In una pagina di Alla soglia dell’immagine, l’ultima appassionante ricerca di Andrea Pinotti dedicata all’universo delle immagini immersive, l’autore propone una genealogia del concetto di ‘zona’ che è al contempo uno scandaglio gettato nel Novecento più inquieto: ‘zona’ è «un territorio marginale, di soglia fra la vita e la morte, il presente e il passato, la realtà e l’immaginazione», frequentato da virtuosi dello spaesamento come Jean Cocteau, Andrej Tarkovskij, David Lynch. La mappatura potrebbe certo allargarsi a includere Zona di Geoff Dyer, allucinata moviola letteraria di Stalker, e senz’altro anche, per le connessioni concettuali che emergeranno immediatamente, la raccolta Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia) di Paul Celan; ma viene soprattutto alla mente un passaggio del Passagenwerk, senz’altro noto a un profondissimo conoscitore di Walter Benjamin come Pinotti: «Bisogna distinguere nel modo più netto soglia [Schwelle] e confine [Grenz]. La soglia è una zona [Zone], una zona di passaggio».
Cosa significa collocarsi, con Pinotti, alla soglia dell’immagine? Significa anzitutto riconoscere che, come suggerisce Benjamin, non ci troviamo di fronte a un confine, bensì in un luogo di transito. Da Lessing in poi, il discorso sulle immagini è stato monopolizzato da cartografi che hanno tentato di delimitarne puntigliosamente i confini (Über die Grenzen der Malerei und Poesie, ‘sui confini di pittura e poesia’ è giustappunto il sottotitolo del Laokoon). Questa secolare impresa di demarcazione è stata scossa alle fondamenta dall’avvento dell’universo delle immagini immersive, dalla realtà aumentata a quella virtuale degli avatar, alla soglia del quale ora ci troviamo (la metamorfosi di Facebook non è che la punta dell’iceberg di una grande trasformazione che, prevedo, più che dal piuttosto esangue Meta, sarà trainata dalle eccitanti piattaforme per videogiochi). Lo «scorniciamento» (neologismo introdotto da Pinotti che ricalca l’inglese unframedness) delle immagini immersive rende infatti di principio impossibile la delimitazione tra la realtà e le sue rappresentazioni, con il risultato di trovarsi su una «soglia […] sulla quale siamo costretti a indugiare, senza poterci dire stabilmente a casa (un-Heim) né nell’una né nell’altra dimensione».
Il riferimento al perturbante freudiano (das Unheimliche) caratterizza nella maniera forse più aderente la nuova condizione immersiva, segnata da un’opacità cognitiva che può portare a rimpiangere la ‘lucidità’ delle precedenti forme simboliche, in primis la prospettiva (la quale tuttavia, ci informa l’autore, nella sua storia ha sempre disinvoltamente commerciato con il coinvolgimento immersivo dello spettatore). Dalla sua soglia, Pinotti indica tuttavia la possibilità che il perturbante si muti in stupore, a patto che l’immersione nei mondi virtuali non si risolva in una mistificante medium-blindness: «Non si tratta tanto di produrre un’illusione perfetta del reale […] ottenuta attraverso una compiuta trasparentizzazione del medium imposta a un pubblico passivamente disposto a lasciarsi ipnotizzare dall’apparato […]; si tratta, piuttosto, di suscitare, nel mantenimento della coscienza di una mediazione, lo stupore di fronte al modo in cui quella mediazione stessa riesce a simulare il reale, realizzando al contempo la sensazione (unheimlich) di realtà e di irrealtà. Indugiando, dunque, sulla soglia». Ci pare che questa caratterizzazione delle immagini immersive possa essere accostata a quella del fantastico come esitazione ontologica, come stato di incertezza tra reale e irreale fornita da Tzvetan Todorov; per certo ne condivide la persuasione sulle virtualità emancipatorie di questo tipo di esperienze, che dà linfa all’impresa di una «critica an-iconologica, nel senso di un esame delle possibilità e dei limiti delle immagini che negano se stesse».

Si è fatto riferimento, a proposito della tecnica prospettica, all’attenzione di Pinotti per la longue durée, a ciò che egli, sulla scia di studi propagatisi soprattutto dal Nord Europa, chiama «archeologia dei media». Anche questo è indugiare sulla soglia, se ciò significa, come annota ancora Benjamin, essere «a stretto contatto con la terra, le sue tradizioni e forse i suoi dèi» (San Gimignano). Alla soglia dell’immagine è una riflessione sul futuro prossimo e anche sul passato dei media visuali, osservato dalla specola, avrebbe detto de Certeau, della sua partie perdue. Come Victor Stoichita, in quel libro per molti versi affine che è L’effetto Pigmalione, ha indagato «la persistenza caparbia del simulacro all’interno della storia della mimesis», così, entro i medesimi quadri, Pinotti studia la persistenza caparbia delle immagini immersive, alle quali appartengono, lo scopriamo leggendo, gli stessi simulacri. Dallo specchio d’acqua che fa da supporto al ritratto di Narciso, al trompe l’œil, ai panorami e alle fantasmagorie ottocenteschi, per arrivare al cinema e ovviamente ai dispositivi per la realtà virtuale, non c’è medium visuale che non sia indagato nel libro, in cerca della sua latente o manifesta propensione all’immersività.
Come l’autore tiene a sottolineare in conclusione, il racconto delle immagini immersive fa spesso uso di miti, favole, narrazioni. Si tratta di un approccio particolarmente fecondo, anche per i suoi riflessi nel campo degli studi letterari. Il ricorso alla letteratura suggerisce infatti un ripensamento dell’iconologia letteraria, ambito di studi illustrato in passato da Theodore Ziolkowski e George P. Landow e, in ambito italofono, da Gennaro Savarese e Lea Ritter Santini. Passato al raggio rivelatore di intuizioni presenti in particolare nella studiosa citata per ultima, il ricorso alla letteratura in Alla soglia dell’immagine suggerisce di riformulare in senso etimologico la disciplina dell’iconologia letteraria, da intendersi ora come studio del discorso sulle immagini svolto all’interno dei testi letterari. Perché non soltanto i filosofi o, con i loro mezzi (William J. T. Mitchell le chiama metapictures), gli artisti, ma anche i poeti e gli scrittori sanno dire cose interessanti sulle immagini.

A un diverso livello, questo aspetto del libro di Pinotti invita a indagare la dimensione immersiva nella fruizione dei testi letterari, lungo direttrici solo in parte esplorate dagli studi pionieristici di Guillemette Bolens e di Marco Caracciolo, o in quella straordinaria esperienza costruttivo-conoscitiva che è il Laboratorio di Architettura Letteraria di Matteo Pericoli. Pinotti racconta che la sua ricerca prese avvio da un apologo cinese caro a Benjamin, nel quale si narra del pittore che scomparve all’interno di un quadro. In un’altra versione, riesumata con squisita filologia dall’autore, il protagonista è invece un poeta che, invaghitosi della figlia del governatore, quale compensazione per la passione frustrata inventa un personaggio femminile di nome Li-Fan; quando costei lo invita a raggiungerla, il poeta le chiede come fare: «Scrivi te stesso nel libro – risponde lei, – proprio come hai fatto con me». Pinotti giustifica l’inclusione di questa versione del racconto nella galleria delle immagini immersive osservando che «nella tradizione calligrafica cinese è pur sempre il pennello il medium che rende possibili i due registri della parola e dell’immagine». Resta la suggestione a indagare le modalità con le quali ci immergiamo nei testi, un’altra ‘zona’ che l’umanità frequenta da millenni.
Andrea Pinotti
Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale
Einaudi, 2021, pp. 227, 16 tavole f. t., € 25
In copertina: Francesca Woodman, Italy, 1977-78 (particolare)