Bisogna salvare il dannato?

I

«Che ci sta a fare questa statua qui? Cristo sono io e sono vivo, sono il Cristo reincarnato, distruggete tutti i suoi simulacri» grida Laszlo Toth a chi lo sta interrogando. È il 21 maggio 1972. Armato con un martello da geologo, Toth si è da poco scagliato contro la Pietà di Michelangelo, sfigurandola.  Sin dal momento del suo internamento in manicomio, l’analisi storica ha archiviato il gesto di Toth dietro il facile pretesto dell’opera della distruzione, allo stesso modo in cui Pietà è stata sequestrata dietro una parete di vetro protettivo. Eppure, la presa in visione di quanto descritto ci mette di fronte a una vera e propria sfigurazione interpretativa, a un modo obliquo di porre la domanda attorno al gesto negativo: salvare la distruzione o distruzione che salva?

II

In altre parole: come abbattere una statua, un tiranno?  Come compiere integralmente l’opera della distruzione? Se il vetro della Pietà può dirci qualcosa nella sua apparente trasparenza, è che l’assalto di Toth non ha a che fare con la completa eliminazione, ma con l’istituzione di un resto che rimette in evidenza l’oggetto stesso dell’abbattimento. È una distruzione che salva.  Lontano dal trionfo, un’altra lettura emerge: venendo meno al suo mandato più certo, la distruzione non trova salvezza nel fatto compiuto, ma è fatta salva nella pratica di un continuo incompiersi.

III

Secondo una leggenda che ispirò il pittore Evariste Vital Luminais, gli “snervati” di Jumièges sono i due figli del re Clodoveo II: colpevoli di aver attentato alla vita del padre, furono prima puniti con la bruciatura dei tendini delle gambe e poi abbandonati su una zattera lungo la Senna. I due giungeranno infine al monastero di Jumièges, dove prenderanno i voti – rovesciando la loro condanna in destino. Osservando la maniera pittorica in cui Evariste Vital Luminais ci tramanda questa leggenda, potremmo dire che la rivolta contro il potere inizia esattamente nel punto in cui la violenza è snervata oltre ogni sua possibilità di violenza: non si dà come affermazione di un atto di forza, bensì come suo trapasso. Proprio attraverso questo trapasso le cose deboli «svergognano» le cose forti.

Évariste-Vital Luminais, Les Énervés de Jumièges (1880)

IV

«Quando, nonostante un corpo in salute, uno arriva a desiderare di essere disabile: solo in quel momento si muove un primo passo verso il butoh». Questa considerazione appartiene a un testo di Hijikata Tatsumi – l’ideatore del butoh – scritto nel 1969: From Being Jealous of a Dog’s Vein. Fin dalle sue prime espressioni, il butoh non solleva dalla disgrazia: la salva, ridanzandone le possibilità.  È un atletismo dell’inciampo, un librarsi in volo, ma in croce, come nella Leggenda minore di San Bonaventura, dove Francesco – atleta di Cristo – riceve le stimmate in seguito alla visione di un serafino: non solo alato – «anche crocifisso». Racconta il santo di Bagnoregio: «La visione […] lo infiammò di ardore serafico nell’interno dell’anima e impresse, all’esterno, come un sigillo, sulla sua carne l’immagine perfettamente somigliante del Crocifisso: come se la potenza divina prima l’avesse fatto liquefare e poi vi avesse stampato il suo sigillo». Il butoh danza l’immagine di un disfacimento, la liquefazione di un ordine degli organi, e ci fa testimoni (martiri) di un’altra impressione del possibile: quel sigillo difforme, stampato sulla pelle, che rende irrisolvibili e -proprio per questo- pieni di grazia.

Hifikata Tatsumi in Keijijbgaku, foto di Nakatani Tadao (1967)

V

In alcuni appunti contenuti in Mai senza l’altro, Michel de Certeau riflette così sulla figura del martire: «Ma se, accettando di morire per non rinnegare ciò in cui crede, il martire è ispirato dalla propria fede a rispettare in chi lo giudica la verità stessa che egli difende e a riconoscere attraverso di essa la legittimità (ma non la decisione) del potere che lo schiaccia, allora la sua morte ha in sé un valore universale e già riconciliatore».  Nel darsi all’annientamento – senza per questo distruggere l’Altro – il martire diventa la testimonianza di uno scarto che non coincide interamente con la causa del potere, ma neppure ne rinnega l’esistenza. Egli mantiene una distanza già conciliata con la propria incolmabilità e, così facendo, salva in questa morte l’avvenire stesso di ogni distanza, di ogni diserzione.

VI

Esattamente come il distruggere, anche il salvare pone la questione del suo compimento integrale: un “salvare” pensato oltre la categoria del presente, capace di torcersi verso tutto quanto è già trascorso e dannato. Nella quiete dell’irredimibile, udiamo un suono di protesta. È la voce sottosopra, la voce del Lenz di Büchner: «Ma io, se fossi onnipotente, vede, se io fossi così, non potrei sopportare il dolore; dovrei salvare, salvare».

VII

Secondo la dottrina origeniana dell’Apocatastasi, la salvezza alla fine del mondo è un fatto universale: quand’anche fosse esclusa una sola creatura, la restaurazione (apokatastàseos) non potrebbe compiersi. Come leggiamo nei Princìpi, per Origene la dannazione ha un carattere unicamente provvisorio: «Pertanto, se alla fine del mondo, che sarà simile all’inizio, sarà restaurata quella condizione che la natura razionale aveva quando non aveva ancora sentito il bisogno di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, una volta allontanato ogni senso del male, allora per la creatura, tornata ad essere pura e incontaminata, Colui che è l’unico Dio buono diventerà tutto. E non solo in pochi o in molti, ma in tutti Dio sarà tutto, quando ormai non ci sarà più la morte, né il pungiglione della morte, né più il male, assolutamente. Allora veramente “Dio sarà tutto in tutti”» (I Princìpi, III, 6,3). Condannata come eresia durante il secondo Concilio di Costantinopoli, la dottrina dell’Apocatastasi conosce numerosi periodi di risorgenza, arrivando ad affascinare anche Walter Benjamin, che ne parla nelle sue considerazioni sull’opera dello scrittore russo Nikolaj Leskov: «egli era molto influenzato da Origene. […] In armonia con la fede popolare russa, interpretava la resurrezione, più che come una trasfigurazione, come la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello della favola» (Il narratore). In un tempo di rifiuti perentori e moralistici, questa interpretazione può esserci utile per non respingere tutto quanto è dannato. Se la dannazione è propriamente ciò che si mantiene senza rimedio, come fare salvo il “dannato” oltre il compito della salvezza? Occorrerà liberarlo dal marchio del disimpiego, dal fondo di un inattingibile, conservandone, tuttavia, la tenacia tensiva, irrimediabile. L’Apocatastasi (la sua archeologia) diventa qui una performance della redenzione: non più come annullamento, mandato della pace, ma come liberazione da un incantesimo.

VIII

Prima di esiliarsi dalla scena pubblica, Shulamith Firestone era considerata una figura centrale della seconda ondata del femminismo statunitense. Nel 1970, “the American Simone de Beauvoir” aveva dato alle stampe The Dialectic of Sex: The Case for Feminist Revolution; in questo libro ancora imprescindibile, Firestone muove una critica diretta a Marx ed Engels, che non erano stati capaci di riconoscere il carattere psicosessuale dei processi storici e la tirannia della famiglia biologica, con i suoi miti sentimentali, le sue proibizioni, il suo imperativo riproduttivo. Firestone intuisce che le categorie oppressive a cui fa riferimento nascono nel culto della “natura” e si riproducono insieme al sistema che le ingenera, essendo passivamente performate; per superarle, bisogna spingersi oltre, riformare la “natura” stessa. Secondo l’autrice della Dialettica dei sessi, l’eliminazione non è mai semplicemente una cancellazione definitiva, ma un una ridiffusione o un repurposing (tema oggi ampliamente sviluppato dallo xenofemminismo di Laboria Cuboniks): «quando chiediamo l’eliminazione dell’erotismo, non intendiamo l’eliminazione della gioia sessuale e dell’eccitamento, ma la sua ridiffusione nello spettro delle nostre vite». In quest’ottica, i mezzi tecnologici del capitalismo diventano risorse per una pratica immaginativa che disoccupi l’essere umano dalla schiavitù del lavoro: un repurposing in cui riaffiora -come del resto in quasi tutto il saggio – il sogno di quella che «gli antichi chiamavano l’epoca messianica». Persino la figura dell’albero della conoscenza del bene e del male, già trattata con Origine, riappare verso la conclusione: «la doppia maledizione dell’umanità per aver mangiato la Mela della Conoscenza – ovvero che l’uomo avrebbe faticato col sudore della sua fronte, e la donna avrebbe partorire nel dolore e nel travaglio – può essere ora sciolta proprio attraverso il duro impegno dell’essere umano». Con ancora più audacia, Firestone affronta la questione del Maschile e del Femminile: «il risultato della rivoluzione culturale dovrà essere […] la reintegrazione del Maschile (la modalità tecnologica) con il Femminile (la modalità estetica), così da creare una cultura androgina che possa essere qualcosa più che la somma delle sue integrazioni». Firestone non evita il confronto con queste categorie dannate; sceglie piuttosto di giocarne le genealogie, di complicarne ulteriormente il carattere; così facendo, le rimette in movimento, liberandole.

Un fotogramma dal film Shulie: Shulamith Firestone (1967)

IX

Partito dall’Inghilterra alla volta di Parigi, che però lo delude per la sua arrogante ignoranza, Daniele di Morley si reca – attorno alla metà del dodicesimo secolo – a Toledo, dove può apprendere gli insegnamenti dei filosofi arabi, che lui considera i più dotti al mondo. Non è il solo pensatore ad avere questa opinione sugli influssi orientali, in un periodo di rinnovamenti e grandi incorporazioni. Tornato in patria, Daniele racconterà dei suoi viaggi a Giovanni di Oxford, vescovo di Norwich, spiegando in questi termini le ragioni che lo hanno portato ad assimilare le conoscenze dei filosofi pagani, e non più soltanto le lezioni dei Padri della Chiesa: «Talune delle loro parole, essendo, come sono, piene di fede, meritano di essere incorporate al nostro insegnamento. […] Spogliamo dunque in conformità al comandamento del Signore e col suo aiuto i filosofi pagani della loro saggezza e della loro eloquenza, spogliamo questi infedeli in modo da arricchirci delle spoglie nella fede». Ben lontani dalle cancellazioni, in queste righe fulminee facciamo prova di un’idea di liberazione dall’infedeltà che non ci priva dell’oggetto infedele. Vestendo per spogliamento, il sapere – pratica nuziale delle distanze – assume la forma di un interminabile corredo di inquietudini.

X

Che farsene di queste inquiete vesti? Siamo di nuovo agli inizi degli anni settanta quando vediamo Mario Mieli posare – superbamente agghindato – in un balcone “carico” di radical chic, simile per spirito alla Salomè di Laforgue, che «s’era fatta squadrare dei diamanti esatti per disseminarli nella capigliatura» e «sulla camicia da notte onde conferire a quattr’occhi sulle terrazze con i suoi ventiquattro milioni di astri». Il commento alla foto è un colpo di ventaglio dato tra le stanze blindate della Storia: I radical chic e lo chic radicale. Più tardi, in Elementi di critica omosessuale, Mieli rivendicherà con ancora più vigore la libertà d’incipriarsi di pollini sconosciuti, di «pescare nella (prei)storia e nelle pattumiere, le tenute di ieri, di oggi e di domani», siano esse cravatte o guaine di leopardo, borchie o biberon. In questo esplicito rifiuto del “normale travestitismo”, Mieli non manca di rivolgersi alle compagne femministe, esortandole a non distruggere le vesti che avevano rifiutato in quanto insegne dell’oppressione. Il passaggio esaminato ravviva l’ipotesi di un’archeologia come perfomance (opera) della redenzione: «Che una donna, oggi, appaia come la cover-girl di “Vogue”, sarà in genere antifemminista e reazionario; ma che un uomo gay si vesta come gli pare e piace, esprimendo audacemente la propria fantasia, che il capitale ha relegato e reificato nelle tristi pagine di “Vogue”, ebbene questo è ancor oggi un fatto che ha in sé una certa dirompenza rivoluzionaria. Noi siamo stufi di travestirci da uomo. Le vesti che rifiutate, care compagne, non bruciatele, potrebbero servire a qualcuno: noi le abbiamo sognate da sempre». Le vesti, iniziate alla seconda vita, servono così un altro destino, trattenendo, nel loro intricato inviluppo, una carica di tensioni mai totalmente dispiegabili. Liberate – ma non risolte- possono finalmente essere usate per danzare:«da tempo, inoltre, vorremmo invitare le città, le periferie, al grande ballo delle debuttanti».

Mario Mieli, I radical chic e lo chic radicale, Fuori!, n. 7 (1973)

XI

De arte saltandi et choreas ducendi (De la arte di ballare et danzare) è un trattato composto nel 1416 da Domenico da Piacenza, uno dei più noti maestri di danza del quindicesimo secolo, attivo per lungo tempo alla corte ferrarese degli Estensi. In questo scritto, accanto agli altri elementi dell’arte della danza (mexura, memoriae, agilitade, mainera, mexura de terreno), Domenico introduce il danzare per fantasmata, materia tutt’oggi interrogata: «Dico a ti che chi del mestiero vole imparare, bisogna danzare per fantasmata. E nota che fantasmata è una prestezza corporale, la quale è mossa cum lo intelecto del mesura […] facendo requie a cadauno tempo che pari aver veduto lo capo di medusa, como dice el poeta, cioè che facto el moto sii tutto di piedra in quello istante e in istante metti ale come falcone che per paica mosso sia». Fantasmata è il respiro colto tra l’impietramento di Medusa e il volo di un falcone che s’avventa sulla preda, la figura di una immobilità tensiva, la forza di un arresto in movimento, come un’onda pietrificata nell’istante in cui s’infrange sulla riva. Nelle parole di Ingrid Brainard: «der dynamisch spannenden Kraft der Bewegungspause» (Die Choreographie der Hoftănze); in quelle di Giorgio Agamben: «una tensione carica di motilità» (Per un’ontologia e una politica del gesto). Il danzare per fantasmata spezza il chiuso delle cronologie, il primadopo disgiuntivo, salvando l’entrata nel tempo: un tempo sgomentato (la Medusa di Rubens), di annodamenti e slogamenti, come in un intreccio di serpenti.

La Medusa, Pieter Paul Rubens (1618)

XII

Coperta di pittura, di plastica, di corde e di serpenti, Carolee Schneemann espone se stessa di fronte alla macchina fotografica, come «estensione» del proprio lavoro pittorico. Il titolo dell’opera, poi divenuta fondante: Eye Body: 36 Transformative Actions for Camera.  Il corpo messo in scena: una superficie che si pensa ancora «erotica, desiderata-desiderante», e allo stesso tempo votiva, marchiata dai flussi, scritta nelle membra della carne da un concentramento di tempi e fantasmata che s’arrestano nevroticamente nell’immagine fotografica, per poi subito spietrarsi, mandando all’aria le vocazioni cronologiche. La stessa Schneemann ammetterà di essere arrivata in ritardo nella decifrazione cosciente della propria opera: «otto anni dopo [Eye Body è del 1963], le indicazioni delle immagini corporee che avevo esplorato sarebbero divenute chiare studiando i manufatti della “dea della terra” risalenti a quattromila anni fa» (More than Meat Joy). Passando in rassegna gli scatti, vediamo Schneemann fare usodel corpo come una psicolanda, un territorio visivo, un theatro della memoria (e non solo di posa) dove si salvano e si saldano insieme – nell’istante di uno scatto – le più disparate incrostazioni temporali, i formicolii archetipici, le posture ideologiche, le esternità convocate a un subitaneo convivere. Schneemann è, in tutti i sensi, un olobionte pulsionale e culturale, un’aberrazione vivente, veniente – ancora a venire.

Carolee Schneemann, Eye Body: 36 Transformative Actions for Camera (1963)

XIII

Come definire un’aberrazione? Forse come una specie di tenacia implacabile, di fede furibonda nella polvere degli eventi o nella verità di un inciampo; come una deformazione capace -nel tempo- di fare del rigore l’esercizio del suo attorcigliamento. Dice Jurgis Baltrušaitis: «[…] Le aberrazioni corrispondono a una realtà delle apparenze e posseggono un’innegabile facoltà di trasfigurazione. La vita delle forme dipende non soltanto dal luogo in cui esse esistono realmente, ma anche da quello in cui vengono viste e si ricreano» (Aberrazioni). La storia di una aberrazione è spesso la storia di un dettaglio, o persino di una data, come quella che per secoli venne esibita sulla prima pagina della Genesi nella Bibbia di re Giacomo: 4004 a.C., anno della creazione del mondo. Il calcolo proviene dal libro Annales Veteris Testamenti, a prima mundi origine deducti (Annali dell’Antico Testamento, a partire dalla prima origine del mondo), pubblicato nel 1650 da James Ussher, arcivescovo di Armagh e primate dell’Irlanda. Un’opera suntuosa, che ricostruisce la cronologia del mondo attraverso un’interpretazione letterale degli eventi della Bibbia, e che per la precisione riporta una data ancora più certa: il mondo sarebbe stato creato al tramonto precedente domenica 23 ottobre del 4004. Ma come è possibile che un pensatore del XVII secolo confidasse in un dato chiaramente inverosimile? A tal proposito, la più commovente difesa della dignità di Ussher giunge non da un teologo, ma da un noto divulgatore scientifico, docente di zoologia e geologia all’università di Harvard: Stephen Jay Gould. L’articolo è prodigioso sin da titolo: Fall in the House of Ussher. Pur non potendo concordare con il calcolo,  Gould evita di ridicolizzare “l’idolatria biblica” dell’arcivescovo, fornendo una molteplicità di ragioni: se Ussher può essere considerato uno dei migliori studiosi della sua epoca è perché la sua ricerca s’inserisce in una tradizione  accettata da un’ampia comunità di intellettuali, con metodologie condivise (per quanto inattendibili), e con datazioni non discordanti – presenti anche in pensatori precedenti (Joseph Justus Scaliger datava la creazione attorno al 3950 a.C.). In particolare, ciò che colpisce Gould la volontà dell’arcivescovo di inseguire la propria aberrazione fino in fondo, il rigore di un metodo che impiega, confronta e monta insieme una pluralità di ipotesi, fonti, culture, calendari diversi. «Accusare Ussher di aver ritardato l’istituzione di una geologia empirica è come incolpare i dinosauri per aver frenato il successivo successo dei mammiferi. Il giusto criterio deve essere la dignità secondo gli standard onorevoli del proprio tempo» afferma Gould, per poi insistere sul punto con ancora più forza: «Ussher guadagna il nostro rispetto esattamente come i dinosauri, che ora sembrano ammirevoli e interessanti di per sé (e non come precursori imperfetti di mammiferi superiori nell’inesorabile progresso della vita). I modelli di progresso inevitabile, sia per il panorama della vita che per la storia delle idee, sono nemici della comprensione empatica, poiché criticano il passato semplicemente per essere vecchio (e quindi primitivo e ottenebrato)». Continueremo a dubitare del calcolo di Ussher, ma ciò non ci impedisce di frequentarlo, di farne uso in maniera performativa. Un’aberrazione istituisce la propria realtà nel momento in cui la rende operante: allontanata l’esattezza del dato, ciò che si salva è la vertigine di un metodo.

Una versione del 1722 della King James Bible, stampata a Edimburgo

XV

In occasione del conferimento del premio letterario della città di Brema, Paul Celan tiene un discorso in cui riflette sul proprio uso della lingua. È noto che Celan, figlio di genitori ebrei, straniero in Francia – ma nei pensieri «spesso a casa e con gli amici di un tempo», scrisse le proprie poesie in lingua tedesca: lingua che era appartenuta a sua madre – fucilata nel campo di concentramento di Michajlovka; lingua del terrore nazista e del suo ordigno propagandistico; lingua divenuta dannata, afasica, gravida di morte, ma – ciononostante – lingua ancora attingibile, attraversabile; lingua che passa:  «vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. La lingua, essa sì, nonostante tutto, rimase acquisita. Ma ora dovette passare attraverso tutte le proprie risposte mancate, passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò e non prestò parola a quanto accadeva, ma attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato di riuscire alla luce, “arricchita” da tutto questo. Con questa lingua, in quegli anni e negli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie». Non prestare parola a quanto accade nel linguaggio della dannazione, eppure frequentarlo come l’obiezione che ogni parola deve rivolgere a se stessa: questo il modo in cui Celan ha continuato a scrivere le sue poesie. «Come se ogni sillaba contestasse il poema», avrebbe scritto più tardi il poeta-performer Corrado Costa in una poesia che si attiene al discorso: Ancora sulla possibilità per vivere (1964). Altrove dal riparo della sosta, Celan ha deciso di salvare la pratica del transito: un passare attraverso l’inferno del linguaggio – la sua catastrofe – per riuscire alla “luce”.

XIV

Nell’ultimo dialogo delle Città Invisibili, l’imperatore dei Tartari Kublai Khan confida a Marco Polo un suo timore: tutti gli sforzi si rivelano alla fine inutili se l’approdo del viaggio non può essere altro che la città infernale. La risposta dell’esploratore veneziano costituisce un compendio della performance della redenzione: «L’inferno non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui […]. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Vorremmo, giunti qui – all’approdo del nostro dire, immaginare questo sforzo di attenzione come il prodursi di un tremolio in ciò che è dannato: un trasalire che non distrugge la dannazione, ma genera un piccolo intervallo fra la cosa e se stessa (fra l’inferno e se stesso). Poesia è dare un nome di riconoscenza a questo tremare. E farlo durare, e dargli spazio.

Simon Marmion, The Beast Acheron, 1475, Ghent, Belgium Ms. 30, fol. 17

Giorgiomaria Cornelio

(1997) è poeta, regista, curatore del progetto ”Edizioni Volatili”, e redattore di “Nazione Indiana”. Ha co-diretto la "Trilogia dei viandanti" (2016-2020), presentata in numerosi festival e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su “Le parole e le cose”, “Doppiozero”, “Indiscreto”, “Il tascabile” e altri. Per Luca Sossella Editore, ha pubblicato “La consegna delle braci”.

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