È uscito da Cronopio (pp. 93, € 12) un piccolo gioiello (del quale proponiamo qui, per la cortesia di autore ed editore, alcuni estratti). Da più di un decennio Virgilio Sieni stupisce il mondo, non solo della danza, coi suoi lavori in duo con persone non vedenti; ora raccoglie i suoi pensieri su questa esperienza in un quaderno (accompagnato da testi critici di Fabio Fornasari e della curatrice Delfina Stella) che è una microscopica quanto vastissima summa sulla metafisica del gesto e del tatto. Potrà stupire che un discorso sulla cecità sia percorso da ekphrasis di capitoli eminenti della storia dell’arte, ma si sa come almeno da Aby Warburg a questa parte l’iconologia del gesto sia, di questa disciplina, parte irrinunciabile. Inoltre il pensiero di Sieni è profondamente nutrito di testi filosofici, e queste sue memorie di cieco si sostanziano di un’iconografia non tanto del contatto, in effetti, quanto della sia pur minima separazione fra l’io e l’altro, fra il soggetto e il mondo (come nei canonici Versicoli del controcaproni, squisita variazione su temi danteschi e petrarcheschi). È un paradosso eloquente che un testo fin d’ora memorabile, del pensiero sul sensibile, nasca da un’esperienza di deprivazione, minorazione, cecità. Ma lo spazio tattile, ci insegna Sieni, è lo spazio dell’accompagnamento e della condivisione («la condizione primaria dell’incontro»). Perché da soli siamo tutti ciechi.
Andrea Cortellessa
Siamo il corpo.
Lo abitiamo e come organismo sensibile siamo predisposti allo spostamento. Spostarsi è prima di tutto domandarsi quali sono le forme e le cose che ci accolgono. Amo pensare ogni volta a questo viaggio verso la natura che ci comprende. L’esperienza consapevole della quotidianità del gesto ci porta alla condivisione con l’altro, quando la pratica del movimento ci avvicina nella neutralità di un territorio sorgivo. Nell’attenzione al gesto, nella coscienza dell’atto danzato si crea uno spazio di conoscenza comune determinato dallo scambio di sguardi, movimenti, desideri e attese in cui è il corpo a determinare le aperture della relazione e del dialogo tra le persone.
Nell’ebrezza e nella purezza archeologica degli spostamenti (che giungono prima) il corpo è lo strumento che accoglie ed è accolto, agisce sulla soglia dei polpastrelli e dialoga con la lontananza, con la capacità che ognuno di noi ha di percepire l’aura delle cose. La tattilità è l’essere mossi e accogliere, è un evento che accade con gli altri e con le cose, è singolare plurale.
Il mondo adiacente al corpo
Sono vicino al corpo dell’altro.
Osservo, mi sento agito dai micromovimenti di Giuseppe e ogni piccolo dettaglio diventa un campo di attrazione, dove il movimento si forma attraverso i primi gesti che immediatamente e organicamente risuonano nello spazio.
L’intenzione si dirige sempre verso delle aree del corpo di Giuseppe e la scelta di focalizzarsi su alcuni punti definisce le declinazioni della danza.
All’inizio ho bisogno di visualizzare cosa avviene tra me e lui. Intorno si forma un insieme di riferimenti che permette di avvicinarmi e modellare lo spazio tra noi con toccamenti e sospensioni, percependo il corpo e lo spazio adiacente divenire tutt’uno. È una vicinanza che già mi comprende: percepire l’aura dell’altro è il gioco che origina il gesto che s’inoltra e si forma nella materia invisibile.
Per sensibilizzarmi sull’adiacenza ho bisogno proprio di visualizzare quell’intorno che non vediamo, né io né Giuseppe, e questo succede solo se riesco a fare un percorso che mi permette di conoscere questi luoghi, i canali di relazione e attesa.
Il corpo diventa un viaggio dove le strade s’incontrano e si mescolano trovando misure e tipologie che rispondono a un ordine sincronico. Dunque, il luogo del corpo si forma e muta grazie alla frequentazione di sguardi, toccamenti e adiacenze che agiscono come sentieri che mettono in contatto.

[…]
Osservando il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca sembra che le ondulazioni e le oscillazioni tra le figure, la natura e i corpi del dipinto siano raccolte nelle mani del Cristo che non si toccano.
Formano una chiostra che accoglie tutti i gesti e riceve pressioni e sguardi, adiacenze e luce da ogni situazione dipinta nel quadro. Lo spazio tra le mani non è né statico né immobile, è un atto di resistenza condiviso con gli altri personaggi: momentaneità infinita in cui osservare e toccare rappresentano l’inizio di un viaggio gestuale dove le mani sono custodi simboliche dell’evento del Battesimo.
Nell’opera coesistono e coincidono diverse qualità del gesto che rimandano alla ricerca tattile di Danza Cieca, ma quello che ci interessa è captarne non solo la forza magnetica ma l’origine: ecco che tutto si leva, tende a sollevarsi.
L’acqua che cola sulla fronte del Cristo e scorre sulla pelle esalta il volto antico, e non sembra spostare minimamente il suo corpo. La mano dell’angelo più prossimo all’albero di pero è appoggiata sulla spalla dell’angelo mediano che osserva il Cristo, rimandando così il nostro sguardo sul gesto simbolico. L’adiacenza delle mani, l’essere l’una di fronte all’altra resistendo al tocco, esalta la dimensione di accoglienza che si trasmette nelle figure intorno, muovendole delicatamente.
In questo rimando di azioni, Giovanni Battista mantiene la sua mano sinistra galleggiante, come a sospenderla su un cuscinetto d’aria che sembra essere lo stesso che sostiene il ventre del neofita mentre si spoglia sullo sfondo. Le colline, anche loro, patiscono i riflessi generati da un chiarore fatto della stessa sostanza dei corpi. Questa qualità di luce, comune al gesto e all’aura, non svela ma tende ad unire e congiungere le parti nascoste a quelle evidenti.
Sentirsi attraversati dalla luce e spostati dalla forza trasparente del gesto dona la condivisione dei margini, il fuoriuscire dal gesto precostituito. Così, l’acqua che s’interrompe proprio ai piedi del Cristo, risale alle sue mani che troviamo ancora nell’atto di congiungersi. Tale resistenza è il nutrimento dell’opera e del gesto che evapora in ogni suo infinito.
[…]
Intorno al tatto
[…] il toccare forma un archivio di gesti in ascolto che sembrano richiamare l’anima in una dimensione che trapassa dalla carne allo spirituale. Condizione che fa emergere l’“inaspettato”, uno stato in cui il dolore, il piacere e la tenuità dialogano con le declinazioni del movimento, con i minimi spostamenti articolari.
Danza Cieca, sia nell’invenzione di nuovi gesti che nella loro ripetizione, si misura con il tempo e si rinnova nello spazio dell’ascolto di tutte le sostanze che ritornano al corpo mutando il gesto.
La mano che posa sull’altro si fa ascoltare grazie ad un tempo che si prolunga oltre il tocco immediato ed è dunque il dipanarsi e il diffondersi del contatto il luogo nuovo dell’incontro.
Nascono percorsi fisici che hanno qualità sonore, di luce, di temperatura; qualità che nel loro percorso s’incontrano con l’inciampo, si verificano nell’errore e proprio in questo cammino costruiscono il gesto, l’architettura fragile e umana composta dalle forme nuove dell’essere e dell’agire nella tattilità del corpo.

Quale magnifico spazio tattile si crea tra la mano della Madonna e il piede del bambino danzante della Pala di San Zaccaria a Venezia di Giovanni Bellini?
Tra la mano…
Tra la spiga…
Tra la mano e la spiga…
Tra la spiga…
Tra la spiga e la man qual muro è messo?
Parafrasando i magnifici versi di Giorgio Caproni, nessun muro è messo nella ricerca del confine tattile tra la mano e la spiga, come tra il piede del bambino e la mano della Madonna. Parliamo di quello spazio intorno al tatto che apre le possibilità del gesto di compiersi. Il piede sollevato baldanzosamente, infatti, era poco prima nella mano della madre, la quale ancora porta l’impronta nel palmo: una postura che restituisce accoglienza, attesa e culla del desiderio di contatto.
In questo gesto nulla interviene perché il giovincello danza, gioisce al suono, si solleva dal palmo per ritornarci poco dopo e creare così un ritornello di risonanze: come la danza, un continuo tornare per procedere.
Questo movimento sembra dirci che la tattilità ha sempre una fonte ludica: un gioco che necessita di quella semplicità che con il diventare adulti, perdiamo o forse semplicemente dimentichiamo perché lontano dalla nostra frequentazione quotidiana.
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Materia invisibile e percepita
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Si danza l’arte del trasformare, dell’elaborare e restituire poeticamente materia invisibile e percepita. Si vuole dare vita a qualcosa che non è propriamente visibile, ma che prende forma nella relazione tattile dei due corpi.
L’invisibile è l’immateriale che nel suo lasciarsi attraversare e toccare assume l’aspetto di un alone che guida le mani, e con esse tutto l’organismo, nella costruzione di figure immaginarie. Una costruzione che emerge nel momento in cui si riconoscono i tratti dei passaggi, si rammentano gli attraversamenti e le traiettorie ripetute. È come se lo spazio fosse composto da un’infinità di particelle che tutte le volte incidono, coincidono, mutano, spostano, penetrano e attraversano il gesto.
Stiamo parlando dell’aura, di quell’intorno che crea una spazialità leggera, tenue e attraversabile, che arricchisce la visione nella lontananza e sollecita la percezione nella vicinanza. Un accadimento che s’inoltra nel tempo e giunge a noi come sorpresa, cogliendoci per la sua capacità di trasfigurare il corpo dell’altro in gesti di luce che ci toccano. L’aura, sorprendendoci e attraendoci, comprende l’essenza della persona capace di raccogliere in sé l’indicibilità della sua origine, espandendo verso il fuori questa potenza. Sembrerebbe scaturire da questo continuo rimandare all’altro, trasmettere e travasare, portare via e rinnovare. […]
Danza Cieca nasce per originare le cose che dall’attesa prendono vita: una sorta di iniziazione al contatto con l’invisibile in cui il movimento irrora la pelle del contatto con l’aria e con l’altro, commuove, definendo l’aura come presenza tangibile. […]

Lo spazio bianco nell’Annunciazione che Beato Angelico dipinge nella cella numero 3 del convento fiorentino di San Marco è una mappa creativa e spirituale, abisso ancestrale: è il niente e il tutto, ci comprende al suo interno sorprendendoci. È uno spazio bianco che unisce e che apre la sua materia invisibile alla creazione della luce. Uno spazio che, sottraendoci ad altro, genera un’attrazione tattile che rinnova lo sguardo: crea un vuoto malinconico di attesa e ascolto dal quale fuoriescono visioni dalla memoria. È una luce che tocca senza peso, che muove il corpo, che traspare, che divide. È forse un’aura?
Così Maria è un corpo luce, materia trasparente e leggera nelle articolazioni, nelle quali sparisce la gravità e la rotondità del ginocchio per far apparire una materia nuova che adagia la figura sospesa sull’inginocchiatoio. La figura dialoga con noi disponendo il suo peso sull’orizzontalità luminosa di piani immaginari che, esistendo nella nostra struttura anatomica, creano lo sfrenato desiderio di resistere alla forza di gravità.
A ben vedere, il bianco della pittura mostra delle screpolature che fanno venire in mente il Grande Cretto di Alberto Burri a Gibellina così come gli stupefacenti pannelli verdognoli posti da Carlo Scarpa come sfondo dell’Eleonora d’Aragona di Francesco Laurana al Palazzo Abatellis di Palermo. Sopra i ruderi della città crollata, una città costruita da mani, non si può far altro che cogliere la lontananza e la compassione dei gesti scomparsi ma che sempre appaiono; così la trasparenza del busto di Eleonora è toccata nei suoi margini dal verde verticale dei pannelli che, screpolandosi, aprono fessure e fughe alle spalle della duchessa benefattrice.
Nell’Annunciazione, sul Grande Cretto e nella stanza concepita da Scarpa per il busto del Laurana la materia ci avvolge nei dettagli del tempo aprendo crepe nell’animo. […]
Spazio tattile
[…]

In questi frangenti, anche la mano che mostra il suo palmo, o l’urlo sgomento e terrorizzato del giovane fanciullo nel Martirio di San Matteo del Caravaggio, diventano territori di riferimento per incorporare i significati profondi del movimento. Sono incessanti richiami e risonanze che tendono verso la creazione del vuoto, eliminando ogni volta gli scarti per avvicinarsi a ciò che muove lo scheletro. Scavando nella struttura del movimento scorriamo lungo le tracce segnate dal tempo e, come archeologi, ci appostiamo adiacenti ai gesti, intesi come reperti antichi e a volte dimenticati.
L’essere di fronte l’uno all’altro, sentirsi compresi e ospiti dello spazio, rende l’immobilità un meccanismo tenue che lavora artigianalmente per preparare il gesto. È dunque il sentirsi forgiati dagli elementi dello spazio e della memoria a far scatenare la caduta nel movimento. In queste traiettorie, vertiginosamente in risonanza l’una con l’altra, lo spazio diviene talmente denso di proposte che sembra muoversi in un campo abitato da pressioni e soffi.
Lo spazio tattile ci induce all’ascolto, una condizione del non fare, della sottrazione, atto di resistenza che prepara il tempo dell’azione. Ci ritroviamo in una condizione di contatto, non un vero tocco ma uno spazio che compartecipa alla costruzione di un “giardino del gesto”, una maieutica della danza che muove dall’archeologia sorgiva del corpo.
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Quando con Giuseppe ripassiamo o cerchiamo di ricordare il movimento appena composto, la descrizione si fonda sul ricordo di sensazioni tattili, memorie del corpo, necessità di incontro e di dialogo che si manifestano nelle variazioni comuni di qualità fisiche e animiche. Si parla di condurre l’altro verso una direzione, di percepire il calore della vicinanza prima di muoversi, di dare maggior peso nell’area del corpo e di sentirsi talvolta abbandonati nella ricerca dell’altro.
Lo spazio che ci comprende, il pavimento di cartone che usiamo e i suoni che ne scaturiscono, rappresentano la collettività del gesto. Sentire il perimetro, la frastagliatura di un margine, crea un campo di risonanza che durante la performance incide sulle nostre traiettorie, sui nostri passi.
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Lo spazio tattile è inteso come un proliferare continuo di luoghi, stanze che accudiscono la qualità dell’incontro dove le azioni sono scandite dall’attesa e dalla scoperta. I danzatori si fermano, sostano, sembrano aspettare il sopraggiungere del momento propizio: come cacciatori silenziosi mischiano i dettagli della vicinanza e con essi i passaggi racchiusi in ogni elaborazione del contatto.
Sono stanze poetiche che riaffiorano dal silenzio: la dimensione dell’ascolto suggerisce l’espandersi di uno spazio che lentamente comprende i corpi, tramutandoli in voci leggere. Il gesto assume così l’aspetto della trasparenza, si fa fragile e accoglie tutte le incrinature possibili del suo evolversi in altro. Ogni frammento diviene un luogo di risonanza che incessantemente prolifera in altre parti fino a costruirsi e a espandersi nel corpo. L’insieme di questi momenti, che inizialmente possono apparire separati, forma lo spazio tattile, quel luogo dove il gesto, nell’atto di creazione, non è immediatamente definito, ma necessita di un tempo per modellarsi. Si potrebbe dire che è lo spazio percepito, dove il linguaggio e la scrittura del movimento divengono inesauribili: l’infinito del gesto è la condizione primaria dell’incontro e si sviluppa grazie a un continuo rinnovarsi e mutare di un movimento nell’altro.
Nella stanza poetica niente è fisso, ogni elemento vive in uno stadio di fluttuazione e cambiamento. Il gesto iniziale è quasi un “capitato”, viene accettato nella sua immediatezza per poi iniziare una metamorfosi che lo porta a vivere, indossare, abitare diverse fasi di trasformazione.
La danza diventa un rito che da un lato assorbe l’indicibilità dei frammenti spaziali, dall’altro si rovescia in momenti intuitivamente vertiginosi. La frequentazione di questi rilievi tende a edificare delle architetture tattili, dove l’abitare determina il modo di costruire e condividere.
Lo spazio si apre nelle sue nodosità e lascia apparire una maggiore penetrabilità.
La mappa che ne scaturisce funge da guida primordiale e permette non solo di ritrovare le sostanze nascoste, che emergono perché “cullate” dal risuonare del tatto, ma anche di aprirsi in radure che continuano ad accogliere un contesto in mutazione, inarrestabile, infinito.
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Lo spazio tattile è formato dal corpo che abita e respira, dal diritto alla presenza, dalla relazione con l’altro, dall’attenzione rivolta al cambiamento e all’accoglienza. Il corpo politico muove i suoi passi dalla frequentazione del gesto. La tattilità è dunque la nostra capacità di ascoltarci e ascoltare, di estendere verso il fuori, pubblicamente, le restanze intime degli attimi condivisi, per costruire con il corpo gli spazi comuni e gentili di una cultura dell’abitare.
Tutte le immagini da Danza Cieca (copertina e gallery) sono di Paolo Porto