Un altro modo di raccontare

La storia di Antonino Paraggi, protagonista dell’Avventura di un fotografo di Italo Calvino, si apre con l’immagine dei cittadini che escono la domenica “con l’astuccio a tracolla” e “tornano contenti come cacciatori dal carniere ricolmo”. Una similitudine analoga si trova in un testo molto noto di qualche decennio prima, la Breve storia della fotografia di Walter Benjamin. Fotografia come caccia, atto predatorio, legato alla morte ma anche dotato di un fascino mistico, se è vero, così prosegue il racconto di Calvino, che “alcuni aggiungono il sottile piacere delle manipolazioni alchimistiche nella stanza oscura”. Ma soprattutto questo metaforico carniere è ricolmo. Troviamo qui molti dei topos fondamentali legati all’immagine fotografica che la letteratura, a partire dal secondo Ottocento, ha affrontato in maniera ossessiva.

Non stupisce, quindi, che il legame fra scrittura e fotografia sia un aspetto, sebbene ignorato a lungo, che si è sia ormai imposto con forza negli studi letterari: nella consapevolezza, come scrive Luigi Marfè in «Un altro modo di raccontare». Poetiche e percorsi della fotoletteratura, che “non si può comprendere l’epoca attuale se non nel segno del visivo”. E si potrebbe aggiungere che il discorso non riguarda solo la nostra contemporaneità: se è vero, come ha scritto Mitchell, che il pictorial turn è un tropo metastorico che si ritrova in periodi e contesti diversi e non si limita a descrivere il presente, le suggestioni venute dagli studi di cultura visuale hanno messo a disposizione strumenti fondamentali per rileggere la lunga durata della storia letteraria; e ce lo mostra bene il saggio di Marfè, che inserisce il discorso estetico-epistemologico sulla fotografia all’interno di una genealogia lunghissima che comprende l’invenzione della camera oscura, la trattatistica cinquecentesca e, soprattutto, la messa a punto di nuovi strumenti ottici fra Sette-Ottocento (come aveva d’altronde ben spiegato Jonathan Crary nelle Tecniche dell’osservatore del 1990). Rivoluzioni tecniche che modificano i regimi scopici della modernità e convergono nell’invenzione della fotografia che ha avuto un impatto enorme sull’immaginario e sulla scrittura letteraria, tanto da far parlare, per l’appunto, di “fotoletteratura”.

John Berger, A Seventh Man

Si tratta di un’etichetta per certi versi scivolosa, che Marfé riprende in particolare dal dibattito francese (il termine era stato utilizzato da Jean-Pierre Montier, per esempio, nell’introduzione a un volume sulle Transactions photolittéraires), il cui valore euristico sta nella possibilità di individuare una complessa e stratificata rete di relazioni fra le due componenti del termine, che può investire dimensioni diverse: lo studio tematico, la riconfigurazioni di dispositivi formali e retorici, il dialogo inter-artes, la creazione di veri e propri prodotti intermediali come i fototesti. Proprio all’insieme di queste questioni è dedicato il libro di Marfè, che non è uno studio su quella categoria particolare, e sempre più visibile e frequente, che è il fototesto (sebbene la maggior parte dei casi di studio sia dedicata a questa forma), ma piuttosto un tentativo di riflettere e problematizzare alcune questioni fondamentali che riguardano la relazione fra letteratura e fotografia. O meglio: comprendere come le innovazioni tecniche, la diffusione delle immagini, l’uso della fotografia si riflettano e trasformino l’esperienza letteraria della scrittura e della lettura, investendo un ampio raggio di possibilità: la connotazione del soggetto (così nei testi del modernismo la fotografia viene interpretata come allegoria “di inquiete indagini dell’io”), la funzione retorica e narrativa (finanche etica) della memoria, la ri-creazione di un’esperienza spaziale, il problema della rappresentabilità (a questo aspetto sono, per esempio dedicate pagine molto belle sull’Abicì della guerra di Brecht), la relazione fra immagine mentale e immagine fisica, il problema dell’impegno, quello della spettatorialità (riassunto nell’efficace metafora del “naufragio con spettatore” utilizzata per leggere le raffigurazioni dell’attentato al World Trade Center) e soprattutto, seguendo un’affermata tradizione critica con capotesta Roland Barthes (che torna continuamente, insieme a Susan Sontag, in queste pagine), l’affinità fra la rappresentazione e la morte – “la morte prima di tutto è un’immagine”: sono le parole di Gustave Bachelard ricordate nell’introduzione.

Non a caso si ritrovano spesso, nel saggio, le immagini del ritaglio, del taglio, del vuoto, della soglia, dell’erosione, della rimozione: che funzionano come categorie metodologiche per indagare la dialettica che si instaura fra la visibilità della fotografia e tutto ciò che viene lasciato fuori (le fotografie, ricorda Marfé con Lacan, “affascinano per ciò che tagliano fuori dall’obiettivo”), magari dimenticato o rievocato solamente dalla retorica verbale: che siano le soglie delle fotografie di Walker Evans in Sia ora lode agli uomini di fama, le immagini che cercano di superare l’afasia del protagonista di Troppo forte incredibilmente vicino, e che tuttavia “non servono a dire di più, ma a confermare il vuoto”, o paradossalmente quegli usi della fotografia che rendono “visibile l’‘usura’ dell’io”, o ancora le evaporazioni fantasmatiche dei pedinamenti di Sophie Calle o dei fototesti di Sebald. Ciò che colpisce dei moltissimi esempi fatti da «Un altro modo di raccontare» (che continuamente si muove fra discorso teorico e analisi di casi di studio), è il felice tentativo di analizzare l’immagine fotografica al di là del suo portato documentario: che siano le foto realmente documentarie di Walker Evans, o quelle nate dalla collaborazione fra Mohr e Berger (a quest’ultimo appartiene la definizione messa a titolo da Marfè) o ancora i paesaggi di Luigi Ghirri, oppure quelle dell’infra-ordinario che rappresenta il luogo dell’inventio fototestuale privilegiato nel panorama contemporaneo, “la peculiarità del fototesto come genere intermediale”, sostiene Marfè, ma in realtà il discorso vale benissimo per tutte le poetiche fotoletterarie percorse nel libro, “è quella di sfidare l’evidenza documentaria dell’immagine, impiegandola come esca narrativa, strategia retorica, emblema, o più in generale come occasioni di riflessione epistemologica”.

Jonathan Safran Foer, Extremely loud and incredibly close

Non a caso alcune delle pagine più riuscite del saggio sono proprio quelle dedicate alla rappresentazione degli spazi (in particolare quelli urbani, di cui si individuano due tradizioni principali: quella delle scritture documentarie e quelle legate alla flânerie), dei viaggi, dei paesaggi, le cui immagini sono lette non semplicemente come la testimonianza di un luogo, ma piuttosto come figure del desiderio o come tentativi di ri-creazione dell’esperienza. Si pensi alle pagine dedicate a A Fortunate Man di John Berger e Jean Mohr, in cui “al centro c’è l’esperienza del luogo, in quanto spazio sociale e narrativo”, o al contrario in A Seventh Man, degli stessi autori, la cui strategia sembra essere opposta: lo spaesamento, il non essere a casa in nessun luogo; o ancora il dialogo fra letteratura e fotografia nella rappresentazione di un ambiente come spazio (o meglio linguaggio) del desiderio (è ancora il caso di Berger, ma questa volta della sua flânerie).

Desiderio e morte sono forse i due poli interpretativi che più spesso ritornano nel saggio di Marfé: connessi, in una certa misura, dall’eterno problema (etico, estetico, politico, epistemologico) della rappresentabilità poiché “descrivere la relazione tra letteratura e fotografia significa allora esplorare forme di referenzialità non mimetica, ridisegnando i confini tra il visibile e l’invisibile, il dicibile e l’indicibile, la verità e la finzione”.

Luigi Marfè
«Un altro modo di raccontare». Poetiche e percorsi della fotoletteratura
Olschki, 2021, pp. XX-186, € 22

In copertina: Sophie Calle, What Do You See?, 2013 © Sophie Calle / Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris; courtesy the artist and Paula Cooper Gallery, New York

insegna Critica e Teoria della Letteratura all’Università di Milano. Si è occupato di poesia del secondo Novecento, narrativa contemporanea e dei rapporti fra teoria letteraria e cultura visuale. Ha pubblicato i volumi “Il chierico rosso e l’avanguardia. Poesia e ideologia in ‘Triperuno’ di Edoardo Sanguineti” (Ledizioni 2018) e “Storie a vista. Retorica e poetiche del fototesto” (Mimesis 2020).

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