The Rock
Sin dal 1968 Michael Heizer va alla ricerca della “sua” roccia. La immagina, la disegna, ma non la trova, finché appare in una cava in California dopo oltre trent’anni, tanti nell’economia della sua carriera ed esistenza, un battito di ciglia sulla scala geologica. La cosa potrebbe finire qui, invitando gli interessati a recarsi da quelle parti, nel rispetto della tradizione della Land art in cui il pubblico è abituato a sottoporsi a lunghe trasferte nei luoghi più sperduti degli Stati Uniti, come Double Negative (1969) dello stesso Heizer. Ma l’artista intende portare questa pietra vecchia milioni di anni e del peso di 340 tonnellate al LACMA di Los Angeles, tempio dell’arte contemporanea. Il direttore Michal Govan intuisce subito che quest’idea di una follia lucida o di una semplicità sconcertante è, in potenza, una delle opere maggiori del XXI secolo.

Si mette così in moto una macchina organizzativa micidiale la cui complessità è restituita dal documentario di Doug Pray, non a caso figlio di un geologo, che ripercorre la storia della scultura monolitica in granito, dalla sua epifania all’inaugurazione ufficiale al LACMA il 24 giugno 2012 (Levitated Mass. The Story of Michael Heizer’s Monolithic Sculpture, 2013)[1]. Nell’ordine, con un solerte sistema di fundraising che fa impallidire le nostre istituzioni, vengono contattati dei collezionisti privati disposti a finanziare quello che ha l’aria e soprattutto i costi di un progetto faraonico. Si affronta poi il nodo del trasporto: un primo tentativo non va in porto perché il peso del masso è sottostimato. Solo l’intervento di una società di trasporti coreana garantirà un sistema efficace per distribuirne il peso durante il tragitto, con un autoveicolo di 90 metri dotato di oltre di 200 ruote montate su 22 dolly controllati a distanza.

Geologi e ingegneri sono coinvolti al pari di politici e curatori del museo, dalla fase progettuale al momento in cui la pietra lascia la cava fino alla sua posa al LACMA. Un capitolo a parte, il più complesso dal punto di vista umano, è quello della macchina burocratico-amministrativa per ottenere una serie inimmaginabile di permessi, dalle compagnie di elettricità alle compagnie telefoniche fino ai sindaci dei ventidue comuni coinvolti. Si susseguono riunioni fiume, si riempiono faldoni colorati di documenti che riportano in copertina, scritto col pennarello nero, semplicemente “The Rock”. A molti, è evidente, sfugge il quid dell’operazione. Basta un parere negativo per mandare in aria il progetto, e l’apprensione è tangibile nella fase dei preparativi, quando sembra sul punto di naufragare.

Si adottano misure di sicurezza (vivaddio!) per il personale che accompagna Levitated Mass lungo gli undici giorni di un percorso di 169 chilometri esclusivamente notturno, studiato nei minimi dettagli, rimuovendo semafori, pali e fili d’elettricità sospesi in alto che intralciano il passaggio. Finalmente si parte, consapevoli che, una volta azionata la macchina tecno-amministrativa, ogni incidente di percorso farà lievitare i costi già altissimi dell’operazione. Ai tempi dei social, il masso diventa presto una celebrità o, difficile evitare la battuta, una rock star: in televisione non mancano paralleli con le piramidi d’Egitto, giochi di parole tra “bold” (audace) e “boulder” (macigno). Sui social circolano informazioni sull’ora precisa del suo passaggio. Che è preceduto da un cordone di macchine della polizia, dalle luci lampeggianti, dalle tute gialle degli impiegati, dai motori di tre rimorchiatori (uno in testa due in coda) che rombano. C’è qualcosa di solenne e assieme di magico, qualcosa che appare nel cuore della notte come un’immagine onirica.

Alcuni trascorrono la notte all’addiaccio, sul bordo del marciapiede, col pigiamone e una tazza di caffè, sdraiati su sedie da giardino e armati di macchina fotografica. Il masso passa così lentamente che pare sfilare; coperto da un telo bianco che lo protegge come un sudario, sembra di assistere a una processione religiosa, simile alle italiche sfilate del santo patrono.
Il riferimento alla sfera del sacro non è anodina: nel corso del suo trasporto – che, ricordiamolo, dura undici giorni, sfiorando di poco il simbolico dodici – The Rock diventa, oltre che una celebrità, una divinità. Per un disguido tecnico il camion è infatti obbligato a una sosta non programmata a Carson e il caso vuole (ma il caso non esiste) che parcheggi davanti una chiesetta chiamata Roca de Salvacion, la Roccia della Salvezza. I fedeli che escono dal luogo sacro si stropicciano gli occhi, increduli davanti all’evento miracoloso: chiaro che questa roccia venga da altrove, che sia un segno divino. Qualcuno si appresta a reperire nella Bibbia le numerose citazioni geologiche, e del resto chi ha costruito la sua casa sulla sabbia ha fatto una brutta fine rispetto a chi l’ha costruita sulla roccia (Mt 7, 24-27).
Ma forse è questo masso ad aver bisogno di una benedizione, se pensiamo a This Equals That (1980), un’installazione scultorea di Heizer a Capital Complex, Lansing, Michigan, rimossa dopo vent’anni. Il potere politico preferisce ancora barbuti militari a cavallo, armati fino ai denti e issati su alti piedistalli: questa è la cultura del monumento, ieri come oggi, difficile accettare quegli ingombri astratti e geometrici che intralciano il passaggio verso i palazzi del potere. Heizer si è confrontato in diverse occasioni con la scultura pubblica, con risultati alterni. La più riuscita è a Manhattan dove, nel cuore di un quartiere di corporations, realizza una fontana orizzontale in granito chiamata proprio Levitated Mass (1983), che ricorda la stele di Rosetta o l’isola di Manhattan.
The Rock attraversa zone periferiche abitate da comunità afro-americane e latino-americane con un’altissima concentrazione di disoccupati. Il costo dell’operazione lascia basiti gli abitanti: “What a rock does? Nothing!”. Ma alcuni si rallegrano che finalmente qualcosa di “amazing” accada davanti alle loro case. Il passaggio infatti è spesso accompagnato da fischi, fotografie, urla, applausi. Caffè associativi e di quartiere organizzano eventi, street parties e concerti al suono di Let’s rock; o, scherzando, promuovono un “Occupy Levitated Mass”. C’è chi gioca a morra cinese o sasso-carta-forbici (in inglese rock paper scissors), c’è chi chiede alla compagna di sposarlo davanti alla roccia.
Alcuni considerano l’operazione ridicola: un artista non prende una massa rocciosa così com’è ma la trasforma, ne fa appunto una scultura, togliendo il superfluo dal blocco di marmo e far emergere la figura, altrimenti non è un gesto artistico, troppo facile. “I think he’s nuts”, sentenzia lapidaria una signora elegante a proposito di Heizer, cioè uno svitato, un fuori di testa. Ma quel “nut”, quel riferimento alla nocciolina, ridicolizza il colosso geologico. Peggio fa solo il “Los Angeles Times” che, vedendolo ricoperto di un telo bianco, azzarda un paragone con un ciclopico tacchino surgelato.
Altri dubitano che questo enorme masso sarà sollevato in aria. “Un masso che levita? Una pietra volante?”. C’è chi sente puzza di bruciato in tutta la vicenda, lasciando spazio, c’era da aspettarselo, a ipotesi complottiste: non è sospetta l’operazione? Trasportare un sasso gigante di notte coperto da un telo? cosa c’è veramente lì sotto? La società coinvolta in genere trasporta missili e armi nucleari (è la prima volta che trasportano una roccia, la primissima che il destinatario è un museo d’arte); nei paraggi, guarda caso (ma abbiamo detto che il caso non esiste), c’è una base militare, e l’imponente schieramento di forze dell’ordine conferma lo scenario peggiore. Non si può trattare di una semplice opera d’arte, qui sono in ballo corporations, lobbies, armi di distruzione di massa, forse i massoni e così via. A chi la vogliono dare a bere?
Nel complesso, che piaccia o meno, tutti hanno qualcosa da dire sulla pietra, tutti sono inclini a riconoscerle una personalità o un’agentività, che sia, di volta in volta, il simbolo delle disuguaglianze sociali o della parusia divina, della follia umana e via discorrendo.
Volumi negativi
Fermiamoci un attimo. 340 tonnellate geologiche dirette in un museo: come siamo arrivati fin qui?
Michael Heizer cresce a pane e monumenti: vive otto mesi in Messico quando ha dodici anni, esposto all’architettura antica; di passaggio in Italia, ad attirarlo è meno la pittura che la scultura e l’architettura; frequenta sin da piccolo cantieri di scavo in California e in Nevada seguendo Robert Heizer, il papà antropologo nelle sue spedizioni di lavoro. Padre che, non è un dettaglio di poco conto, è specializzato nel trasporto di oggetti pesanti nelle culture precolombiane d’America centrale e del Nord, delle culture indiane del Nevada e della California. I nonni sono specialisti di geologia e mineralogia. Il destino è segnato[2].
Col padre e un gruppo di archeologi parte in missione in direzione di Luxor. Nei cataloghi, ci tiene ad alternare foto dei suoi interventi con monumenti egiziani o maya: la piramide a gradoni di Djoser, il tempio di Abu Simbel ad Assuan in Egitto, i Colossi di Memnone nella necropoli di Tebe, il Tempio funerario di Hatshepsut sempre a Tebe; o con grandi rocce in Perù, Bolivia e Messico: l’Idolo de Coatlichán a Teotihuacan, Chichén Itzá nello Yucatan e le statue azteche di Tula a Hidalgo, tutti e tre in Messico; col complesso di monumenti di Pumapunku, a Tiahuanaco in Bolivia.

La scultura di Heizer nasce sotto il sole giaguaro, altro che white cube. Lo scavo archeologico diventa il suo modello di pratica artistica; le cave e le miniere il suo atelier.
L’arte americana, passata alla storia come modernismo, Heizer la scopre solo poco più che ventenne una volta trasferitosi a New York, quando non sa neanche chi sia tale Jackson Pollock. Tra Heizer e New York non scocca la scintilla: qui pratica una pittura così oggettuale che il suo elemento principale è la materia; qui si sente uno straniero e dopo pochi anni (1966-72) si trasferisce in Nevada a Mormon Mesa, lungo la Virgin River. L’aeroporto più vicino è a sei chilometri, per il resto nei dintorni spogli c’è poco; ma a tre ore a piedi c’è Double Negative. Anche gli altri Stati americani frequentati da Heizer, come l’Arizona e il Nuovo Messico, hanno in comune una bassa densità umana – questi deserti offrono uno skyline più vicino alla sua sensibilità rispetto a quello minerale e verticale di Manhattan.
In Nevada il paesaggio è piatto, poco vegetale, con un orizzonte sgombro da ogni ostacolo, “the only things that can grow in Nevada are too small to see at any distance, only enough to root, giving it stability”[3]. Ad affascinarlo è inoltre il fatto che tutti i materiali di cui ha bisogno per costruire sono in loco (sabbia, ghiaia per il calcestruzzo, argilla per il cemento, acqua corrente) e che può estrarli nello stesso terreno in cui sorgerà la sua opera. Penso qui alla struttura a forma di mastaba Complex One (1972-74).
Sono anni di uno sperimentalismo radicale in cui Heizer si districa a fatica tra forze all’apparenza incompatibili: insoddisfatto dalla pittura, non è neppure attratto dalla prospettiva di diventare scultore: “I didn’t like sculpture, I didn’t want to make objects. What was interesting was the chance to make something metaphysical”[4]. Qualcosa di metafisico? Lui che finirà per trasportare 340 tonnellate di granito? Esatto, a patto che lo si leghi al geologico, a una concretezza materiale che sola apre al trascendentale. Siamo lontani dalla storia della scultura, soprattutto se prendiamo la tradizione europea dell’oggetto tridimensionale, come il Mosé di Michelangelo o il Balzac di Rodin (gli esempi sono dell’artista). Heizer si sente più vicino alle civiltà sudamericane, mesoamericane, nordamericane, alle società megalitiche piuttosto che alle nostre legate, a suo avviso, al frammento. Il colossale resta per noi la somma di un’infinità di piccoli elementi, qualcosa di cui la Colonna infinita di Brancusi è assieme il compimento e il limite estremo.
(Domanda a bruciapelo: qual sarà mai la scultura americana del XX secolo preferita da Heizer? Sento qualcuno avanzare David Smith o Tony Smith (entrambi acqua), Alexander Calder (acqua), Richard Serra o Carl Andre (due volte acqua) Lee Bontecou (acqua), John McCracken (acqua), Nancy Holt (acqua)… la lista non è poi così lunga (Ed Kienholz, Duane Hanson, John Chamberlain li ho esclusi a prescindere). Vi arrendete. La risposta è Gutzon Borglum, scultore del Mount Rushmore memorial. Heizer è sorpreso che gli scultori non ne discutano mai, nonostante la prossimità, evidente ai suoi occhi, al prima ricordato tempio di Abu Simbel ad Assuan.

Ora, Heizer è anche attratto – eccoci all’aspetto metafisico – dall’idea di un volume negativo, da una massa che anziché ergersi verticalmente verso il cielo sprofonda sotto il suolo: “I was interested in massive objects as well as the absence of objects”[5]. Come conciliare queste due forze opposte? Sono destinate a scindersi e incarnarsi in opere diverse? O manderanno all’aria la carriera traballante di un artista né pittore né scultore?
Eppure Heizer non è un indeciso ma uno che, per riprendere un vecchio slogan punk, non sa cosa vuole ma sa come ottenerlo. Il suo pensiero è cristallino, come dimostra la sua capacità di formulare semplicemente ed esplicitamente idee dinamitarde. Prendiamo la sua opera più conosciuta, Double Negative, realizzata (appunto) a colpi di dinamite, con bulldozers, scavatrici, perforatrici e così via. “In order to create this sculpture, material was removed rather than accumulated […] The title Double Negative is a literal description of two cuts but has metaphysical implications because a double negative is impossible. There is nothing there, yet is still a sculpture”[6]. Non c’è niente, ma questo niente è la scultura:
Ma non c’è niente…
– Dove, scusa?
– Qui!
Un niente circoscritto. Heizer ci fornisce la chiave dell’opera: “If you can visualize the voids combining, then you understand the work. What’s interesting is that the center, almost a third of the sculpture, is an implied volume”[7]. In poche frasi ha rimestato la storia della scultura in quanto medium.

Se ne accorgono i primi visitatori durante il tour organizzato dalla gallerista Virginia Dwan, come testimonia un resoconto passato alla storia di Philip Leider, How I Spent My Summer Vacation, or, Art and Politics in Nevada, Berkeley, San Francisco and Utah, pubblicato su “Artforum”, nel settembre 1970. Una rivista che, pochi mesi prima, nel dicembre 1969, dedica ad Heizer la copertina con Isolated Mass/Circumflex.
In sintesi: Double Negative è una scultura non trasportabile ma senza peso, immensa ma invisibile, monumentale ma orizzontale – un earthwork fatto di aria. Un taglio geologico, un’erosione del terreno, una ferita inferta alla terra ma anche una messa a nudo di strati geologici precedenti. Un doppio tunnel realizzato astraendo materia, che diventa percepibile grazie al vento che s’incanala al suo interno. Uno spettatore che, sebbene singolo, s’immagina specularmente riflesso nell’altra metà e si sdoppia, come se quanto suggerito dal titolo valesse anche per la sua coscienza, per la sua individualità ora scissa (è più o meno la lettura di Rosalind Krauss in Passaggi).
Torniamo a bomba: come conciliare le due forze opposte prima ricordate, la presenza imponente degli oggetti e la loro assenza? Non è una domanda oziosa e la risposta va trovata in fretta, perché Heizer ha l’impressione di vivere all’inizio del tempo della fine: “The idea of living in the postnuclear age informed everything, the clock was ticking”, “We’re probably living at the end of civilization”[8].
Una risposta viene dalle dimensioni – e non dalla scala – dei suoi lavori. Un giorno Heizer si rende conto che l’Empire State Building in orizzontale entrerebbe in Double Negative, come un letto in cui riposare dalla verticalità. Questa storia del grattacielo supino fa clic nella sua mente. Difficile oggi non pensare alla copertina di Delirious New York di Rem Koolhaas – Flagrant Délit di Madelon Vriesendorp – con l’Empire State Building steso a letto assieme al Chrysler Building dopo un amplesso.
E la questione delle dimensioni diventa il fil rouge del suo pensiero e della sua pratica. Dimensione vuol dire gravità e peso imponente. Dimensione vuol dire presenza e potere. Dimensione vuol dire energia e non estetica: peso o fisicalità non sono sufficienti a rendere un masso attraente. Un masso di trenta tonnellate (Dragged Mass, 1971, a Detroit), esprime le sue caratteristiche senza bisogno di un intervento artistico, senza cesellare il masso come uno scultore. “The idea of the rocks was that they were surrogate objects, replacement objects, replacement for the art object. Something in lieu of a consciously created, highly surfaced, highly detailed, academically studied work of fine art”[9].
(In)tagliare una roccia vuol dire ucciderla, come Heizer afferma a proposito della fontana a New York Levitated Mass, che è costretto a ridimensionare: “As soon as I cut the top grained surface off I killed the rock so I had to put life back into it”[10]. Come? Incidendo la superficie della roccia, con una scrittura criptata, “56 MAD”, cioè l’indirizzo in cui si trova, tra la 56ima Strada e Madison Avenue.
La materia è importante, matter matters, come nelle società primitive. Anche se Heizer non rinuncia alle tecnologie disponibili per trasportarla: “We’re living in a world that’s technological and primordial simultaneously. I guess the idea is to make art that reflects this premise”[11]. Vuoi spostare una montagna? Non ci sono alternative: o hai dei superpoteri (vedi Maometto) o usi la tecnologia. In finale, le dimensioni suggeriscono stupore e soggezione: “Small works are said to do this but it is not my experience. Immense, architecturally-sized sculpture creates both the object and the atmosphere”[12]. E molto più, come dimostra Levitated Mass.
Cristalli sognanti
Poco prima che The Rock arrivi a destinazione l’artista francese Régis Perray realizza 340 grammes during Levitated Mass by Michael Heizer, un’azione in cui trasporta 340 grammi (un grammo per ogni tonnellata dell’originale) di polvere raschiata dalla volta della cattedrale di Chartres su un giocattolo, un dumper Volvo BM. Una polvere molto più giovane rispetto all’età geologica del masso, ma precedente la storia degli Stati Uniti – un altro modo di fare archeologia del presente, di far incontrare temporalità incommensurabili.

A notte fonda (le 4:30 circa), il masso arriva finalmente nei pressi del LACMA; dalle persone riverse in strada si direbbe che pochi dormono quella notte a Los Angeles, allertati dal tam tam sull’evento geologico del secolo, su un evento geologico incastonato nel cuore pulsante della contemporaneità. Ma attenzione: il masso non poggerà su un basamento come una qualsiasi scultura all’aperto ma andrà posato in equilibrio su una trincea di cemento armato e acciaio. Forse è per negare il piedistallo su cui la scultura ha storicamente poggiato per rendersi visibile, per distinguersi dagli oggetti e dall’ordine inferiore delle cose, forse per negare la gravitas, per rendere leggera l’immagine stessa del peso.

Issare il masso è un’operazione delicatissima vista la sua forma asimmetrica. Solo a questo punto interviene Heizer, finora grande assente del documentario. Un tipo dal sangue freddo, schivo e laconico, refrattario a spiegare il suo gesto. Non trapela emozioni e chi lo interroga, eccitato dall’evento, viene gelato così: “What art? There is no art. We’re working on something, it’s not built yet. Just moving some of the components around”. Heizer ha tutto calcolato e, per non distrarsi, in quelle sei settimane campeggia fuori dal museo come se fosse in Nevada, accompagnato da sua moglie-assistente e dal cane. Tuttavia la vera e unica protagonista resta Levitated Mass, ora in equilibrio, visibile dal di sotto grazie a un passaggio che ricorda Double Negative e toglie il fiato. Un terremoto – frequente da questa parte del mondo –, un errore statico e questo masso ci schiaccerebbe come pinoli o noccioline.

Levitated Mass è un pezzo di preistoria o geostoria ospitto in un museo di arte alla lettera con-temporanea, che ovvero lascia coesistere tempi diversi. Secondo Heizer durerà 3.500 anni.
Il documentario è agli sgoccioli, il masso ha quasi terminato la sua corsa o meglio il suo festina lente verso il LACMA e io mi accorgo di essere commosso. (No, dai, non fingere, dì le cose come stanno). Il documentario è quasi finito e mi accorgo di lacrimare, io che non ho il pianto facile. Mi sento stupido: Ma si può piangere per un pezzo di pietra? Andiamo, su. Frignare per un cumulo di granito!
Mi soffio il naso mentre scorrono i titoli di coda.
Ebbene sì, mi riscatto, perché a commuovermi è l’impresa umana, realizzata dagli ingegneri e dagli amministratori, dai gilets jaunes e dai curatori del museo, da chi l’ha osteggiato e da chi l’ha osannato, da chi l’ha snobbato e da chi l’ha divinizzato, da chi ci ha speculato sopra e da chi ci ha creduto e investito; da chi l’ha preso per una testata nucleare e da chi si è persino affezionato; da chi l’ha rincorso con bici truccate e da chi ci si è fatto un selfie…
È l’energia che ruota attorno a questo enorme masso, a questo cuore geologico che mi trasporta e mi emoziona. E se Levitated Mass, oltre a pura vita geologica, resta ancora, sotto certi aspetti, un monumento, a essere celebrata è l’umanità che figura nel documentario e fa comunità per la buona riuscita dell’operazione.
Impossibile disgiungere l’umano da The Rock, che in undici giorni di trasporto si è caricata di un’agentività incalcolabile, e continua a farlo ogni giorno al LACMA. Nel mio piccolo vi contribuisco anch’io: vedendo il documentario, memorie lontane mi travolgono come un profumo o un suono familiari, quando riconosco le strade e le macchine e le case e i volti di quella città che ho lasciato senza più farvi ritorno poco prima che questo masso venisse poggiato al LACMA.
Una volta riattivata, la memoria procede da sola, col pilota automatico. Chiuso il computer, vado a letto col film mentale del mio soggiorno felice a Los Angeles. Impilo due cuscini, che prendono la forma di The Rock, ci poggio la testa sopra e chiudo gli occhi. Dormirò come un sasso?
In copertina: The Rock nella cava in California, courtesy LACMA
[1] In aggiunta, una raccolta di video prodotti dal LACMA, dalla stampa e da privati è visibile qui: https://obsart.blogspot.com/2012/01/levitated-mass-2012-videos.html.
[2] Cfr. Robert J. Kett, Monumentality as Method: Archaeology and Land Art in the Cold War, in “Representations”, vol. 130, n. 1, Spring 2015, pp. 119-151.
[3] I passi di Heizer sono estrapolati da una lunga intervista rilasciata nel novembre 1983 e pubblicata in Michael Heizer, Sculpture in Reverse, cat. della mostra, Museum of Contemporary Art, Los Angeles – MoCA 1984, confluita poi in una versione riccamente illustrata, in inglese e in francese: Michael Heizer. Sculpture in Reverse. Interview with Julia Brown, Éditions Lutanie, Paris 2014. La cit. è a p. 42.
[4] p. 8.
[5] p. 8.
[6] p. 15.
[7] p. 36.
[8] p. 11, p. 16.
[9] p. 13.
[10] p. 39.
[11] p. 13.
[12] p. 33.