Piccolo e minuto
si aggira in tempo
scorrendo senza far riferimento a niente
da destra verso sinistra e viceversa
da occidente verso oriente e viceversa.
Tra qui e lì minimo e minuto passa il
tempo a guardare chi
potrebbe dare un senso
a questo movimento.[1]
Da un punto di vista metodologico il “fare archivio” è una pratica costante per Luca Pancrazzi, fondante rispetto a una visione della ricerca che non si svolge secondo un principio evolutivo ma si caratterizza per continui ribaltamenti e circonvoluzioni, il rinnovamento dell’attenzione su cicli di opere, il testare sottotracce di lavoro che si sono manifestate ciclicamente, talvolta imprevedibilmente e in forme diverse. Un metodo, Pancrazzi afferma, della cui necessità ha acquisito piena consapevolezza fin dal 2014, a partire dalla mostra Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro[2]. L’archiviazione delle immagini, alla base del metodo che informa la ricerca dell’artista, delle opere e infine degli scritti, spesso procede di pari passo.
Tre libri usciti tra il 2020 e il 2021 rendono conto in modi diversi del rapporto di Pancrazzi con la parola. Il libro, per Pancrazzi, è un oggetto autoriale, pensato dall’artista, una sorta di sezione della mostra. Ed è a tre mostre che questi libri sono dedicati: Paesaggio ciclico variato a cura di Michela Eremita, per il Museo del Paesaggio e per la Torre dell’orologio a Castelnuovo Berardenga in provincia di Siena (3 ottobre 2020-1 gennaio 2022)[3]; Ombre, proiezioni, ribaltamenti, vuoti improvvisi e inversioni che ha avuto luogo presso Villa Pacchiani di Santa Croce sull’Arno (ottobre 2020-febbraio 2021) e da me curata; Paesaggio Minuto, Museo Archeologico di Acqui Terme (2 Ottobre-21 novembre 2021) curata dall’artista stesso. La prima e la terza accomunate, fin dal titolo, da un riferimento a uno dei temi centrali nella ricerca di Pancrazzi, il paesaggio, la seconda che ha inteso mettere a fuoco attenzioni e metodi presentando opere germinali da cui si sono generati filoni di ricerca oppure intuizioni che hanno portato altrove. Nello specifico, poi, in Paesaggio Minuto, Pancrazzi si è concentrato su piccole sculture di ceramica e disegni che hanno abitato le vetrine del museo insieme ai reperti archeologici – qui abitualmente esposti – a immaginare paesaggi, ribaltando il rapporto tra gli oggetti e mettendo in cortocircuito il rapporto figura-sfondo.

Nel volume che si riferisce alla mostra di Castelnuovo Berardenga sono raccolti una serie di testi sul paesaggio scritti nel tempo da Pancrazzi e introdotti da un testo di Michela Eremita[4]; nel libro dedicato alla mostra di Santa Croce sull’Arno un mio testo e uno di Elio Grazioli accompagnano le sequenze fotografiche, ripercorrono la costruzione della mostra e si soffermano su alcuni passaggi importanti della ricerca dell’artista[5]. In Paesaggio minuto è la sola voce di Pancrazzi che accompagna le immagini: un registro più in poesia che in prosa, non didascalico o di commento ma evocativo.
Sicché le parola dell’artista e dei suoi corrispondenti assieme ai testi critici e agli interventi più poetici costruiscono un tappeto verbale estremamente variato che ci orienta e ci accompagna nella lettura sincrona dei tre libri e, prescindendo dalla tematica del paesaggio, ci introduce a questioni fondanti nel pensiero e nella pratica di Pancrazzi: tra gli altri il rapporto con l’immagine fotografica scattata dall’artista o prelevata da altri contesti, la pratica della transmedialità, il processo di percezione dell’immagine (il rapporto tra bianchi e neri, figura sfondo, gli elementi costitutivi dell’immagine fotografica, il rapporto con la luce), la sperimentazione dei materiali, la perseverazione nell’errore e la ricerca empirica (per cui l’opera è sempre frutto di un esperimento tecnico e poi visivo), il rapporto con le caratteristiche del medium e la sfida continua nei confronti dell’occhio. Infine, la riflessività del rapporto opera-spettatore, che è un inquadramento prospettico, una relazione fatale che modifica oggetto e soggetto nella percezione e poi nella pratica dell’osservazione reciproca e sempre variata nel tempo e nel luogo.

I testi – inediti o pubblicati in tempi diversi in cataloghi, libri, riviste, esposti durante conferenze -documentano scambi e riflessioni intellettuali, affettive, professionali talvolta in forma epistolare (con Elio Grazioli, con Marc Augè) o scambiati durante un viaggio (con Gianni Romano), in relazione con altri artisti, con curatori e galleristi. Un paesaggio anch’esso, una galassia mobile e fluttuante di pensieri archiviati e rivisitati, un punto di vista fermo eppure anch’esso variabile caratterizzato da registri diversi e che presuppone, di volta in volta, destinatari diversi: dagli amici ai curatori, al pubblico delle mostre, ai lettori dei libri e, infine, se stesso. E che mette in primo piano il fattore “tempo” attraversato da Pancrazzi e trasforma il libro in un ulteriore dispositivo che richiama il processo di osservazione dell’opera e il rapporto oggetto/soggetto osservato – oggetto/soggetto osservante.
Sulle questioni generali i testi mettono progressivamente a fuoco il rapporto di Pancrazzi con le immagini che spesso emergono da un archivio fotografico vastissimo. Nel reimpiego che le vede spesso migrare da un medium all’altro, si allontanano dal reale per farsi esperienza concettuale. Le immagini risultano così erose, de-normalizzate e normalizzate in maniera atipica mettendo alla prova la loro tenuta di fronte al nostro occhio, e all’occhio restituiscono variazioni: guardiamo un’immagine che guarda noi e questo dialogo avviene nell’arco di un tempo che è anch’esso fattore di cambiamento e trasformazione.
La selezione delle immagini migliori, per il risultato prefisso, occupa molta parte del tempo che mi lascio a disposizione prima di essere stanco dell’idea di quadro che sto cercando. Scatto immagini fotografiche come appunto, le divido per tipologie, e le più adatte, quelle che assomigliano all’immagine che ho in mente, escono di prepotenza dall’allineamento della catalogazione. Scatto e scarto. Migliaia di immagini, bianco e nero e a colori, sfuocate, mosse o perfette di esposizione, simili a quello che ricordo, immagini nate dal caso, da disattenzioni pratiche o dall’uso disinvolto della camera.
Guardo poco dentro il mirino della macchina, e quando lo faccio lo trovo interessante, ma mi annoio subito, guardare il mondo dall’obbiettivo di una macchina mi dà l’impressione di essere nascosto dal mondo e di riscoprirlo attraverso un buco che lo restituisce fantastico solo perché ce ne siamo privati. Non miro, ma pretendo che la macchina registri quello che vedo, e come lo vedo, allora l’errore, lo scarto, mi sorprende a ritrovare l’immagine che avevo visto.
(…) Un’immagine quando diventa il soggetto di un quadro ritrova un suo volume, una tridimensionalità scartata del reale è un’estrusione evocativa e permeabile. Il quadro allora prende autonomia ed io come un intruso mi muovo veloce e furtivo col pennello fino a quando scoperto devo allontanarmi, il quadro è finito. Oltre al soggetto scelto a tavolino un quadro è in mente molto prima di quanto riesca ad averne una conferma intermedia della possibilità di riuscire a dipingerlo. Altre volte, le immagini che ho scattato sono perfette, intoccabili nel loro instabile equilibrio, coi loro difetti imperdibili, di queste rare immagini ne assecondo il destino dandogli un’autonomia completa che lascia intatta la loro forza cruda.[6]
E più avanti, nel 2014:
Le mie sequenze fotografiche sembrano raffiche senza mira, sono sparate senza guardare dentro il mirino, senza inquadrare, come chi spara all’auto inseguita affacciato al finestrino della propria inseguendo qualcuno. Sparo alle gomme del paesaggio che inseguo. Migliaia di immagini in pellicola negativa bn, in pellicola super 8 e doppio 8, poi in diapositiva a colori e poi bn, in polaroid autopositivo, e infine in digitale. Stampate, fotocopiate, ricalcate, proiettate, ridisegnate, stampate a contatto su pellicola lit, ingrandite, passate allo scanner e poi ristampate, rifotocopiate, disegnate, acquerellate, filtrate e salvate… Partecipo agli inseguimenti e alle battaglie nelle strade, dove i fotografi reporter documentano la cronaca, non ho avuto paura della pellicola e gli scatti sono sempre stati proporzionati all’esercizio della mira.
Ho imparato di più dagli errori che dai successi, ed ho continuato a fotografare facendo tesoro di questa consapevolezza. Ho sbagliato molto ed ho poi coltivato tutti gli errori.
Le immagini hanno iniziato a raccogliersi in schedari, scatole, libri, cartelline, faldoni, ed ho capito le prevalenze, le passioni, le applicazioni, e le missioni che più richiedono presenza e dedizione. Ho capito che era una questione di esercizio di mira. Ho raccolto migliaia di foto dei paesaggi che ho incontrato, le ho prese dall’auto, dai treni, aerei, biciclette, navi, la maggior parte scattate dal cruscotto anteriore della mia auto.[7]

Fondante è il concetto di prospettiva variabile e variata di cui il “fuori registro”, il negativo, il rapporto tra pieno e vuoto e le ombre sono strumenti di attuazione. “Il ‘fuori registro’ rimanda ai procedimenti di stampa quando i retini (…) non coincidono e l’immagine varia, cambia, diventa e rivela altro.”[8] Elio Grazioli ci mette in guardia sul fatto che le ombre e le proiezioni non devono essere guardate “nel senso usuale, cioè come produttrici di simmetrie e opposizioni, ma come operatrici di inversioni, ribaltamenti e vuoti improvvisi. Fin dalla sua prima mostra personale Pancrazzi ha impostato questo suo invito, chiamandolo ‘simmetria variabile variata’”[9].
Già in una lettera del 23 dicembre 1994 Elio Grazioli scriveva a Pancrazzi:
Caro Luca, quando, una delle ultime volte che sono venuto in studio a trovarti – avevi preparato un allestimento per non so quale gallerista tedesco – ho visto gli oggetti in resina, trasparenti alcuni, colorati altri, piccoli tutti e sparsi per terra al centro della stanza, e i nuovi quadri alle pareti, ho ritoccato con mano non solo l’importanza dello spazio e del tempo, del vuoto e del pieno, delle varie opposizioni in atto nel tuo lavoro, ma del centro, della sua pulsazione. Anche a Care Of era stato così, e già prima ad Arezzo, e fin in quel nostro catalogo, con la costruzione della “simmetria variabile variata”… Sarà che quest’ultima volta gli oggetti, a terra, mi rimandarono addirittura l’immagine di una galassia, insomma una dimensione gigantesca “dentro” delle immagini di stanze.
E il 12 gennaio Pancrazzi risponde:
(…) Allora mi è tornata alla mente quella tua lettera dove anche tu predisponevi un accerchiamento utilizzando tasselli della conoscenza reciproca come frammenti liberi che navigano nel presente. Come quegli oggetti a terra appunto, che hai visto e descritto e che nascono da questa opposizione tra realtà e memoria, tra micro e macro, sono calchi di forme che vivono intorno a noi, nella nostra atmosfera, sfera del tangibile fatta di cose che stanno a portata di mano, ma il cui calco negativo sfugge un po’, ci è vicino e lontano al tempo stesso.[10]
I luoghi a cui Pancrazzi fa riferimento sono vicinissimi, vicini e lontani (Pieve a Presciano, Firenze, la Germania, l’America, il micro e il macro), attraversati mai a piedi, pochissimo in bicicletta, più facilmente in auto e possibilmente in velocità o registrati grazie a spostamenti. A partire dal tema paesaggio ci si misura con il pensiero e il metodo, con la pratica quotidiana di osservazione, con il movimento nello spazio e nel tempo.
(…) Attraverso un paese dietro l’altro entrando da via Roma, o uscendo da corso Italia per rientrare nuovamente in un’altra via Roma. Tra una città e l’altra vivo lo stesso momento più e più volte. Non proseguo in linea retta ma pratico un loop che mi riporta allo stesso punto ogni volta. Quando mi fermo anche il tempo si ferma, come se le pause dovessero essere escluse dal cronometraggio finale. Attraverso di tutto e alla fine ritorno sempre a casa.[11] Mi conosco, mi-s-conosco.
La bicicletta mi permette di avere una velocità intermedia tra i pedoni e le auto e di non relazionarmi a nessuna di queste scale di movimento. Mi allontano di volta in volta sempre di più dal mio quartiere per cercare nuove edicole, ferramenta, laboratori o negozi che visiterò una volta sola. Attraverso gli stessi quartieri e le stesse strade ed ogni volta la zona non sembra mai la stessa, potenza della bicicletta e dell’arte di arrangiarsi nel traffico, anche il tempo sembra diventare meccanico. Penso allo svolgersi delle cose intorno come animate da ingranaggi con tolleranze di qualche dente (mancante).[12]

Pancrazzi ha affrontato il concetto del “non luogo” ponendosi in dialogo con Marc Augé fin dalla mostra All’ombra del tempo (Galleria Mazzoli, Modena 1996): i paesaggi metafisici inventati, dipinti e disegnati, scolpiti e modellati, i tunnel e gli Interni, gli edifici industriali fantasmagorici trovano nelle teorie e nella definizione dell’antropologo punti di vista comuni.
(…) Vedere o essere visti
Chi osserva un paesaggio è osservato di riflesso dal paesaggio, ciò che vediamo penetra dentro di noi e da fuori osserviamo il paesaggio che ci sta dentro. Siamo noi il paesaggio che osserva. Questo flusso tra noi osservati e noi osservatori è un archetipo di nonluogo. Adesso i nonluoghi scandiscono lo spazio/tempo né più né meno come una volta i rintocchi del campanile più vicino scandivano il tempo/spazio. Se ogni individuo è un luogo io sono l’antropologo della mia solitudine, e una antropologia dello spazio diverrà antropologia del tempo?[13]
In merito ai suoi paesaggi visti nel riflesso in uno specchietto retrovisore o i campi e controcampi disegnati da ingressi e usciti da tunnel stradali scelgo di riportare il seguente:
Molti anni fa con mio padre attraversavamo spesso un tunnel che divideva, nei pochi chilometri di autostrada tra il paese in cui vivevo e la città vicina, due vallate (…) Il paesaggio al di là era uguale, ma diverso, la vista dall’autostrada lo rendeva familiare e simile a quello al di qua, ma a differenza dell’altro, sembrava piatto, senza profondità, come una quinta teatrale costruita per rendere piacevole la vista agli automobilisti senza distrarli troppo dalla guida. Quel passaggio tra le due valli era anche una sorpresa meteorologica, mentre da un lato poteva piovere, dall’altro già squarci di sole potevano aver aperto il cielo da tempo e viceversa, non si poteva mai sapere cosa avremmo potuto trovare dall’altra parte. Quando passo ancora da quel tunnel poche cose sono cambiate. Mentre guido l’auto guardo dritto davanti e dietro, attraverso lo specchietto, per verificare la mia posizione intermedia tra i due orizzonti e mi preparo a risintonizzare le FM della radio che da una valle all’altra non coincidono ancora.
La pittura non coincide mai perfettamente tra una velatura e l’altra, sopporta la mia approssimazione. Le immagini vibrano, la pittura come la luce che c’è tra le cose rivela la pienezza non dipinta delle forme. Quando dipingo sono esterno al quadro o sono io la pittura?[14]

E ancora in un testo inedito del marzo 1996:
(…) Possiamo dire che oggi il paesaggio è parallelo e diviso perfettamente in due dalla linea della strada in un paesaggio di sinistra e un paesaggio di destra che coincidono nei due punti di fuga sull’orizzonte della strada stessa: quello davanti e quello dietro. Il paesaggio quindi diventa i paesaggi.[15]
Tra gli scritti segnalo il punto di vista ancora variato: Pancrazzi di solito guida e scatta fotografie insieme, con il telefonino ormai se non con la macchina fotografica. Un piacere inedito è per lui quello di potere essere il passeggero: è quanto racconta di aver vissuto durante un viaggio in Libano viaggio di cui, passeggero sul sedile anteriore, ha documentato l’andata e il ritorno, opposto rispetto a quello in andata, dal medesimo finestrino.
“Quello che inizia adesso è la proiezione di una sequenza fotografica fatta di immagini scattate al paesaggio che ho attraversato. Potrebbe essere un Paesaggio di Passaggio, ma comunque fa parte del paesaggio possibile che si incontra viaggiando e attraversando qualsiasi luogo. Come diceva Pessoa il viaggio è il viaggiatore, e qui direi che il paesaggio è colui che lo osserva”.[16]
In copertina: Luca Pancrazzi, Occidente, 1994, acrilico su tela, cm 130 x 180
[1] Luca Pancrazzi, Paesaggio Minuto, Gli Ori, Pistoia, 2021, catalogo della mostra, Museo Archeologico di Acqui Terme, 2 Ottobre-21 novembre 2021.
[2] Assab One, Milano, 9 maggio-giugno 2014 a cura di Pietro Gaglianò.
[3] La mostra fa parte del progetto “Chi non è del Chianti”, promosso dal Comune di Castelnuovo Berardenga con il sostegno finanziario della Fondazione Monte dei Paschi di Siena e la direzione scientifica di Valentina Lusini.
[4] Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, Fondazione Musei Senesi Editore, Siena, 2020.
[5] Luca Pancrazzi. Ombre, proiezioni, ribaltamenti, vuoti improvvisi e inversioni, a cura di Ilaria Mariotti, Gli Ori, Pistoia, 2021, catalogo della mostra Luca Pancrazzi – Ombre, proiezioni, vuoti improvvisi, e inversioni a cura di Ilaria Mariotti, Villa Pacchiani Centro Espositivo Santa Croce sull’Arno, Pisa 17 ottobre 2020 – 14 febbraio 2021
[6] testo inedito del 2001, Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 132
[7] Restituzione di paesaggio al paesaggio 2007/14 (80 diapositive su caricatore circolare carousel e proiettore); Mira, 2014 (carabina calibro 4.5 su tele diverse) Pubblicato in occasione della mostra Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, Assab One, 2014, Milano. Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 226
[8] Ombre, proiezioni, vuoti improvvisi, e inversioni, 2021, p. 82
[9] Ombre, proiezioni, vuoti improvvisi, e inversioni, 2021, p. 81
[10] Tratto da Italia, “Riga” n. 8, a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, Marcos y Marcos, Milano 1995 già in Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 56.
[11] Un luogo è qualsiasi luogo ma nessun luogo è come quel luogo, Pieve a Presciano, dicembre 1993 Tratto da Nonsites, Galleria Studio Legale, Caserta, 2005 già in Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 44
[12] Milano, 16 dicembre 1998Tratto da Italia due, “Riga” n. 17, a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, Marcos y Marcos, Milano, 2000, già in Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 125
[13] Milano, giugno 1996Tratto da All’ombra del tempo, Emilio Mazzoli Editori, Modena, 1996, già in Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 79
[14] Intruso estruso, tratto dal catalogo della mostra Intruso Estruso, Galleria Mazzoli, Modena, 2001, già in Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 136
[15] Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 82
[16] Paesaggio di passaggio, tratto dal testo per Piano Con Paesaggio, a cura di Pietro Gaglianò, Teatro Stabile Kripton, Scandicci, 2012 già in Luca Pancrazzi – Paesaggio ciclico variato. Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro, 2020, p. 208.