Una delle poche certezze a riemergere intatta dalla disastrosa e fulminante sequela di avvenimenti che hanno segnato questi ultimi giorni è la chiara percezione di una postura-limite che piega e deforma, di vertebra in vertebra, l’intera colonna storico-culturale dell’umanità: la certezza di trovarsi ‘immediatamente davanti a un abisso’. Con estrema lucidità, Benjamin aveva individuato in questa curvatura verso il baratro, nella profonda consapevolezza di trovarsi nel mezzo di ‘una crisi decisiva’, una costante umana nella mutevolezza della materia storica, qualcosa di irrimediabilmente ‘cronico nell’umanità’[1]. Difficile dargli torto.
Se un senso acuto di crisi accompagna l’uomo da sempre, anche ciò che sembra soggetto al divenire, ovvero il susseguirsi di diverse epoche, asseconda il ritmo ben esemplificato dal principio visivo-costruttivo del caleidoscopio, metafora utilizzata da Benjamin per denunciare come la successione di figure apparentemente diverse sia, in realtà, un prodotto filtrato dalle medesime superfici riflettenti – l’apparato concettuale della ‘classe dominante’. Non si tratta di eterno ritorno, né del cliché di una storia che si ripete, la questione è piuttosto osservare il ‘volto del mondo’ riemergere, di volta in volta, ‘in ciò che costituisce il nuovo’[2]. Con un simile cenno, seppur diversamente orientato, anche Warburg attribuiva ad una delle più celebri iconografie della crisi, il gruppo del Laocoonte, la consuetudine di un volto familiare. La convulsione corporea di quei gesti mirabili di fronte all’imminenza della catastrofe non è che una delle ‘innumerevoli maschere del pathos’ che appaiono, a più riprese, nel coro di un’unica tragedia composta da diversi atti, ovvero ciò che chiamiamo le diverse epoche della cultura[3].
Osservando l’ennesimo atto in questa comune tragedia di cultura e barbarie, nel vasto coro di immagini che si susseguono senza tregua emergono i tratti distintivi di un volto troppo conosciuto. La dialettica vincitore-oppresso, la negazione costruita sull’affermazione, l’invenzione dell’identità nazionale/imperiale. Ciò che oggi, nel campo delle relazioni internazionali, prende il nome di ‘ontological security’[4] è una della tante maschere – una delle tante ‘figure dell’autosufficienza’ (Nancy) – a coronamento di una precisa e insidiosa fisionomia. L’incertezza, che altro non è se non la ferma convinzione di trovarsi sull’orlo di un abisso, minaccia le fondamenta dell’affermazione identitaria, la sua parvenza di sicurezza, favorendo la pulsione nevrotica volta alla negazione – la famigerata demilitarizzazione ottenuta tramite la militarizzazione – di ciò che da tempo immemorabile costituisce il punto – geopolitico, filosofico, storico – di massima vulnerabilità, ambiguità e potenzialità: il margine.
Se le immagini delle recenti – e diverse – crisi di confine, da Gaza all’Afghanistan, a ciò che sta accadendo in questi giorni, mettono a nudo il continuum storico-visivo su cui si regge ‘l’immagine di un ‘ordine’’ (Benjamin) o l’immagine ‘dell’ente nella sua totalità’ (Heidegger), tale insieme, nella sua accezione totalitaria, sembra calpestare ancora una volta la radice imperscrutabile di ogni possibilità – l’impossibile, l’incalcolabile, la speranza in un mondo migliore. Guardando la schiera ordinata di combat boots esposti nella vetrina di un negozio di Kiev, sullo sfondo un teschio incorniciato da una combo di fucili speculari, e immaginando gli stessi fucili nelle mani di donne, uomini e ragazzi che ora si preparano a resistere, pare impossibile orientare il pensiero verso qualcosa che non sia la misera realtà di un ‘già dato’ che continua ad accadere in nuove sconcertanti figure, e tremendi gesti. In altre parole, pare impossibile pensare senza soccombere.
Quando le immagini ci convincono, ancora una volta, che l’uscita dal mondo sia impraticabile, impensabile, che non è possibile chiudere gli occhi ma che è necessario prendersi carico di ciò che non smette di accadere, ci si ritrova, di conseguenza, di fronte a un bivio. Da una parte, il silenzio tragico di un sé chiuso in se stesso, in ritiro dal mondo, tagliato fuori da ogni relazionalità; dall’altra, l’apertura totale verso l’abisso, l’esposizione radicale al disastro, la sua presa di coscienza – gesto che non appartiene all’ordine del possedimento, ma del pensiero. Farsi carico del mondo senza soccombere alla sua misera significa non smettere di pensare il mondo anche, e soprattutto, quando l’impensabile diventa realtà. Come aveva mostrato Rosenzweig[5], in modo meticoloso e magistrale, la via che passa per la rinuncia del tragico, storicamente, si biforca a sua volta negli atteggiamenti del ‘superamento’ e ‘dell’occultamento’ (del sé), incarnati rispettivamente dalle figure di Buddha e Lao-tzu. Atteggiamenti che, avverte Rosenzweig, culminano nello stesso risultato, ovvero in un’ ‘estinzione del sé’ che tuttavia non è totale, che non coincide con la completa sparizione. Nella rinuncia al tragico si apre, dunque, un’increspatura marginale che rigetta la scelta binaria tra l’immagine totale e l’assenza dell’immagine[6]. Alla luce di ciò, risulta evidente che la risposta al totalitarismo dell’ ‘immagine di un ordine’, ovvero alla continua successione di figure e gesti dal – e del – l’inferno, non può essere la semplice negazione, una sorta di iconoclastia del già dato – motivo, quello del rapporto immagine e iconoclastia, che in anni recenti ha trovato terreno fertile in una polifonia di voci filosofiche della scena francese[7]. È impossibile guardare oltre, ed è impossibile chiudere gli occhi. Che cosa vorrebbe dire, allora, pensare ancora il mondo senza soccombere?
A partire dal pensiero di Heidegger, e a seguito della sua prolifica rielaborazione nella tradizione filosofica all’imbrunirsi del ventesimo secolo, è stato ampiamente dimostrato che, se ‘l’immagine di un ordine’ altro non è che la confluenza e l’assimilazione di una serie di rappresentazioni in una dominante visione del mondo (Weltanschauung), ora il mondo si configura come l’eccesso – non la negazione – di tale insieme di rappresentazioni. Pensare le configurazioni di questo eccesso senza negazione e senza assimilazione, potremmo dire, equivale a mostrare che l’atto del non soccombere, la volontà di disintegrare l’immagine di un ordine, significa anche, in qualche modo, prendere coscienza dell’impossibilità di occultarne l’esistenza. Posizionarsi ai margini della scelta tra immagine totale e negazione vorrebbe allora dire assumere la postura che Thomas Bernhard, in un passo illuminante de Il soccombente (Adelphi, Milano, 1985), descrive come il più semplice e complicato dei gesti: lasciarsi andare, ‘abbandonarsi alla propria visione del mondo’, diventare Weltanschauungskünstler, letteralmente, un ‘artista di visioni del mondo’[8] – fondamentale il plurale. In questo senso di mancamento, in questo soccombere, si apre la strada che permette al narratore di non seguire il destino infausto di Wertheimer – il suicidio segnato dall’impossibilità del superamento di se stesso. Il non-soccombente è colui che, non solo cambia rotta – secondo l’inversione (Umkehr) Benjaminiana -, ma è capace di lasciarsi completamente andare, operando una cesura nell’equivalenza tra immagine e rappresentazione – mandando in frantumi la ‘fissazione’, l’immagine come ‘idea fissa di qualcosa’, che per Heidegger notoriamente coincideva con il gesto del porre ‘innanzi a sé’.
Diventare Weltanschauungskünstler significa forse, semplicemente, – ‘ma proprio questa è la cosa più difficile’ – porsi in eccesso all’immagine totale, senza rinunciare all’immagine. Questo nodo eccessivo è evidente nel composito letterale che affianca al carattere determinato della Weltanschauung il gesto indeterminato di un Künstler, e che ben riflette la co-appartenenza di possibile e impossibile, rivelando il volto dell’incertezza a fondamento di ogni visione che si pone in eccesso ad un soffocante pensiero di ciò che è dato. Il non-soccombente non è esattamente solo l’artista o il filosofo, ma la capacità di lasciarsi andare e di soccombere di fronte alla dismisura di un’immagine che non riproduce il visibile ma rende visibile, per dirla con Klee. Il non-soccombente è l’immagine di Werfel, l’orfano a cui la guerra aveva portato via tutto, tranne il sorriso. In questa nuova nebbia di dolore, la dismisura del mondo, e dell’arte, resta aggrappata ad una riserva di vita: il volto di un bambino che, sorridendo, si abbandonava alla visione di un mondo migliore.
Abbandonarsi alla propria visione del mondo altro non è che pensare lasciandosi soccombere, ovvero praticare, paradossalmente, una forma di resistenza tanto al silenzio iconoclasta quanto al delirio di rappresentazione. Il che significa, in ultima battuta, non soccombere mai.

[1] Walter Benjamin, Opere Complete. IX, I ‘passages’ di Parigi (Torino: G. Einaudi, [2000]), p. 610 ( S1a, 4)
[2] Benjamin, I ‘passages’, p. 609 (S1, 5)
[3] WIA, GC Warburg a Carl Neumann 22.1.1927, trad. it. di P. Sanvito, pubblicata in lingua originale da Andrea Pinotti – ‘Lettera di Aby Warburg a Carl Neumann, 22 Gennaio 1927.’ Rivista di storia della filosofia 60, no. 3 (2005): 525–39. http://www.jstor.org/stable/44024523 – in addizione a ‘La sfida del Batavo monocolo. Aby Warburg, Fritz Saxl, Carl Neumann sul «Claudius Civilis» di Rembrandt’. Rivista di storia della filosofia, 60, no. 3 (2005): 493-539
[4] Si veda la recente discussione del concetto – che, in apertura all’edizione speciale di seguito citata, trova un monito inquietante, in rapporto a ciò che sta accadendo, nell’immagine-presagio del ‘Patriot Park’ aperto in Kubinka nel 2015 – cfr. Kornelia Kończal & A. Dirk Moses ‘Patriotic Histories in Global Perspective’, Journal of Genocide Research, (2021): 1-5. https://doi.org/10.1080/14623528.2021.1968136; cfr. Jennifer Mitzen ‘Ontological Security in World Politics: State Identity and the Security Dilemma’, European Journal for International Relations, 12, no. 3 (2006): 341-370, p. 342. https://doi.org/10.1177%2F1354066106067346
[5] Cfr. Franz Rosenzweig La stella della redenzione trad. it. di Gianfranco Bonola (Casale Monferrato (AL) : Marietti, 1985), pp. 73-84
[6] Per un concetto di ‘distruzione creatrice’ al di fuori dell’alternativa tra ‘immagine assoluta’ e ‘divieto dell’immagine’ cfr. Federico Ferrari L’Anarca: la libertà del singolo tra anarchia e nichilismo (Milano: Mimesis, [2014]), pp. 27-35
[7] Per una panoramica critica delle diverse posizioni di rilievo (Ranciére, Nancy, Didi-Huberman) sul tema della proibizione dell’immagine (Bilderverbot) nel dibattito francese, vis-à-vis Hegel e Kant, rimando al bell’articolo di Emmanuel Alloa, ‘The Most Sublime of All Laws: The Strange Resurgence of a Kantian Motif in Contemporary Image Politics’ Critical Inquiry, 41, no. 2 (Winter 2015): 367-389. https://www.jstor.org/stable/10.1086/679080
[8] Ho modificato la traduzione proposta dall’edizione Adelphi – ‘esperto di visioni del mondo’ – per rendere il senso letterale della parola composita nell’originale tedesco
In copertina: Joseph Mallord William Turner, Goldau, 1841