Denn das Schöne ist nichts als des Schrecklichen Anfang, den wirnoch grade ertragen
Il bello non è che il tremendo al suo inizio, che appena riusciamo a sopportare
Rilke, Elegie duinesi
Aurea flagellazione
Tra i quadri più commentati nella storia dell’arte c’è La flagellazione di Cristo di Piero della Francesca, esposto a Urbino. Fortuna dovuta certo alla presenza di personaggi enigmatici che paiono estranei al tema del quadro, ma anche al fatto che questo quadro esprimerebbe, secondo un parere alquanto condiviso, un tipico paradigma di bellezza.
Si è pensato a lungo – oggi molto meno – che proprio nel Rinascimento si sia voluto trovare una sorta di formula matematica della bellezza. E questa formula sarebbe quella della sezione aurea. Anche noi partiremo proprio da questo quadro così “discusso” per articolare un discorso sulla bellezza estetica. Bellezza non coincide certo con valore artistico, che, come è noto, può esserci anche nel rappresentare l’estrema bruttezza.
In effetti Piero fu un pittore-matematico. Oltre alla sua attività artistica, fu autore di trattati matematici e di geometria prospettica (De perspectiva pingendi, De quinque corporibus regularibus e un manuale di calcolo intitolato Trattato dell’abaco). Egli era esperto allo stesso tempo di geometria euclidea e di matematica tecnica. Piero è uno dei padri del moderno disegno tecnico.
Si connette la passione matematica di Piero a quella corrente neo-platonica che poi, con la generazione successiva a quella di Piero, finì col prevalere nella cultura fiorentina del secondo Quattrocento. Con tutta probabilità Piero fu influenzato da uno dei primi grandi artefici dell’umanesimo neo-platonico dell’epoca, il cardinale Giovanni (alias Basilio) Bessarione (1408-1472), autore di In calumniatorem Platonis. Anzi, secondo alcuni[1], Piero nella Flagellazione avrebbe rappresentato proprio Bessarione nelle vesti dell’uomo barbuto abbigliato alla greca, nella parte destra del quadro. Il platonismo quattrocentesco attribuiva grande importanza alla matematica, innanzitutto come retaggio orfico-pitagorico.
Il fascino che la matematica esercitava sui platonici deriva dal fatto che essa, pur investendo cose e spazi sensibili, le svela come strutture intelligibili. La geometria, “misura della terra”, attività del tutto pratica, d’altro canto esprime forme e relazioni che svelano idealità intelligibili in ciò che si mostra come sensibile.
Ovviamente Piero non poteva essere al corrente del De Divina proporzione di Luca Pacioli – l’opera che lanciò nel mondo europeo il culto della sezione aurea – perché questo trattato fu pubblicato nel 1497, e Piero era morto nel 1492. Ma, secondo alcuni, Piero utilizzava già la sezione aurea, non sappiamo fino a che punto consapevolmente, in alcuni suoi quadri, e specialmente nella Flagellazione. In effetti, Piero avrebbe capito che questa forma che ci dà un certo effetto emotivo – senso di eleganza e serenità – corrisponde a una proporzione che può essere colta anche con l’intelletto. Nella geometria, sensibile e intelligibile – che in altri casi appaiono scissi – si coniugano, e si svela il comando intelligibile (ideale) sugli effetti sensibili.
Si evoca così questo quadro di Piero come paradigma dell’ideale d’armonia del Quattrocento italiano. Abbiamo nella parte sinistra un quadrato (il pretorio dove Cristo viene flagellato) e nella parte destra un rettangolo con i tre misteriosi personaggi in primo piano. Questa divisione del quadro pare illustrare in modo esplicito un rettangolo aureo. Nella parte sinistra del quadro, poi, ritroviamo una divisione simile, se prendiamo l’asse del corpo di Cristo come lato divisorio tra due parti: quella quadrata a sinistra (Pilato seduto a sinistra, un turco ottomano di spalle che guarda la scena, il flagellatore di sinistra) e quella rettangolare a destra (il flagellatore di destra che alza la frusta per colpire).
Il motivo dei rettangoli regolari si ripropone in tutto il quadro: a sinistra, il soffitto a cassettoni rettangolari con rosette, il pavimento a intarsi anch’essi rettangolari. A destra, la piazza all’aperto è lastricata con grandi riquadri rettangolari di cotto incorniciati da una griglia in pietra bianca. Rettangolare è l’edificio marmoreo classicheggiante con inserti policromi, ripreso – pare – da un progetto di Leon Battista Alberti. Rettangolari sono le finestre del loggiato della torre che si vede sulla destra, e rettangolare è il palazzo rosato con la pertica appesa.
A questa (supposta) allusione continua al rettangolo aureo si aggiunge una sorta di simmetria, anche se non appariscente. Le misurazioni hanno mostrato che ricorre la medesima distanza tra le tre figure in primo piano, il livello della colonna centrale, la colonna di Cristo e la parete sullo sfondo. Le relazioni spaziali tra le figure generano quindi una simmetria non immediatamente percepibile.

Roberto Longhi disse di questo quadro che era “un sogno matematico” [2]. In effetti, il tutto ci dà un senso di severa eleganza, di austera raffinatezza monumentale, che contrasta con il contenuto principale del quadro, drammatico e brutale – una flagellazione.
Nel corso dei secoli, critici e storici, a proposito di questo quadro – ma a proposito di quasi tutta l’opera di Piero –, hanno fatto notare quanto la ricerca di armonia matematica sdrammatizzi l’oggetto della rappresentazione, anche quando si tratta della Passione di Cristo. Usando talvolta una terminologia psicoanalitica, si rimprovera a Piero – e in generale al Quattrocento – di “rimuovere” il pathos delle scene rappresentate, sia esso l’orrore dei supplizi, sia i corpi sensuali dei personaggi. In effetti, il tema esplicito di questo quadro non occupa né il centro né il primo piano della scena, ma è relegato in una posizione arretrata, mentre il primo piano è occupato dai tre austeri personaggi che non guardano la scena della flagellazione, e che paiono non accorgersene nemmeno. La costruzione “aurea” del quadro si rifletterebbe insomma anche nella messinscena rappresentata, che tenderebbe a risparmiarci il più possibile la dolorosa compassione per Gesù.
Un parto tranquillo
Piero esalta al massimo simmetrie e “divine proporzioni” per qualsiasi soggetto, non solo pietoso ma anche gaudioso. Il suo stile e il suo ideale – fare della pittura una sorta di architettonica “ben costruita” – sembra essere insomma del tutto indipendente dai soggetti che gli sono commissionati. Eppure ho l’impressione che Piero ecceda in regolarità proprio quando si tratta di soggetti particolarmente patetici. Questo è vero anche per la Madonna del Parto, dipinta per la chiesa di Monterchi e tuttora lì conservata.

A Monterchi vediamo una Madonna “con la pancia”, dato che all’epoca ovviamente non era pensabile rappresentare direttamente un parto, e tanto meno quello di Maria Vergine. Ma il titolo e le allusioni del quadro sono evidenti: il quadro non rappresenta un parto ma suggerisce la vagina impegnata nel processo del parto. Suggerisce insomma un’esperienza molto dolorosa eppur gioiosa.
In questo quadro, i due angeli perfettamente simmetrici aprono ognuno da un lato il tendone entro cui la Madonna era racchiusa: un’allusione chiara all’aprirsi delle grandi labbra della vagina e dell’utero che si produce nel parto. Il tendone stesso ci appare (solo oggi? o era evidente anche ai contemporanei?) un’allusione all’apparato genitale femminile, confermata dalla trapuntatura che fodera l’interno del tendone, e che sembra alludere a un interno ‘viscerale’. La Madonna inoltre ci indica con la mano destra uno squarcio nel suo vestito che lascia vedere la pelle, spacco che va dall’avvallamento del seno giù fino all’altezza della vagina (lo spacco unisce insomma i due luoghi più erotici del corpo femminile). Questa fenditura del vestito sembra ripetere in secondo piano quell’apertura del tendone operata dai due angeli, ribadisce quindi allusivamente l’aprirsi della vagina della partoriente.
Ora, questo quadro è particolarmente celebre perché qui Piero, attraverso una ieratica simmetria, ci suggerisce un evento drammatico dove dolore e gioia si intrecciano in modo inestricabile. A differenza di altre Madonne del Parto precedenti, dove si vedevano solo Madonne col pancione e con un libro (la Bibbia?) chiuso sul ventre, Piero osa qui significare esplicitamente un apparato sessuale femminile impegnato nel parto: l’armonica simmetria qui non ci allontana dall’evento sconvolgente, ma ne rende possibile l’evocazione. Grazie alla simmetria – inscritta nella struttura stessa del corpo umano – si rende rappresentabile qualcosa che non era decente rappresentare. L’horrendus vaginale è quindi non evitato, ma come incapsulato nella metafora pittorica.
Certo, quattro secoli dopo alla pittura è consentito rappresentare direttamente la vagina, come nel famoso quadro di Courbet L’origine du monde.

Dovremmo chiederci perché questo quadro di Courbet ci piace artisticamente, al di là di ciò che rappresenta. Forse anche il titolo dato dall’artista contribuisce a questo piacere, dato che esso evoca in fondo il parto, qualcosa di diversamente drammatico da un corpo femminile nudo. Sia il titolo del quadro di Piero che quello del quadro di Courbet rimandano a un parto che, appunto, non viene mostrato. A differenza del porno, che ci mostra direttamente “l’orrore sessuale”, il quadro di Courbet estetizza e quindi addomestica – non meno di quel che faceva Piero – la selvatichezza del sesso. Sdrammatizza la carica erotica del proprio oggetto, anche attraverso quel lenzuolo o camicia che avvolge il corpo della donna di Courbet, e che sembra incorniciarlo: la stoffa bianca distanzia il corpo sessuale da noi, allude a un disvelamento, ma anche, proprio per questo, a una intangibilità.
Tornando alla Flagellazione, mi chiedo se la scrupolosità matematica vada vista davvero come un modo per distoglierci dall’oggetto patetico, come per affogare nel rasserenante piacere artistico il trauma di una visione cruenta; oppure se non sia, al contrario, un modo per farci accedere diversamente all’orrore rappresentato. In effetti, se oggi questo quadro di Piero ci attrae tanto, è solo per la sua perfetta costruzione matematica? Oppure perché – proprio grazie a questa costruzione – qualcosa in esso ci inquieta, ci interroga in modo quasi unheimlich, spaesante, perturbante?
Perché Piero – ci si chiede – ha costruito questo episodio della Passione proprio in questo modo?
Silenzio e grido
Da tempo gli storici dell’arte non cessano di proporre interpretazioni di questo quadro così enigmatico, la flagellaziologia prosegue ancor oggi senza tregua. Non è questo il luogo per elencare le varie interpretazioni. Esse sono tante e tali, che si è tentati di dar ragione a quegli autori – come Aldous Huxley[3] o Creighton Gilbert[4] – che, rovesciando un po’ il tavolo storiografico, si rifiutano di vedere significati iconografici profondi nei vari personaggi; pensano che Piero si sia inventate le misteriose figure. In effetti, gli iconografi vogliono escludere l’inconscio dall’opera artistica: l’artista spesso è spinto a fare certe cose, ma non sa perché. E perché dovremmo saperlo noi?
Va detto però che le ricostruzioni più accreditate vedono comunque, almeno nella parte sinistra del quadro, un riferimento alla caduta di Costantinopoli in mano dei Turchi nel 1453. La flagellazione di Cristo si riproporrebbe allora come tortura della Cristianità, ferita dalla conquista mussulmana. Questo spiegherebbe il turbante del personaggio visto di spalle, e il fatto che Pilato abbia berretta e calzari rossi dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, morto nel 1448 (prima quindi della caduta di Bisanzio). Ma c’è da chiedersi perché l’imperatore cristiano dia le sue fattezze a Pilato aguzzino di Cristo, e perché il turco, anziché essere un flagellatore, si limiti a guardare la scena.
Lasciamo agli iconografi il furor interpretandi, e limitiamoci alla ‘lettera’ del quadro. I tre astanti sulla destra, austeri e silenziosi, ci interrogano. Sono figure particolarmente dignitose, anche se il giovane al centro con la veste rossa è scalzo. Sembrano impegnati in una conversazione, anche se le loro bocche appaiono chiuse – all’epoca era proibito, nelle arti plastiche, rappresentare bocche aperte per la parola o per il grido. Nell’arte classica, è rappresentato sempre e solo il silenzio. Questi personaggi ci appaiono autorevoli, sembrano avvolti in un’aura di saggezza. Ma del dramma di Cristo sembrano non accorgersi. Eppure il pretorio, dove si svolge il tormento, appare in continuità con l’esterno, non ci sono muri o porte a separarli, come se la flagellazione avvenisse all’aperto o quasi, come se quindi i tre astanti potessero vederla, se solo vi prestassero attenzione.
Una flagellazione che sta giusto per cominciare. In effetti, il corpo nudo di Cristo legato alla colonna appare ancora illeso, non si vedono segni e sfregi delle frustate sulla sua pelle bianca. Il supplizio comincia ora, la frusta del primo fustigatore rotea ancora nell’aria. I due testimoni – Pilato e il turco – guardano la scena, sembra di sentire il silenzio prima del colpo sferzante l’aria e poi la pelle, e prima del grido. Il quadro ci dà un’immagine del mondo circostante giusto prima che venga macchiato dal dolore.
Insomma Piero, attraverso la divina proporzione e le simmetrie, anziché distoglierci dalla Passione sembra voler mettere in scena proprio questo distogliersi. Voleva forse alludere al fatto che, alla sua epoca, il mondo cattolico si era del tutto distolto dalla caduta dell’impero bizantino, insomma indifferente al supplizio della cristianità? Non lo sappiamo. Eppure è proprio questo aulico distaccarsi dal dolore ciò che Piero ci restituisce, come a denunciarlo.
Non credo davvero che Piero mirasse a riportare l’evento atroce nel registro della composizione artistica, serena e pacificante. Paradossalmente, è proprio inscrivendo l’orrore dell’evento – flagellazione, parto – nella serena e rigorosa cornice matematica che l’artista ci dice “non credere che te la caverai beandoti di una magnifica e bella rappresentazione dell’Orrore!” È il rifiuto dell’arte di trasformare l’orrore reale in spettacolo accattivante. È il tentativo dell’arte di sfuggire alla seduzione dell’oscenità.
Ma l’orrore qui in gioco è, prima di tutto, matematico.
L’orrore dell’incommensurabilità
Piero, esperto di matematica, non poteva non sapere che i due lati del rettangolo aureo sono tra loro incommensurabili. Questo significa che è impossibile trovare un segmento come unità di misura che, per quanto piccolo sia, stia un numero esatto di volte in entrambi i lati. La relazione tra i lati ci darà sempre φ, un numero irrazionale (φ = 1,6180339…), il numero aureo.

Se in un rettangolo aureo togliamo la sezione quadrata, resta ancora un rettangolo aureo. E se a questo rettangolo aureo più piccolo togliamo a sua volta la parte quadrata, otterremo ancora un rettangolo aureo… E così all’infinito. Ovvero, non giungeremo mai a un quadratino definitivo, minimale. Avremo sempre e solo rettangoli aurei più piccoli. Insomma, non troveremo mai qualcosa che chiuda il processo. Siamo aperti su un abisso di minimalità. In effetti, date due grandezze incommensurabili, un’unità di misura che permetta di misurarne esattamente una, non permette di misurare esattamente l’altra; e viceversa.
Per questa ragione la sezione aurea è anche rappresentata da una forma spiralica, connessa alla cosiddetta sequenza di Fibonacci[5]. Si tratta di una spirale virtualmente infinita, in entrambe le direzioni. Si ritrova questa struttura in molte conchiglie, ad esempio.

All’epoca di Piero, l’incommensurabilità non lasciava indifferenti. Si dice che i Pitagorici, quando scoprirono l’incommensurabilità, ne furono profondamente scossi. Essi avevano scommesso sul fatto che nel mondo tutto fosse misurabile e quindi commensurabile, per cui ammettere l’incommensurabilità – acquattata proprio nel cuore di quel che sarà chiamato “divino” rettangolo aureo – era qualcosa per loro di inquietante e vergognoso, da tenere segreto. Giamblico[6] scrive che quando uno di loro rivelò la natura dell’incommensurabilità a non-matematici, i Pitagorici ne furono talmente indignati che lo cacciarono dalla loro società e gli costruirono una tomba per significarne la morte. Perché aveva rivelato ai profani l’alogon, il “non discorsivo”, l’irrazionale diremmo oggi. All’epoca, insomma, l’incommensurabilità creava nei matematici un senso di orrore.
Ora, è evidente che l’incommensurabilità non può essere rappresentata, essa può essere solo evidenziata attraverso ragionamenti. Insomma, l’incommensurabilità è un’evidenza intelligibile, non sensibile. Come un pittore potrebbe mai rappresentare visivamente – se lo volesse – l’incommensurabilità in quanto tale? Mentre la sezione aurea ci dà un certo effetto emotivo – una sensazione di equilibrio – l’incommensurabilità non è percepibile. Sarebbe come se un pittore volesse rappresentare l’infinito.
Eppure ci sono mezzi visivi per suggerire l’infinito. Uno è quello che i francesi chiamano mise en abyme: quando abbiamo un’immagine che contiene come suo particolare questa immagine stessa. Si intuisce che si viene a creare potenzialmente un processo ricorsivo infinito. Non a caso, ogni volta che ci troviamo di fronte a una mise en abyme una vertigine intellettuale ci scuote.

E se fosse possibile suggerire anche l’incommensurabilità? Certo, ricorrendo proprio alla sezione aurea. Essa a suo modo mostra l’orrore dell’incommensurabilità.
Così, la struttura della Flagellazione allude – ne fosse Piero consapevole o meno – proprio a qualcosa di incommensurabile. A sinistra, nel quadrato (l’interno) abbiamo una scena dolorosa e sadica; a destra, nel rettangolo (l’esterno) abbiamo una scena tranquilla e amichevole – il contrasto è massimo. La nostra prima impressione è appunto “ma cosa c’entrano questi tre gentiluomini, in questa bella città quattrocentesca, con la Passione di Cristo?”. Appunto, non c’entrano. Le due scene stanno insieme, anzi, si tratta dello stesso spazio, dato che il pavimento a rettangoli rossi dal pretorio si prolunga nella piazza o strada esterna. È uno stesso spazio continuo, eppure le due scene sono aloga. Due mondi che sembrano estranei l’uno all’altro. Insomma, nella scena del quadro qualcosa non quadra. Ciò che quadra è il quadrato, figura regolarissima e non curva, unità di misura di ogni area così come il cubo lo è di ogni figura solida. Ciò che quadra è il misurabile, che contiene solo quadrati. Ma la sezione aurea squadra il quadrato.
Questo accostamento tra le due scene può davvero essere interpretato come una significazione di incommensurabilità?
Notiamo che la scenografia del quadro non è ‘chiusa’ da nessuna parte. Nella parte destra, dietro i tre astanti vediamo case e un campanile con finestre: immaginiamo un mondo di interni. Nella parte sinistra, la scena non è chiusa da un muro, che le darebbe una connotazione claustrale, ma aperta su due porte, di cui una è chiusa, mentre l’altra è aperta e lascia intravvedere una scala. Sia a sinistra che a destra gli ambienti transitano verso spazi più interni, più intimi; lo spazio è descritto come aperto, pubblico, ma si apre verso penetrali domestici. Possiamo insomma immaginare, con un po’ di fantasia, che le proporzioni auree – un rettangolo diviso in un quadrato e in un rettangolo aureo – proseguano oltre verso l’interno, tendenzialmente all’infinito. La proporzionalità è ricorsiva, essa pare promessa in luoghi che non vediamo ma a cui si accenna. Piero ci fa intravvedere il miraggio di un mondo tutto proporzionato, anche nei minimi particolari. Ma egli sapeva che ci sarà sempre un resto, uno scarto, un inquietante più o meno, in cui consiste l’incommensurabilità. Insomma, non tutto può essere regolato, rappresentato, come divina proporzione o simmetria. Non tutto quadra. Il corpo di Cristo segna non a caso geometricamente la divisione tra il rettangolo e il quadrato entro il pretorio: alla divisione geometrica corrisponde una discrasia della rappresentazione.
La flagellazione sta per iniziare nel silenzio: sappiamo che da lì a poco non avremo alcuna armonia, ma carni umane escoriate e sanguinolente. È come se Piero ci dicesse: “ho voglia di rappresentare armonicamente quanto voglio, resta che il supplizio va al di là di ogni rappresentazione!”.
Qualcosa di simile avveniva nella Madonna del Parto: come ignorare il fatto che l’equilibrio e simmetria delle figure rinviino all’oscenità del parto, a uno squarcio vistoso, sanguinante e doloroso del corpo? Chi mai direbbe che quella del parto è ‘una bella scena’? Può commuovere, persino intenerire, ma certamente non è bella. In entrambi i casi, la rappresentazione pittorica ci ‘punge’ quindi non solo per la composizione divinamente proporzionata, ma proprio perché questa serena proporzione inscrive qualcosa che solo a stento può essere rappresentato, o niente affatto rappresentato: l’evento come disordine e dolore.
La pittura rappresentativa è insomma il logon – razionale e discorsivo. Ma respingeremmo questa pittura rappresentativa come edulcorata bellezza se la pittura non suggerisse, in vari modi, il suo inscrivere o indicare qualcosa oltre la rappresentazione, qualcosa che mai potrà essere rappresentato, sia perché osceno (l’atto sessuale, gli organi genitali, il parto) sia perché troppo penoso. L’arte ci dispensa insomma sia dalla praxis che dal pathos, sia dall’agire che dal patire in prima persona, rappresentandoci esseri che agiscono o patiscono, ma calando tra l’evento pratico-patico e lo spettatore il velo della bellezza, la consolazione effimera ma robusta dell’ordinamento. Gli studiosi del caos e della complessità dicono spesso che il mondo che studiano le scienze, e la stessa vita sulla terra, sono strutture “sull’orlo del caos”. Analogamente, potremmo dire che l’arte ci punge, ci scuote quando essa ci fa godere “sull’orlo dell’orrore”.

Molti storici e psicologi, come abbiamo visto, non vedono affatto questo horror. Per loro l’arte è tutta sul versante della bellezza – ovvero dell’ordine e dell’armonia. Ma non si rendono conto che questo versante è solo una faccia della medaglia: l’altra è proprio ciò da cui il bello armonico ci distoglie, e che pure viene suggerito, spesso solo in absentia, dalla rappresentazione stessa.
Questo è vero anche per la bellezza biologica. Si prenda la bellezza di uomini e donne. Forse essa è correlata a certe proporzioni tra parti del corpo. Ma, se consideriamo la bellezza come attrattiva sessuale, è evidente che questa bellezza assume un’altra funzione: evoca anche gli organi sessuali del bell’uomo e della bella donna. Questi organi non rispettano la buona proporzione, e di solito gli esseri umani li celano alla vista. E li celano non perché questi organi siano brutti, ma perché sono il fulcro attorno a cui gira la giostra della bellezza, come se la bellezza fosse una spirale che porti verso il sesso.
Ma anche se consideriamo bellezze asessuate, ci colpisce il fatto che esse ci portino verso una praxis e un pathos che la bellezza segnala e ricopre. Ad esempio, un bambino è bello nella misura in cui suggerisce fragilità, così come la suggeriscono certe donne che proprio per questo appaiono belle. La bellezza infantile ci convoca insomma alla difesa del debole, all’assistenza dei bisognosi, a qualcosa che la bellezza segnala ma non esaurisce affatto. La bellezza umana o animale allude a qualcosa di horrendus: all’atto sessuale o all’attacco al bambino inerme. La bellezza è un grido di allarme.
Notiamo che orrore viene dal latino horror, che significava il diventar ispido, l’arricciarsi, il rabbuffarsi; ma anche brivido di febbre o di paura. Esso aveva anche il senso odierno di spavento raccapricciante, ma esteso al timor sacro. Divina voluptas percipit atque horror[7], scriveva Lucrezio, “percepì voluttà e terrore entrambi divini” mentre contemplava la natura. L’horror può essere godimento: come scriveva Stazio, “laetusque per artus horror iit”[8], “un brivido di gioia gli scorreva per le membra”. Horrendus significava quindi orribile, spaventoso, ma anche – proprio per questo – mirabile, bellissimo. Horrenda virgo, scrive Virgilio, “ragazza meravigliosa”[9]. Orrore è rugosità scabrosa, qualcosa che si oppone al liscio, ma anche atroce e mirabile al tempo stesso, o in situazioni diverse.
Certamente è sempre esistito un fascino delle scene orrende, da qui l’ambiguità dell’horror latino. L’Iliade, che si fa studiare a scuola ai fanciulli come poema fondativo della cultura occidentale, è in gran parte una descrizione di orrori della guerra. Oggi, i film di guerra e quelli del genere horror affascinano oggi come sempre è stato. Oggi abbiamo l’alibi auto-assolutorio che si tratta di finzioni, di “arte”. Ora, gli orrori della guerra o delle catastrofi sembrano negare ogni bellezza, ma il fatto di sopportarne la vista restituisce di per sé a questi orrori una bellezza speciale, come se la sopportazione trasformasse il rumore cacofonico dell’orrendo in un’attrattiva di livello superiore. Gli esseri umani rappresentano e ripetono l’orrendo per trarne godimento, ed è allora il godimento non di un bello ma di un sublime, nel senso proprio di sublimis, che significava sia il molto alto che il molto basso, ciò che, in verticale, è il più lontano dal piano in cui Ego sta. Bellezza e orrore, due modi di dire l’inumana distanza da noi.
[1] Carlo Ginzburg, Indagini su Piero, Torino, Einaudi, 2001. Silvia Ronchey, L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e le crociate fantasma nella rivelazione di un grande quadro, Milano, BUR, 2006.
[2]Piero della Francesca: 1927: con aggiunte fino al 1962, Firenze, Sansoni, 1963.
[3] John & Aldous Huxley, The Piero Della Francesca Trail / The Best Picture, Pope-Hennessy, The Little Bookroom, New York, 2002.
[4] Creighton Gilbert, Change in Piero della Francesca, J. J. Augustin, Locust Valley, N.Y., 1968.
[5] La sequenza di Fibonacci è una sequenza di numeri in cui ciascun numero è la somma dei due numeri che lo precedono. Ovvero: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13….
[6] Vita di Pitagora, par. 34 (246).
[7] De rerum natura, III, 28.
[8] Theb., I, 490.
[9] Lo dice di Camilla (Aeneid., XI, 507). Horrenda lo dice anche della Sibilla (VI, 10) e di Giunone (VII, 323).
In copertina: Piero della Francesca, Flagellazione di Cristo, 1453 ca.