«Nulla mi sembra tanto somigliante a un museo quanto un bordello»: lo scrive colui che è stato con ogni probabilità il maggior scrittore d’arte del Novecento, Michel Leiris. Non in uno dei celebrati saggi su Picasso o Bacon, ma nel primo suo capolavoro che, in mancanza di meglio, definiamo “autobiografico”: Età d’uomo, pubblicato nel 1939 (e volto in italiano, nel ’66, nientemeno che da Andrea Zanzotto). È qui che la passione per l’arte rivela il suo etimo segreto di possessione, e anzi vera schiavitù carnale. Ecco il racconto della folgorazione: nel 1930, men che trentenne redattore della rivista fondata l’anno prima da Georges Bataille, «Documents», per illustrare una pagina Leiris sfoglia pigramente delle riproduzioni quando s’imbatte in quella di un dittico di Lucas Cranach conservato nella pinacoteca di Dresda (di lì a pochi anni in cenere col resto della città). Una Lucrezia e una Giuditta, a specchio, tutte e due d’un nudo lancinante e tutte e due armate: la prima alza il pugnale su sé stessa per purificarsi dallo stupro subito da Sesto Tarquinio, la seconda appoggia a terra la spada dopo averla usata per mozzare la testa al tiranno assiro Oloferne, che l’ha violata a sua volta. Da quel momento in avanti lo scrittore sa che la sua vita è segnata, quelle icone sanguinarie governeranno il suo desiderio: alternando i ruoli dei rispettivi archetipi, masochista e sadico, se non – peggio – sovrapponendoli (come nella Turandot, fra la dolce e sacrificale Lucrezia che è Liù e la micidiale Giuditta «di gel cinta» che dà il titolo all’opera di Puccini). Solo se «pericolosa» una donna potrà attrarlo: come la “zarina” etiope Emawayish, incontrata nel viaggio rituale raccontato nell’Africa fantasma, che ruggisce in trance roteando la testa e bevendo sangue.

Invano ho provato a censurare la memoria di queste pagine gelide, e dunque fiammeggianti, mentre visitavo quella che per me è stata “la” mostra di un anno indubbiamente pericoloso, quella su Giuditta curata da Maria Cristina Terzaghi alle Gallerie Nazionali d’Arte Antica a Palazzo Barberini. Ma non c’è niente da fare: se per due secoli il tema ha ossessionato i pittori di tutta Europa il motivo è proprio l’unione di violenza e seduzione che la pur rigorosissima mostra romana inalbera a sottotitolo, lo «straordinario connubio di Eros e Thanatos» di cui parla la curatrice nel suo esemplare saggio in catalogo. I versi della Galeria del Marino (1620), gigantografati all’ingresso, parlano chiaro: «Di vin, di sonno, e di lascivia pieno / Versò con l’alma l’ultimo singhiozzo; / E lavò col sangue il letto osceno. / Ch’era d’infame amor macchiato, e sozzo».
Il tema veterotestamentario di Giuditta e Oloferne, variamente sovrapposto alle altre eminenti decollazioni delle Scritture e del Mito (del Battista da parte di Salomè, di Golia da parte di David, della Medusa da parte di Perseo), ha rivestito nei secoli diversissimi sovrasensi allegorici: teologici e politici anzitutto (come testimonia la galleria di femmes fortes nella letteratura coeva, accuratamente studiata in catalogo da Paola Cosentino, o la Giuditta di Donatello simbolo della rivolta contro i Medici nel 1494, prima d’essere sostituita in Piazza della Signoria dal David di Michelangelo).

Ma come dimostra l’insistenza sul tema da parte del più canonico dei poeti – il Petrarca schiavo d’amore d’una progenitrice del Divin Marchese – la sua pregnanza sadomasochistica non si può disgiungere dalla fascinazione che da sempre esercita. In catalogo lo psicoanalista e connoisseur Filippo Maria Ferro indaga con acutezza le «situazioni psicologiche latenti» di fenomeni come l’autoritratto in guisa di Oloferne – come farà Leiris tre secoli dopo – prima di Caravaggio e poi di Cristofano Allori (che si fanno decapitare in effigie dalle cortigiane Fillide e Mazzafirra) ma anche, viceversa, l’immedesimazione nell’oltraggiata vindice da parte di Artemisia Gentileschi (i cui tratti del resto, specie nella versione di Napoli fra le diverse che ci ha lasciato, non paiono differire troppo da quelli dell’Autoritratto come allegoria della pittura della Royal Collection di Londra, sempre che sia davvero un autoritratto; c’è invece chi la riconosce nell’ancella Abra, che diversamente dalla tradizione è più giovane della padrona e partecipa attivamente all’eccidio; insisterà comunque, Artemisia, con l’ancora più cruento e raggelato Giaele e Sisara di Budapest).


«Vi faccio vedere io quello che può fare una donna», scriverà Artemisia a don Antonio Ruffo nel 1649 (Ferro ricorda come due anni prima fosse uscita l’opera “protofemminista” del gesuita francese Pierre Le Moyne, La galerie des femmes fortes, che associava alle icone della tradizione quelle delle moderne donne di potere nell’Europa degli Stati-Nazione), e appunto lo aveva fatto vedere: l’equazione fra la spada di Giuditta e il pennello dell’artefice è irresistibile (replicando quella, più sottile, della Punizione di Marsia di Tiziano), e lo psicoanalista non ha motivo di resistervi.
Ma proprio l’impeccabilità filologica della mostra ci permette di guardare al viluppo psichico dell’episodio in una luce diversa. Ricorda infatti Terzaghi che il primo proprietario del quadro di Caravaggio, il ricco banchiere Orazio Costa (che gli commissionò altri due capolavori, il San Francesco in estasi di Hartford e il San Giovanni Battista nel deserto di Kansas City), conservava l’opera con tale gelosia da coprirla con «taffetà dinanzi», onde impedire che venisse copiata. Cioè lo stesso comportamento che tre secoli dopo terrà Jacques Lacan con L’origine du monde di Gustave Courbet, che l’allora fiancheggiatore dei surrealisti aveva chiesto ad André Masson – suo cognato, oltre che mentore di Leiris – di coprire con una scansia da lui istoriata (prima che nel ’95 i suoi eredi cedessero la tela-scandalo al Musée d’Orsay; ma già il primo proprietario, il diplomatico turco Khalil-Bey, l’aveva coperta con un piccolo sipario che sollevava per gli ospiti più di riguardo).

Lasciando da parte la controversa ipotesi che anche il “taglio” dell’Origine sia effetto di una “decollazione” (quella della modella Constance Quénieaux, la cortigiana di Khalil-Bey che in origine sarebbe stata ritratta a figura intera), colpisce che la vicenda secolare di Giuditta si lasci riassumere in un analogo cortocircuito di occultamento e svelamento. L’intera mostra di Palazzo Barberini, infatti, s’impernia su un Prima e un Dopo Caravaggio, ossia appunto la «deflagrazione» rappresentata dalla Giuditta Costa, la quale nonostante le cautele del committente – conclude con un sorriso la curatrice la sua bellissima scheda in catalogo – ha determinato «la precoce fortuna visiva del capolavoro», flagrante in effetti nelle opere post-1610 (a partire proprio dalla giovane Artemisia). E la novità più clamorosa di Caravaggio consistette appunto nella scelta di mostrare «l’attimo di massimo clamore emotivo», cioè l’actus tragicus del fendente di scimitarra che Giuditta vibra sulla carotide di Oloferne, con conseguente effetto splatter sui candidi lini soggiacenti.

In epoca medievale la moralizzazione a tinte macabre non si peritava d’impiegare ai propri scopi anche la storia di Giuditta, e senza affatto celare il suo momento topico (così per esempio Guariento di Arpo, 1350 circa, nella Cappella Carrarese di Padova).

In seguito però – eloquenti le interpretazioni, fra loro diversissime, di Botticelli o Mantegna – l’iconografia rinascimentale instaura un tabù idealizzante che è appunto Caravaggio a infrangere (indipendentemente dall’ipotesi ricorrente che si sia ispirato all’episodio di cronaca nera più clamoroso del tempo, cioè il parricidio e poi la decapitazione, nel gennaio del 1599, di Beatrice Cenci; come riporta in catalogo Elisabeth Cohen il tasso di omicidi, nella Roma del tempo, era duecento volte superiore a quello di oggi, e in quel periodo Caravaggio poté assistere ad almeno quindici esecuzioni capitali…): prima di lui la storia veniva narrata solo nei suoi sviluppi successivi, con Giuditta e l’inseparabile ancella Abra che fuggono verso Betulia col trofeo del capo di Oloferne al seguito.
Come per altri aspetti della sua rivoluzione, peraltro, nella cultura manierista di qualche decennio prima è dato rinvenirne prodromi eloquenti. La mostra si apre infatti con un sorprendente Pierfrancesco Foschi (il cui discepolato nei confronti del Pontormo è evidente dalle scelte coloristiche), che intorno al 1540 già fa incidere alla sua eroina la nuca di Oloferne; ma Terzaghi mostra come l’impaginazione di Caravaggio (dal taglio alla gola del condannato supino alle nerborute braccia in parallelo della giustiziera) ricordi da vicino quella di una stampa dello stesso periodo di Giovan Battista Scultori, conservata all’Albertina di Vienna, tratta da un originale perduto di Giulio Romano. Già Mina Gregori aveva indicato in quest’ultimo un precedente tenuto d’occhio dal Caravaggio della Giuditta, indicando però Gli Amanti conservati all’Ermitage: col medesimo parallelo fra le due donne in scena, la giovane seduttrice e l’anziana testimone, o meglio voyeuse.

Una fonte che accentuerebbe la sovrimpressione fra l’amplesso e il fatto di sangue susseguitisi sul medesimo letto osceno, per dirla col Cavalier Marino, entrambi a lungo proscritti ma che Caravaggio fa deflagrare con lo smaccato erotismo della sua Giuditta. L’espressione ineffabile del volto e la reazione evidente del suo corpo, malgrado i tanti tentativi d’imitazione, restano in effetti ineguagliati. Ma proprio il dettaglio di quegli occhi nerissimi, misteriosamente oscurati (come saranno chiusi quelli dello stesso personaggio che campeggia nella Quinta del Sordo di Goya) in una scena dalla così scandalosa visibilità, allude alla forclusione dell’osceno, in senso etimologico, che con strategie diverse avevano praticato i suoi grandi predecessori.


Sulla volta della Sistina Michelangelo, per esempio, non aveva resistito al mostrare il corpo titanico di Oloferne, oscurandone però il tragico moncherino; ma soprattutto aveva scelto di rappresentare il veto a quella vista oscena presentandoci di spalle la vendicatrice, nel momento in cui occulta il trofeo (ennesimo – cioè forse primo – autoritratto dell’Acéphale, per dirla con Bataille?) con un velo provvidenziale che ha la stessa funzione della tenda semisollevata in fondo alla scena.

Sarà proprio questo effetto di lembo (come lo chiama Georges Didi-Huberman nella Pittura incarnata), in forme diverse, a scandire la storia occulta di Giuditta sino all’effrazione operata da Caravaggio: il quale infatti solleva sulla sua scena una tenda che vi funziona, ormai, come un sipario. Un dettaglio che in questa «istoria», per dirla con l’Alberti, giocherà sempre un ruolo strutturalmente decisivo (del resto nel racconto del Libro di Giuditta, nell’Antico Testamento, si insiste sul fatto che al popolo di Betulia l’eroina porterà non solo la testa del generale assiro, ma anche «le cortine sotto le quali giaceva ubriaco»). Di particolare perspicuità, in mostra, il grande quadro di Tintoretto conservato al Prado, che ci presenta come di consueto la storia un attimo dopo l’actus, ma ostenta questa censura replicandola all’interno dell’immagine (vero teatro nel teatro). Infatti la sua Giuditta, che ne distoglie lo sguardo, stavolta non vela la testa mozzata bensì il cadavere mutilato: come a voler coprire le tracce del delitto.

Nella sua stessa interpretazione di almeno vent’anni precedente, nello stesso Prado, l’eroina non compie «un gesto simile» (come dice la scheda in catalogo) bensì quello simmetricamente opposto: prima dell’actus quel lembo solleva, per mostrarci l’Oloferne ebbro e ignaro sul quale già solleva la lama indirizzando lo sguardo sullo stesso bersaglio.

Se la scena di Giuditta è un revênant irresistibile nella nostra memoria visiva, è allora per la dialettica dell’osceno che meglio di ogni altra incarna. La ritroveremo, nei suoi termini essenziali, sino all’estremo avatar rappresentato dal mirabile inserto a cartoon della storia di O’Ren Ishii all’interno del primo Kill Bill (2003) di Quentin Tarantino: dove la ferita allo scellerato Matsumoto è inferta al ventre anziché al capo e con una katana anziché una scimitarra, in omaggio all’ambientazione giapponese, ma dove si produce il medesimo effetto di lembo: la piccola O’Ren assiste al primo actus tragicus, l’eccidio dei genitori, al riparo delle cortine del letto; e poi riuscirà a consumare la propria vendetta, e a difendersi dalle sue conseguenze, dalla medesima postazione.


Giuditta ci trascina sul set cruento dell’agone erotico come spettatori (per questo deve necessariamente campeggiarvi l’ancella, a dispetto del suo ruolo quasi sempre passivo), e così ci chiama a correi: tanto della seduzione che della punizione che, alternativamente, subiamo ed esercitiamo. Se non è vero piuttosto che, come ci dice Leiris, sono la stessa cosa.
Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento
a cura di Maria Cristina Terzaghi
Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini, 26 novembre 2021-27 marzo 2022
catalogo Officina Libraria, 183 pp. ill. col., € 29,50