È da pochi giorni disponibile in libreria, pubblicato da Quodlibet, Alberto Boatto. Lo sguardo dal di fuori (pp. 192 ill. a col., € 22), a cura di Stefano Chiodi, catalogo della mostra omonima tenutasi al MAXXI di Roma tra 2020 e ’21. Si tratta di una vera e propria monografia che raccoglie l’inventario completo del Fondo Boatto, donato al MAXXI dalla famiglia del grande critico scomparso nel 2017, la sua bibliografia ragionata e i saggi di Manuel Barrese, Stefano Chiodi, Lara Conte, Andrea Cortellessa, che ripercorrono la sua traiettoria intellettuale. Critico militante, saggista, osservatore acuto dell’attualità, studioso della storia delle immagini, Boatto emerge dalle pagine del volume come una delle figure più originali della cultura italiana del secondo Novecento. Proponiamo qui, per gentile concessione del MAXXI e dell’editore, l’introduzione al volume di Stefano Chiodi.
Concettualmente io mi muovo nel cerchio in espansione dello “sguardo dal di fuori”. […] In compagnia dello “psiconauta” cerco di percorrere l’attuale mutata situazione del mondo, tentando di spremere il “massimo” da uno stato del soggetto che può apparire anche “minimo”, assottigliato, paralizzato. Traccio degli itinerari concreti, partendo da esperienze comuni e, semmai, è il loro percorso a risultare, alla fine, deviato, arricchito, dilatato, con forti apporti di una fantasia fredda e precisa, con aperture sul Cosmo, con tentazioni del e, forse, cedimenti al sacro.
Così scrive Alberto Boatto in una lettera del 1985 ad Antonio Marchetti, al tempo animatore della rivista «Stilo»[1], non solo una delle poche testimonianze autobiografiche presenti nel suo archivio, ma soprattutto una delle rarissime sue riflessioni sulla singolare posizione che aveva occupato sin dai primi anni Sessanta nello scenario culturale italiano.
La parabola intellettuale di Boatto è stata in effetti quella di un uomo simultaneamente ai margini e al centro della vita culturale della propria epoca. Senza ascendenze dichiarate, lontano per temperamento tanto dai “critici poeti” quanto dai “professori”[2], insensibile alla trasformazione del critico nella onnivora figura del curatore, Boatto pratica in modi via via sempre più nettamente delineati una scrittura originale e orgogliosamente inattuale, la cui conseguenza non può che essere “una lunga ed accettata solitudine”, come la definisce nella lettera appena citata. Per conservare autentica la sua voce il critico deve rivendicare a sua volta una propria inemendabile estraneità: eludere il “sistema”, rimanere sul margine praticando uno “sguardo dal di fuori”, come recita il titolo di uno dei libri più intensi e originali, lo sguardo di chi mantiene “un comportamento d’elusione, di scarto rispetto all’assedio massiccio e costrittivo nel quale ci troviamo intrappolati”[3].

Il suo stile rivela subito precise ascendenze filosofiche e letterarie che lo porteranno, specie da metà anni Settanta in avanti, su posizioni defilate, eccentriche rispetto alle parole d’ordine e alle tendenze culturali dominanti. La sua è in effetti una modernità eterodossa e cosmopolita, nutrita di storia, psicoanalisi, antropologia, con un’accentuata predilezione per la sensibilità dei grandi “distruttori” (Sade, Freud, Nietzsche), per la galassia surrealista francese (Bataille, Breton, Leiris), per scrittori e saggisti di sensibilità e percorsi diversi che nutriranno a lungo le sue riflessioni: Ernst Jünger, anzitutto, sfidando i forti interdetti politico-ideologici che a lungo ne avevano schermato l’opera, e poi altri grandi solitari, Blanchot, Borges, Michaux).
La necessità per Boatto di concepire il pensiero “come una esperienza fisica che arriva a modificare plasticamente la sensibilità”, come si legge ancora nella lettera a Marchetti, si manifesta in particolare nella “sinuosità” del suo stile della maturità, caratterizzato da un movimento lento e avvolgente, fluido e imprevedibile che scorre a contatto con le cose, le immagini, le idee. Una scrittura che può così accogliere le torsioni che scopre nei suoi oggetti di studio e più fondamentalmente le torsioni dello stesso interprete, la sua intima ambivalenza.
Nato a Firenze nel 1929, dopo una giovinezza segnata dalla guerra e dalla povertà si era formato senza maestri, mettendo a frutto la sua inclinazione di lettore precoce e onnivoro. Ai primi anni Cinquanta risalgono contatti decisivi con l’ambiente artistico e culturale fiorentino, dove frequenta tra gli altri Primo Conti, che eserciterà una durevole influenza sulla sua sensibilità, e la galleria Numero di Fiamma Vigo. Nel 1961 si sposa con Gemma Vincenzini e si trasferisce a Roma dopo aver vinto un concorso alla RAI, dove lavora ai programmi culturali fino al 1965. In seguito, insegna Storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti, prima a Urbino, dal 1971, e poi a Roma dal 1978 al 1997.

Nel settembre 1964 – pochi mesi dopo la rivelazione del fenomeno pop alla Biennale di Venezia – viaggia a New York, esperienza fondamentale resa possibile anche dai rapporti cordiali con i galleristi Leo Castelli e Ileana Sonnabend. Nella metropoli americana incontra i maggiori esponenti della pop art e del new dada, tra cui Jim Dine, Jasper Johns, Roy Lichenstein e Andy Warhol, di cui visita la Factory. Le riflessioni di Boatto sugli artisti pop e sulla loro capacità di rielaborare immagini, oggetti e miti della società di massa culmineranno nel 1967 con la pubblicazione di Pop Art in U.S.A., il primo libro a offrire in Italia un’indagine sul campo intorno a uno dei fenomeni artistici più dirompenti del decennio. Sempre nel ’67 cura con Filiberto Menna agli Antichi Arsenali di Amalfi, su invito di Marcello Rumma, la mostra L’impatto percettivo[4], un’ambiziosa rilettura delle diverse correnti europee e americane, di cui si delinea una possibile convergenza nel segno di una “oggettualità percettiva” e di un confronto aperto con la pluralità dei linguaggi artistici.

A metà anni Sessanta Boatto entra in rapporto con la galleria L’Attico e con artisti della nuova generazione come Umberto Bignardi, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Hervé Télémaque, di cui presenta le mostre tra il 1965 e il ’67. Numerosissime sono a partire da questi anni le sue collaborazioni a periodici letterari e artistici, come “Arte Oggi”, “Il Mondo”, “il verri”, “Marcatrè”, “Data”, “La città di Riga”, “Alfabeta” e altre. È del ’69 una monografia su Michelangelo Pistoletto[5] e dello stesso periodo articoli e presentazioni di grande acutezza e tempestività dedicati ad altre figure di primo piano, tra cui Pier Paolo Calzolari, Giosetta Fioroni, Luca Maria Patella, Gilberto Zorio.

Nel 1968 dirige i primi tre numeri della rivista “cartabianca”, edita da L’Attico, entrando nel vivo dell’acceso dibattito intorno ai rapporti tra arte, politica, società. La critica – scrive Boatto nel terzo numero, dedicato agli effetti del ’68 sul mondo dell’arte – deve considerare “l’evento artistico come punto d’appoggio” su cui fondare il lavoro personale di scrittura, aprendosi “alla totalità antropologica, sociale, ideologica politica e culturale […] con la stessa apertura e libertà con cui l’artista ha costruito la sua opera”[6]. Nel 1969, dopo la tempestosa conclusione della collaborazione con il gallerista Fabio Sargentini, Boatto fonda la rivista “senzamargine”, pubblicata dall’editore Lerici, di cui dirige un unico e denso numero caratterizzato dall’originale grafica di Magdalo Mussio.

A partire dai primi anni Settanta la visuale di Boatto si allarga progressivamente dall’attualità artistica a un piano più ampio, scelta in cui si legge anche la consapevolezza che nel “sistema dell’arte” il critico occupa ormai una posizione sempre più problematica e marginale. La radicale trasformazione delle pratiche creative, della teoria e della critica d’arte, con l’attacco all’“istituzione-arte”, la deflagrazione di medium e tradizioni espressive e l’avvento di un’arte-in-generale che apriva a “situazioni” e procedimenti effimeri, all’immateriale, al performativo, la stessa volontà degli artisti di assumere il controllo delle modalità di esposizione e commento delle loro opere, come pure l’affermarsi della figura del curatore come snodo essenziale dei processi di valorizzazione dell’arte, sono altrettanti fattori che spingono Boatto verso posizioni fieramente indipendenti e più distaccate dall’attualità.
Di questo periodo è l’apertura a discipline e tematiche di natura diversa, dalla letteratura, alla psicoanalisi e all’antropologia, dalla filosofia agli studi sul mito, che permettono a Boatto di evadere dai limiti convenzionali della critica d’arte per conquistarsi un proprio autonomo spazio sperimentale. Il suo interesse si concentra in particolare su aspetti repressi o rimossi dalla società di massa e dalla cultura tecnologica – il negativo, l’informe, la morte, il non verbale, il mito, la sessualità –, consapevole che queste sfere simboliche e fenomenologiche sono già annesse alla forma di vita tardocapitalista e non posso più essere pensate come “origini” da ritrovare intatte oltre il loro divenire storico.
Episodio centrale in cui si misura “l’abbandono dell’esercizio esclusivo della critica d’arte e l’ingresso in una libera saggistica priva di confini determinati”[7], è la mostra Ghenos Eros Thanatos[8], curata da Boatto alla Galleria de’ Foscherari di Bologna nel 1974, una “mostra-libro”, scrive l’autore, concepita come un “periplo attorno alle situazioni limite della vita”, nascita-riproduzione-morte, “una circumnavigazione del negativo” in cui si compie il passaggio “dal reale al significativo, come un tempo si andava dal profano al sacro, o dal materiale allo spirituale”[9], e il cui testo è caratterizzato da “un collage di proposizioni verbali, di proposizioni visuali e di citazioni”[10], modello di tutta la sua produzione successiva (si veda in questo senso il sorprendente cut up con cui sono realizzate intere parti del volume, ad esempio il capitolo Al di là dedicato all’opera di Gino De Dominicis, che combina l’Odissea con i romanzi di fantascienza, Borges con Einstein). È un taglio in diagonale nell’arte italiana tra anni Sessanta e Settanta – sono esposti lavori di tredici artisti di diverse tendenze – e un’ipotesi critica sulla sorte dell’arte in generale nell’epoca della reificazione universale, con cui Boatto addita la possibilità di tenere simbolicamente insieme il “basso materialismo” della vita e lo spazio culturalmente sovraccarico in cui prende forma l’immaginario.

Un saggio di poco successivo, labirintico e affascinante, Cerimoniale di messa a morte interrotta (1977), è la spia dell’esigenza ormai indifferibile per Boatto di praticare un “pensiero concreto”, di procedere cioè verso il corpo, la sensibilità e l’eros, considerato sin nei suoi aspetti meccanici e crudeli. Il libro suggella questa fase della sua ricerca abbracciando con decisione un piano estetico e filosofico esteso a tutto il panorama della modernità, dove l’autore ritrova ciò che chiama “una forza che mette in scacco qualsiasi progetto, che ribatte all’indietro”, una forza in cui va riconosciuta “la presenza della morte, l’azione del negativo”[11].

L’esperienza dell’arte, il “movimento dell’immaginario”, scrive ancora Boatto nel libro, deve infatti farsi carico del compito di “integrare la morte nella propria strategia”. Si tratta di “tradurre la negazione in un evento reale”, secondo una lezione che da Sade giunge a Duchamp e, sorprendentemente, a Brecht, e creare un enigmatico “cerimoniale” che per “i moderni potrà configurarsi solo interrotto, incompiuto; potrà essere unicamente negativo, e non simulare nessuna compiutezza […], un rito di messa a morte sospesa, oppure deviato, differito, decapitato”[12]. Il cerimoniale interrotto riassume per Boatto il carattere provvisorio, sempre incompiuto dell’arte moderna e rende conto della sua capacità di conferire “una strutturazione inversa alle stesse pulsioni negative operando un deflusso all’esterno dell’aggressività”[13].
Al nuovo clima culturale degli anni Ottanta appartengono alcuni dei saggi più originali e inclassificabili di Boatto: Lo sguardo dal di fuori, del 1981, in cui si esplora la nuova condizione di una Terra e di un’umanità unificate dallo sguardo impassibile dei satelliti, e Il dialogo dello psiconauta, pubblicato nel 1989 ma anticipato su “Alfabeta” cinque anni prima[14]. Se lo psiconauta, come nota Andrea Cortellessa in questo stesso volume, è un “viandante astrale” che serba nostalgia della sua terra natale, consapevole del distacco ormai irreversibile dalla prospettiva terrestre, lo “sguardo dal di fuori” è lo “stadio dello specchio della Terra”[15], uno sguardo nomade e decentrato, insieme quello del naufrago e dell’esploratore spaziale, di chi cioè osserva il mondo da un punto esterno, solitario, remoto, e ne coglie una fisionomia insolita, sorprendente. In un terzo libro, Della ghigliottina considerata come una macchina celibe[16], del 1988, Boatto annette alla categoria delle machines célibataires – esplorata da Michel Carrouges nel seminale, omonimo libro del 1954 – la ghigliottina, strumento di giustizia e insieme dispositivo produttore di senso, riletto attraverso Duchamp, Jarry, Kafka, Poe, Roussel, come macchina essenzialmente “innalzata contro il padre”[17].
Nell’ultima fase della sua attività Boatto dà pieno corso alla sua vocazione di saggista. Se le collaborazioni con gli artisti si diradano, a moltiplicarsi sono testi di grande originalità, a partire da Della guerra e dell’aria[18], che esplora l’atmosfera come luogo dell’immaginario e come teatro della guerra contemporanea. In altri volumi, come i più tardi Narciso infranto, Eros mediterraneo e Di tutti i colori[19], fino a due ambiziosi saggi rimasti inediti – Il gioco dei dadi negli uomini e negli dèi ed Experimenta Mundi – cui attende tra anni Novanta e l’inizio del decennio successivo, Boatto traccia invece un periplo personale attorno a temi e questioni chiave della storia dell’arte, rivisitate da una scrittura lucida e suggestiva. Nel suo “stile tardo” analisi e osservazioni puntuali si combinano sempre con capacità di delineare vaste trame culturali, rivelando ancora una volta l’intima consuetudine con la propria materia e la sua volontà di mettersi integralmente in gioco nella scrittura.

In una lettera del 2011 al critico d’arte Alberto Zanchetta, Boatto riassumeva i temi del suo lavoro in un “elenco” idiosincratico che assume ai nostri occhi il valore di un bilancio finale. Posto sotto il segno di un “saggismo” esteso “al di là dell’arte, nell’esperienza diretta, personale e collettiva”[20], ciò che vi emerge è una progressione dal micro al macrocosmo, complicata da un doppio movimento di sprofondamento ed elevazione, strategia indispensabile per eludere i meccanismi della ripetizione e conquistare un’ardua lucidità su sé stessi e il presente.
- Oggetto – ready made – mega ready made (la stessa Terra inquadrata dal di fuori) (Pop Art – Lo sguardo dal di fuori – Della guerra e dell’aria – La cura dell’edizione italiana del “Marchand du Sel”)
- Negativo, morte (Cerimoniale di messa a morte interrotta – Della guerra e dell’aria – Ghenos Eros Thanatos – Della ghigliottina considerata una macchina celibe).
- Specchio, autocoscienza (Lo sguardo dal di. fuori – Narciso infranto.
- L’autoritratto… – Pistoletto dentro/fuori lo specchio).
- Eros (Ghenos Eros Thanatos – Eros mediterraneo – Casanova a Venezia).
- Conquista dell’elemento aria (Lo sguardo dal di fuori – Della guerra e dell’aria)
- Estensione dello spaesamento (Lo sguardo dal di fuori).
- Rivoluzione spaziale (Lo sguardo dal di fuori – Della guerra e dell’aria – La Terra, la vertigine nel 1987-1988)[21].
Se l’arte ha per Boatto sempre a che fare con un’alterità, con qualcosa d’altro dalla vita, con un’altra scena dotata di una propria temporalità, ecco che l’indifferenza alla cronologia, alle scansioni della storia dell’arte, il montaggio come metodo euristico divengono altrettanti caratteri indispensabili alla sua scrittura più matura. Tutto in effetti appartiene per lui al non-tempo dell’arte, e non contano più neppure le barriere dello spazio, gli steccati che dividono le arti visive dalle altre arti, dalla letteratura, dalla filosofia. Con sottigliezza e ardore intellettuale, dolorosamente anche – la depressione è stata costante sua compagna di vita – Boatto ha così trasformato la pratica della critica d’arte in una peripezia dello sguardo, vero protagonista di una scrittura incentrata sui modi di vedere, alla comprensione dei quali non sono più necessarie né limiti temporali né gli automatismi della storia dell’arte. Ciò che conta è invece costruire un “continuum di figure”, siano artistiche, letterarie, mediali o del mondo storico, presentate in forma di costante interrogazione che coinvolge chi guarda tanto quanto ciò che si guarda.
Tenendo assieme tutte queste componenti, Boatto addita col proprio lavoro una condizione paradossale: quella del sacrificio melanconico di un’esistenza dedita, nell’impossibilità di ogni esito pratico, al tentativo sempre incerto di guadagnarsi un futuro. Se la critica è manifestazione di una forza debole, capace di operare solo in prossimità del suo oggetto, per Boatto essa è stata anche, nel senso effettivo del suo accadere fuori e attraverso l’opera, una forma di investimento esistenziale, di attenzione estrema, di veglia e di illuminazione.

Il 22 marzo del 2006, dieci anni prima della sua scomparsa, Boatto aveva tracciato su una parete della galleria L’Attico il suo epitaffio[22]. È un’ultima, intensa confessione che segnalava la possibilità e la necessità di opporre il lavoro quotidiano, interminabile, del pensiero e della scrittura alla tirannia delle passioni tristi.
solitario
ha dissipato ogni suo giorno
scavando cunicoli
per esporsi
alle erosioni radiazioni del mondo.

[1] Alberto Boatto, Lettera ad Antonio Marchetti, [1985?]. Archivi MAXXI Arte, Fondo Alberto Boatto, BOA/COR/II (E-M). Sulla vicenda di «Stilo» si veda il sito che ripropone testi e contributi di Marchetti, in particolare di Maria Virginia Cardi, Rileggere Stilo, consultabile all’indirizzo http://www.antoniomarchetti.it/2017/06/10/rileggere-stilo/.
[2] Leonardo Sinisgalli, I martedì colorati, Immordino Editore, Genova 1967, p. 49.
[3] Come dentro ad uno specchio. Arte, cultura e civiltà in Alberto Boatto. A proposito della nuova edizione de Lo sguardo dal di fuori, a cura di Roberto Lambarelli, “Arte e Critica”, XX, 74, aprile-giugno 2013, p. 72.
[4] RA2. L’impatto percettivo. Seconda rassegna internazionale di arti figurative, catalogo della mostra a cura di Alberto Boatto e Filiberto Menna (Amalfi, Antichi Arsenali della Repubblica, 19-30 maggio 1967), Tipografia Morara, Roma 1967.
[5] Alberto Boatto, Pistoletto dentro/fuori lo specchio, Fantini, Roma 1969.
[6] Id., Evento come avventura, in “cartabianca”, 3, 1968, p. 6. Cfr. anche il mio saggio in questo stesso volume, pp. 96-117.
[7] Come dentro ad uno specchio, cit.
[8] Il titolo è ispirato a quello del libro della psicoanalista francese Marie Bonaparte, Chronos Eros Thanatos, Imago Publishing Co., London 1952, tradotto in italiano da Maria Serena Mazzi come Eros, Thanatos, Chronos. Ricerche psicoanalitiche sull’amore, la morte e il tempo, Guaraldi, Rimini 1973.
[9] Ghenos Eros Thanatos, a cura di Alberto Boatto, catalogo della mostra (Bologna, Galleria de’ Foscherari, 15 novembre – 16 dicembre 1974), Edizioni Galleria de’ Foscherari, Bologna 1974. Ora in Id., Ghenos, Eros, Thanatos e altri scritti sull’arte 1968-1985, a cura di Stefano Chiodi, L’Orma, Roma 2016, p. 11.
[10] Alberto Boatto Ghenos, Eros, Thanatos e altri scritti sull’arte 1968-1985, cit., p. 6.
[11] Alberto Boatto, Cerimoniale di messa a morte interrotta, Cooperativa Scrittori, Roma 1977, p. 28.
[12] Ibid., p. 29-30.
[13] Ivi.
[14] Alberto Boatto, Lo sguardo dal di fuori: nuove frontiere dello spazio e dell’immaginario, Cappelli, Bologna 1981; nuova edizione, Castelvecchi, Roma 2013. Id., Dialogo dello psiconauta, “supplemento alfabeta”, 6, 56, gennaio 1984, pp. IV-V, poi in Id., Il dialogo dello psiconauta, con tavole di Arnaldo Pomodoro e spartiti musicali di Giorgio Battistelli, Le parole gelate, Roma 1989. Entrambi poi in Id., Lo sguardo dal di fuori. Seguito da Il dialogo dello psiconauta, prefazione di Massimo Carboni Castelvecchi, Roma 2013. Si vedano anche sullo psiconauta le numerose carte autografe con appunti e disegni conservate negli Archivi MAXXI Arte, Fondo Boatto.
[15] Ivi.
[16] Id., Della ghigliottina considerata una macchina celibe, con sei disegni di Enzo Cucchi, Giancarlo Politi Editore, Milano 1988. Nuova edizione: Libri Scheiwiller, Milano 2008. Il libro era stato anticipato nei saggi omonimi usciti su“Figure”, 6, 1983, pp. 55-64 e su “alfabeta”, 10, 110-111, luglio-agosto 1988, pp. 4-5.
[17] Id., Della ghigliottina considerata una macchina celibe, cit., p. 32.
[18] Id., Della guerra e dell’aria, Costa & Nolan, Genova 1992.
[19] Id., Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Laterza, Roma-Bari 1997; Id., Eros mediterraneo, Laterza, Roma-Bari 1999; Id., Di tutti i colori. Da Matisse a Boetti le scelte cromatiche nell’arte moderna, Laterza, Roma-Bari 2008.
[20] Id., Lettera ad Alberto Zanchetta, 22 agosto 2011. Archivi MAXXI Arte, Fondo Alberto Boatto, BOA/COR/3 (O-Z).
[21] Ivi.
[22] Cfr. D’altronde sono sempre gli altri che muoiono. D’ailleurs, c’est toujours les autres qui meurent. Un epitaffio a sera, catalogo di esposizione (Roma, L’Attico, 3-26 marzo 2006), con un testo di Marco Lodoli e fotografie di Alessandro Vasari, Fabio Sargentini Associazione Culturale Galleria L’Attico, Roma 2006.
In copertina: Alberto Boatto, 1981, fotografia di Massimo Piersanti