Quella sera a New York è previsto un successone. Almeno duecento persone, molte più di quante ne assistano di solito ai dibattiti sull’arte contemporanea del severo Whitney Museum. Ma quel 25 febbraio 1976 la biglietteria va in tilt: si presentano in tremila. La serata s’intitola Articulate Muscle, The Male Body in Art: al centro della sala hanno montato un piccolo podio circolare sul quale si esibiscono a turno, nelle loro pose classiche o “serie”, tre culturisti. Il più atteso è l’imbattuto campione di tutti gli ultimi concorsi specializzati: ha un cognome impronunciabile, il viso di un cartone animato, l’accento (se gli venisse chiesto di parlare) di Sturmtruppen. E un corpo mostruoso. Il trionfo definitivo è quando Arnold Schwarzenegger – è lui la star, certo – si mette nella posa del Pensatore di Rodin. Il format prevederebbe che i soloni della critica più hip commentino dal vivo quelle opere d’arte viventi, ma le signore (e i signori) di Village Voice e del New Yorker balbettano, sospirano a bocca aperta. Subito si fiondano a immortalarne l’icona Robert Mapplethorpe e Andy Warhol, ma ormai Arnold pensa ad altro. Quella sera infatti il videomaker George Butler è alle ultime riprese di un documentario che farà epoca e lancerà la sua icona ben al di là della cerchia hipster: Pumping Iron esce l’anno dopo (al festival di Cannes Arnold spopola in slippino sulla croisette) e sdogana definitivamente il bodybuilding dalla “sottocultura” appiccicaticcia nella quale era sino ad allora relegato. Cinque anni dopo John Milius lo sceglie per Conan il barbaro; due anni ancora e con James Cameron sarà Terminator. Lo vorrebbe anche Kubrick, in Full metal jacket, ma Arnold è impegnato; per interpretare il sequel della saga dei persecutori androidi venuti dal futuro spunta trenta milioni di dollari: per Hollywood un record assoluto.

Con Pumping Iron siamo ancora ben lontani dal momento in cui il nuovo filosofo col martello e media star Peter Sloterdijk, in Devi cambiare la tua vita, contemplerà anche l’allenamento sportivo (insieme agli esercizi spirituali, alla dieta e alla vaccinazione) fra le pratiche di ascesi e «antropotecnica» con le quali, almeno dalla classicità argentea, l’essere umano scolpisce sé stesso (nel ’93 s’era già divertito a scrivere di Terminator 2 il cui protagonista, «il più grande austriaco vivente», «nella mischia resta freddo come un mercante di gioielli, insensibile come un Apollo di pietra, una macchina angelica»). Una “scultura” che la “cultura”, da un certo momento in avanti, ha inteso solo dell’anima o della mente: di quello insomma che Santa Teresa d’Avila chiamava «castello interiore». Ma sempre di costruzione si tratta. L’espressione italiana per bodybuilding deriva infatti dal concetto di «cultura fisica»: cioè dalla coltivazione del fisico, al pari di qualsiasi altro talento.

Non è un caso che la figura del culturista si codifichi, col prussiano Eugen Sandow, a fine Ottocento: quando si precisa pure, cioè, l’icona del dandy. Entrambi sculture che plasmano homo come pura esteriorità, forma quintessenziale, mezzo senza fine: e infatti Baudelaire definiva il dandy un Ercole senza fatiche da assolvere. Questa pure la chiave di lettura data al fenomeno culturista da Fabrizio Patriarca che, al suo quarto libro da 66thand2nd, torna ai livelli scintillanti del primo Tokyo transit. Critico di formazione (che esordì con un saggio su Leopardi e la moda ora, si capisce, tutto da rileggere), da un pezzo ha mollato l’accademia senza rimorsi: ma con Pumping Arnold la scrittura saggistica si conferma – non so quanto gli faccia piacere sentirselo dire – quella a lui davvero congeniale. La leggibilità “pop” è assicurata dallo stratagemma di intercalare le acuminate riflessioni sull’«oggetto Schwarzenegger […] come una fonte di segni orientati […] e orientanti» («uno dei segni più carichi del Novecento») con una serie di gustosi siparietti presi live da una palestra di borgata, campionando le battute di allenatori e palestrati con verve non solo etnografica (condivisibile l’irritazione sull’«Acquario» in cui trasformano i set subalterni «i romanzieri italiani»), ma come attendibili portavoce della tesi di fondo (non può non essere citato Walter Siti, ma senza troppa devozione; la sua gnosi viene equivocata, forse a bella posta, come neoplatonismo): della più fulgida delle culturiste (detta «la Transessuala», per un corpo che tende ormai alla perfetta androginia), algidamente indifferente al sesso come ogni vera statua vivente, ci si chiede «a cosa le serva quel culo di marmo», ma appunto quel culo «non deve servire» proprio a niente. È pura affermazione di sé, celebrazione gratia sui.

Segno perfettamente barocco, dunque, letto sulla scorta del Deleuze della Piega (con pagine notevoli sul segno serpentinato dei muscoli come spire laocoontiche, e i dorsali infatti detti in gergo «cobra»…): ma già Barthes – nel primo dei Miti d’oggi – definiva «barocco» il catch, cioè quello che si sarebbe poi chiamato wrestling. Barocco anche in quanto segretamente luttuoso, il sex appeal dell’inorganico (il compianto Mario Perniola, col quale Patriarca studiò a suo tempo a Tor Vergata, figura nei ringraziamenti) col quale il corpo umano si assimila sempre di più alle macchine gelide che incessabilmente lo scolpiscono (per questo Terminator è, in tutti i sensi, un approdo obbligato): «a me da esse sano nun me po’ frega’ de meno: io vojo esse er cadavere più in forma der lotto 2». Giustissima l’antinomia, posta da Patriarca, dell’immaginario Schwarzy (archetipo lo Yul Brinner di Westworld, con lo spin-off del serial HBO) con la «dimensione uguale e contraria» del post-umano di David Cronenberg, iper-malato quanto è iper-risanato quello bionico di Terminator o Robocop: davvero lo «specchio scuro» di cui parlava Susan Sontag.
Quello sessuale, come vuole Lacan, non è «rapporto»: in quanto l’ultracorpo se ne soddisfa in sé e per sé. Incredibile il monologo di Arnold, in Pumping Iron, sulla «sensazione detta pompa», in cui «i muscoli si ingrossano terribilmente e sembra quasi che la pelle debba esplodere da un momento all’altro. […] È una cosa fantastica. Per me è come venire […], quando poso davanti a cinquemila persone ho la stessa identica sensazione, di venire da mattina a sera» (Sloterdijk parlerà dell’«apoteosi dell’uomo balistico» che è Terminator come di un’esperienza alla lettera estatica, come quella dell’orgasmo appunto – o del rapimento mistico –, che «fa uscire fuori» il soggetto).

Nelle note finali, con superba preterizione di gusto dantesco («io non Enea, io non Paulo sono»), dice Patriarca che alla bisogna non ci vorrebbe lui ma gente come Barthes, John Berger o Geoff Dyer. Ma è proprio lui, invece, il miglior emulo di questi maestri: grazie al punto di vista implicato nella materia (non lontana pure dal Carrère di Yoga). Se la saga di «Marcello» vede in Siti l’officiante del culto, il suo voyeur fanatico, dell’ultracorporeità culturista Patriarca è invece partecipe in prima persona (un po’ come dell’aristocrazia decaduta Lampedusa, nel Gattopardo, forniva un insight perturbante in quanto interno). Anche lui si pompa infatti, seppure senza sperare di eccellere (piacerebbe sapere perché, allora; curiosità che resta insoddisfatta): avendo cominciato solo a quarant’anni e oltretutto contravvenendo alla prima regola, subito spiattellata: «questo sport si basa sulla droga, sull’alimentazione e sui pesi. Nell’ordine che ho detto. L’unica via per la gloria è il Lato Oscuro, poi vedi tu»
Se non il suo corpo dunque, da sempre dopata è la scrittura di Patriarca: autore anabolizzato se ce n’è uno. Ma profittando del segno orientante cui esplicitamente si dedica, come sempre nelle migliori forme-saggio, questa scrittura riflette anche su sé stessa. E dice cose intelligenti sulla «diversione del segno, l’implacabile spasso del postmoderno»; in tanti, da Fredric Jameson in poi, lo hanno letto nella chiave del pastiche, ma più appropriata è la categoria della «parodia»: quella che per esempio «mescola Arnold a qualche pensatore francese di quelli cripto-figo-strutturalisti & oltre» (con lo spiazzamento di livelli, cioè, che fu appunto il Barthes di Miti d’oggi a brevettare). Il virtuosistico culteranesimo pop che è il proprium di Patriarca va in brodo di giuggiole, si capisce, nelle ekphrasis del sorriso sprezzante di Schwarzenegger: il quale da molto presto ha fatto dell’autoironia il suo brand, ma già in Pumping Iron ha capito di essere il personaggio di sé stesso. Sino al capolavoro (solo un cenno, purtroppo, vi fa Pumping Arnold) dell’intemerata su Instagram contro Donald Trump, all’indomani del quasi-golpe di Capitol Hill. L’ex governatore repubblicano della California (due mandati con record di suffragi, e niente Casa Bianca solo per la Costituzione che la interdice a chi non sia nato sul suolo americano) tenne nell’occasione un discorso serissimo, negli intenti e negli esiti: al cui ineffabile culmine, però, non esitò a sfoderare la spada di princisbecco di Conan. Puro genio.
Fabrizio Patriarca
Pumping Arnold. Il mito e il corpo di Schwarzenegger
66thand2nd, 2022, 147 pp., € 15
Una versione più breve di questo articolo è apparsa su «Tuttolibri»
In copertina: Elliott Erwitt, Arnold Schwarzenegger, USA, 1977 © Elliott Erwitt | Magnum Photos