altro capo della sua traiettoria, aveva raccontato non molto tempo prima, c’era una «piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra)» all’Università di Bologna: dove nell’anno accademico 1941-42 Pasolini seguiva incantato le lezioni di un professore che segnava a dito le immagini sullo schermo alle sue spalle. «Un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più una luce», così la ricorda Pasolini: «un’apparizione» e anzi «semplicemente la Rivelazione». Quel professore si chiamava Roberto Longhi e quelle peritose diapositive in bianco e nero, nella memoria, sono per lui semplicemente «cinema». La portata della lezione di Longhi sul Novecento letterario è stata di recente ricostruita come meglio non si potrebbe da Marco Bazzocchi, e infinite pagine sono state dedicate alla devozione di Pasolini nei confronti della grande tradizione figurativa, da lui non meno sacralizzata di quella letteraria. «Solo nella tradizione è il mio amore», infatti, aveva detto coi versi di Poesia in forma di rosa Orson Welles nella Ricotta; ma pochi versi dopo lo stesso testo proclama con orgoglio di essere «più moderno di ogni moderno».
Un Pasolini moderno, si capisce, è un Pasolini diverso da come si vedeva e pretendeva di essere visto lui stesso. Ma è anche un autore finalmente affrancato dal suo santino ormai logoro, dalla macchina mitologica che s’è impossessata di un’opera molto più ricca e strana di come finora la si è per lo più banalizzata. Certo quel raggio di proiettore col quale Mauri aveva messo in ombra il suo volto, al contempo facendo splendere il suo corpo di luce, aveva avuto per esito la trasformazione dello stesso Pasolini in un’immagine: in una sua immagine. Così realizzando in forma spettrale quella transustanziazione, quel trasumanar del corpo in opera, dell’opera in corpo, che da sempre era il suo ideale. Era davvero una rivelazione. Forse non troppo diversa doveva essergli apparsa, tanto tempo prima, l’icona luccicante del maestro: nella stessa città, in quell’aula oscura e abbagliante.
Delle innumerevoli manifestazioni legate al centenario della nascita di Pasolini, il 5 marzo 1922, si riportano qui solo alcune delle più prossime. Intellettuale di Mauri sarà al centro dell’omaggio del Castello di Rivoli, a Torino, a cura dello Studio Fabio Mauri: oggi alle 19 una lettura dalla nuova edizione di Petrolio (appena uscita da Garzanti a cura di Maria Careri e Walter Siti) di Laura Curino al Teatro del Castello, dove l’installazione sarà esposta da oggi a domenica 6. Oggi alle 17.30 all’Archiginnasio di Bologna si terrà il convegno Pasolini e Bologna, in occasione dell’uscita del volume omonimo curato da Marco Antonio Bazzocchi e Roberto Chiesi per le edizioni della Cineteca di Bologna e della mostra Folgorazioni figurative (a cura degli stessi con Gian Luca Farinelli), inaugurata il 1 marzo (e aperta sino al 18 ottobre) nei nuovi spazi espositivi del Sottopasso di Piazza Re Enzo. Domani alle 10 all’Università «La Sapienza» di Roma s’inaugura la mostra Pier Paolo Pasolini sul set di Medea, con le foto di scena di Armando Cattarinich del film del 1969 (dalla collezione di Stefano Di Tommaso), e un seminario di Elena Fabbro e Valeria Coladonato. Sempre a Roma il giorno anniversario, sabato 5, si comincia alle 11 con la conferenza inaugurale del progetto Alfabeto Pasolini, curato da Marco Belpoliti per il Comune di Roma, dedicata dallo stesso Belpoliti alla voce Corsaro, alla Biblioteca Guglielmo Marconi (Via Cardano 135); alle 17.30, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, la conferenza Che cosa sono le nuvole?; alle 18, al MAXXI, il primo di tre incontri pubblici con Walter Siti (in dialogo con Andrea Cortellessa).
In copertina: Pier Paolo Pasolini e Fabio Mauri, «Intellettuale», Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna, 31 maggio 1975