Viene da ragionare una volta di più, in casi come questo, su «cos’è un classico». Fra le numerose e citatissime definizioni dettate da Calvino nel 1981, molto adeguata alla circostanza mi pare la quarta: «d’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura». Non avevo mai letto infatti, prima che lo ristampasse Einaudi (con classicistica nudità, privo di paratesti come ha scelto di presentarlo in una collana, «Frontiere», che pare fatta apposta, e magari lo è; classista è però il prezzo da “strenna”), Un paese di Paul Strand e Cesare Zavattini, opera tanto imprescindibile quanto introvabile (l’unica ristampa, dopo la feticistica princeps del 1955, era stata procurata da Alinari nel ’97); eppure pensavo di conoscerlo per filo e per segno.
Classico per eccellenza del «fototesto» (manualisticamente in genere indicato, a torto, come “primo” pubblicato in Italia) di cui tanto oggi si discorre, di Un paese sono stati realizzati numerosi remakes (da quello dello stesso Zavattini nel ’76 con Gianni Berengo Gardin, Un paese vent’anni dopo, a quello promosso nel ’93 da Linea di confine, con Stephen Shore che sostituì Luigi Ghirri morto l’anno prima; nell’89 proprio Ghirri, insieme a Paolo Costantini, aveva recuperato gli scatti della moglie di Strand e “segretaria d’edizione” di Un paese, Hazel Kingsbury, illuminante backstage dell’opera: il suo testo, Un canto della terra, si legge nella nuova edizione dei suoi scritti, Niente di antico sotto il sole); gli si sono dedicati saggi, convegni e mostre (ultima quella, appunto incentrata sui d’après, appena conclusasi a Sarzana; importante quella curata da Laura Gasparini e Alberto Ferraboschi nel 2017 a Palazzo Magnani, a Reggio Emilia, che ne ha documentato l’avventuroso backstage). E ora che finalmente ce l’ho tra le mani, Un paese, posso verificare l’esattezza tanto del terzo che del dodicesimo lemma di Calvino, malgrado l’uno paia contraddire l’altro: «i classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale» e «un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia». Non c’è fotografo né scrittore che, frequentando luoghi simili a quel paese, non abbia pensato a questo precedente mimetizzato, metabolizzato, da sempre circolante nelle vene: persino in quelle di chi mai lo aveva sfogliato prima. Non può non pensarci persino – o soprattutto – chi parta con l’intenzione di fare tutto il contrario (ulteriore definizione, questa, che mi sentirei di aggiungere alle quattordici di Calvino).
Ma è vero pure che, in sé, questo libro appare diversissimo da come me l’ero immaginato, tanto sentendone parlare. Sicché è vera pure la nona definizione, che contraddice la quarta: «i classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti». Il che ne genera una ulteriore: classico è un testo che, appena viene prodotto, fonda il genere cui da sempre appartiene. O, ancora: classico è quanto, sin dalla prima uscita, appare “naturale”, inevitabile, perentorio. E, più vicina al nostro “caso”: classico è l’esemplare unico di una serie infinita, e infinitamente proseguibile. L’allora sessantenne fotografo americano (al secolo l’ebreo comunista di origine boema Nathaniel Paul Stransky, allievo tanto del “sociale” ed “etico” Lewis Hine che dell’“artistico” Alfred Stieglitz) partecipa a un convegno cinematografico a Perugia, nel ’49, dove parla anche del fotolibro che ha appena pubblicato con un’antologia di testi della letteratura americana curata da Nancy Newhall, Time in New England (gli farà seguito, nel ’52 con Claude Roy, La France de profil); è in quell’occasione che Zavattini lo conosce, e parte subito in quarta proponendo a Einaudi un’intera collana di fotolibri dal titolo «Italia mia» (titolo petrarchesco, dunque, ancorché l’umorosa, splendida prefazione ricordi Petrarca solo in negativo: «circa quarant’anni fa, a scuola il mio professore leggeva in una lettera latina del Petrarca che lui passò da Luzzara, la infamava come un paludoso paese di rane e di zanzare. L’emozione fu tanto grande che balzai in piedi gridando: io sono di Luzzara»). Racconta dunque Za che quei libri dovevano essere simili a un «fascicolo economico, affinché fosse popolare la forma dell’impresa oltre che la sostanza», albi «misti di fotografie e di didascalie come quanti soldi ha in tasca quest’uomo che passa per la piazza, dove sta andando, cosa vuole, cosa mangia». Era dunque una forma ulteriore di «pedinamento», come Zavattini già aveva definito il “suo” cinema neorealista. Così lo chiama, infatti: ogni libro della collana avrebbe dovuto di volta in volta accompagnare «la giornata di un disoccupato, uno sciopero a Sesto San Giovanni seguito dalla mattina alla sera pedinando la famiglia di un operaio, i preti di campagna, i soldati e via di seguito» (mio il corsivo).
Scrivendo della collana a Einaudi, invece, parlava di «film su carta»; Italia mia s’intitola pure, infatti, un soggetto che aveva proposto invano prima a De Sica e poi a Rossellini, un cui episodio si doveva intitolare Un paese dell’Emilia. L’idea in effetti accompagnava Zavattini sin dall’inizio della sua concettualizzazione, sauvage quanto seminale, del neorealismo. Già nel ’40 scriveva (in un Quadernetto di note reso noto da Valentina Fortichiari): «un operatore, un elettricista, un operaio, l’aiuto regista ed io. Viviamo al mio paese quattro, cinque mesi, si spende poco, solo la pellicola. E la trama, lo spettacolo? Non ne ho, tutto mi sembra polvere rispetto all’idea: tre, quattro mesi al mio paese, circondato da una cinquantina di bambini ai quali posso dire in dialetto: ver la bocca de peu (apri la bocca di più). Forse, con questi ragazzi, potremo impadronirci veramente del paese, un paese senza libri, ma con grandi boschi, argini e il Po, cinquanta o cento ragazzi padroni di un paese pieno di peccatori e di artritici».

Un vero e quintessenziale realismo, secondo Zavattini, dovrebbe fare a meno di ogni trama, di ogni invenzione: come aveva scritto a proposito di Umberto D., lo scopo non doveva più essere quello di «inventare una storia che somigli alla realtà, ma di raccontare la realtà come una storia». La famosa scena del risveglio della cameriera, che tanto aveva salato il sangue ad André Bazin, era in tal senso un manifesto. Ma ancora oltre andava l’utopia di Za di non scegliere, non isolare, non gerarchizzarla in alcun modo, quella realtà: «questi che vedrete, che parlano», si conclude la sua premessa a Un paese, «non li abbiamo scelti perché proprio loro avevano qualche cosa da dire, ormai si sa che tutti hanno qualche cosa da dire». L’ideale, allora, sarebbe stato «interrogarne almeno un migliaio, fare un bel librone dando una pagina a ciascun luzzarese». Cioè dare la voce a tutti, fotografare tutto.
Ma (forse proprio perché non si riuscì a farne un fascicolo economico) commercialmente Un paese fu una delusione, come l’edizione di Conversazione in Sicilia che nel ’53 Elio Vittorini aveva corredato delle immagini di Luigi Crocenzi, il fotografo che s’era allevato sin dai tempi del «Politecnico». I prospettati capitoli ulteriori, che «Italia mia» – con la redazione proprio di un entusiasta Calvino e di un virtuoso della grafica editoriale come Oreste Molina – avrebbe voluto affidare a cineasti come Visconti, De Sica, Rossellini, Antonioni, Lattuada e Soldati (ma anche Eduardo), non si fecero mai, e Un paese resterà un esemplare unico (fuori tempo massimo uscirà solo una Napoli di De Sica con immagini di Herbert List: in Germania nel ’62 e solo nel ’68 da Rizzoli). Rimasero così, l’uno e l’altro, sentieri interrotti: fra loro diversissimi prototipi di una fototestualità mai fattasi davvero “genere”, da noi, sino alla vague d’oggi (col povero Vittorini, per la verità, sconciato da un’ultima riedizione Bompiani beatamente ignara del dibattito odierno).
Un libro, tutti i libri: allo stesso modo che un paese, tutti i paesi. A concentrarsi sul suo paese si risolse infine, Zavattini, dopo aver pensato viceversa a «chiudere gli occhi e mettere il dito a caso sulla carta geografica dell’Italia e là dove fosse caduto, nord o sud, andare con Strand, per cercare di diventare italiano oltre che esserlo». È quella che Zavattini chiamava qualsiasità, che passa anche nella saggezza popolare per la quale appunto, si sa, «tutto il mondo è paese». E allora un paese non è il contrario di quello specifico paese: è la stessa cosa, invece. Non è un caso che, dopo molte discussioni, il titolo proposto in origine da Zavattini, Un paese italiano, sia diventato Un paese e basta.
Se la contingenza assoluta della qualsiasità ha finito per assurgere al contrario della contingenza, cioè appunto alla classicità, è perché in qualche misterioso modo incontra il suo contrario. Basta aprire Un paese per rendersene conto. Ogni immagine di Strand, ogni ansa di fiume, ogni lembo di terra, ogni barca e ogni testa di bue, ogni faccia ogni ruga ogni bicicletta poggiata al muro stanno lì, in quel momento, e insieme per sempre. Necessarie e assolute, ora, malgrado allora fossero lì per caso (ma Zavattini, con un filo d’irritazione forse, ricorda invece le pose prolungate cui Strand sottoponeva i suoi compaesani, i segni che prendeva, le sue attese interminabili del momento giusto).

In un classico saggio del ’72 compreso in Sul guardare, John Berger notava come il senso dell’attesa di Strand riuscisse a cogliere regolarmente, in ogni campione di realtà raffigurata, «l’intero corso di una cultura o di una storia che, come sangue, fluisce attraverso quel dettaglio»: nelle sue immagini «si ha la strana impressione che il tempo di esposizione sia la vita intera». Il suo obiettivo «trasforma i suoi soggetti in narratori»: e infatti insieme alle immagini acquista la medesima pregnanza ogni frase, ogni sgrammaticatura, ogni mezzo sorriso di luzzarese riportato da Zavattini («ai miei tempi c’erano parecchi ubriachi e tanti modi di chiamare un bicchiere di vino: gotu, smecmar, lucòt, polach, scàlfar, checu, bicèr, marùch, cuch; adesso bevono anche acqua minerale»; «al Ricovero ci sto bene, Al Ricovero sono le vecchie che litigano sempre, allora la suora si mette a cantare e le vecchie fanno coro e non litigano più»). Dice Berger che i «soggetti comuni» fotografati da Strand «nella loro normalità sono straordinariamente rappresentativi» (mio il corsivo; ci tornerò).
In un bel pezzo su «doppiozero» uno che quelle parti le conosce bene, Marco Belpoliti, ha usato la parola «ieratico», ricordando il precedente delle Langhe mitopoietiche di Pavese; e qualcosa di vero c’è, a leggere quanto racconta a Zavattini, con un filo d’etnografia, il farmacista del paese: «ho visto tante volte dei luzzaresi, che sembrano anime dure, arrivare al Po, sotto sera, in bicicletta, stare davanti all’acqua in silenzio cinque minuti e poi tornarsene indietro, pedalando adagio, come fossero stati in chiesa». Un altro dice invece: «quando c’è la piena nessuno scappa via, tutti stanno sull’argine a guardare fisso l’acqua come se la potessero fermare con gli occhi».

Eppure la trascendenza di questo testo non solo non è riconducibile a nessuna confessione religiosa, ma elude qualsiasi forma di mistica. L’ostentata terragnità di Zavattini è in questo senso molto più agli antipodi dall’eloquenza marxista e cristiana di James Agee di quanto il linguaggio fotografico di Strand – “classicamente” impostato, con tanto di treppiede, soffietto e telo: ben visibili nelle “foto di scena” prese a Luzzara dal figlio di Zavattini, Arturo – avesse preso le distanze da quello solenne e monumentale di Walker Evans (le «statue sognanti» di cui parla Agee).

E distantissimi appaiono fra loro, infatti, due capolavori come Un paese e Sia lode agli uomini di fama, che dopo mille traversie Agee ed Evans avevano infine pubblicato negli Stati Uniti nel 1941 (cinque anni dopo, cioè, il loro viaggio, o pellegrinaggio, in Alabama; ricordando l’amico scrittore precocemente scomparso dirà Evans che per Agee «gli esseri umani erano forse al minimo anime immortali e alla lettera sacre»): non solo per impaginazione ed equilibri fra scrittura e immagine.

Certo quel precedente formidabile veniva tenuto d’occhio da chiunque, da noi, lavorasse all’incontro fra i due linguaggi. Vittorini, per dirne una, giusto nel ’41 aveva inserito diverse foto di Evans nell’apparato iconografico della sua controversa antologia Americana, vero terminus post quem (insieme a Occhio quadrato di Alberto Lattuada, stesso anno) di una coscienza iconotestuale in Italia.
Se non si riesce a immaginare uno stile letterario più distante da quello spregiudicatamente orale di Zavattini, fragrante di spezzature e anacoluti, dalla scrittura letteratissima e dalla sintassi sempre impennata di Agee (il quale in clausola invoca le «porte del Paradiso» di William Blake), una vicinanza almeno funzionale, cioè logistica, è dato riscontrare fra i due libri. Per entrambi i ticket il momento dello scatto, come quello della scrittura, non era infatti che il punto d’arrivo di un processo di assimilazione alla terra ritratta, di un respiro che prima doveva accordarsi con quello vivente della sua comunità: una vera e propria cospirazione. Per questo tanto Agee che Zavattini insistono su cosa mangino le persone di cui parlano, come si vestano, quali case abitino (esemplare la pagina del sillabario per le elementari che l’americano ricopia dopo lo slogan prelevato, senza citarlo, dal Manifesto di Marx ed Engels: «lavoratori di tutto il mondo» con quel che segue). Quelle attese snervanti di Strand, capisce alla fine Zavattini, hanno senso proprio perché è fondamentale per lui acquisire una consuetudine, con Luzzara, della quale il nativo Za ovviamente non ha bisogno (e infatti al libro, travolto dai mille altri lavori, finirà per lavorare per lo più a distanza; mentre l’americano sulle rive del Po ci sta mesi e ci torna a più riprese). Era stato questo medesimo ethos a dettare ad Agee le ingenerose malignità, poste in appendice al suo libro, sull’attitudine viceversa rapinosa, alla lettera, di una fotografa come Margaret Bourke-White che «trova un mucchio di tempo per godersi la vita scattando foto» (ma così, intanto, è arrivata per prima e ha pubblicato il suo libro con Erskine Caldwell, You Have Seen Their Faces, quattro anni prima dei rivali…).
Miss Caterpillar, come pour cause la chiamavano, tra una foto venduta a peso d’oro a Fortune e l’altra se la spassa a pattinare sul ghiaccio, sciare e andare a cavallo; loro, decisamente, no. «Non stanno giocando», dice compunto Evans, e al solito più enfatico Agee aggiunge: «se sorgono complicazioni, è perché cercano di trattarlo [il soggetto del loro libro] non da giornalisti, sociologi, politici, intrattenitori, filantropi, preti, o artisti, ma in modo serio». Coglierà il punto Ghirri quando scriverà, a proposito di Strand e sua moglie, che «la fotografia apparentemente scarna non è il gesto facile di una presa diretta, ma significa come un gesto così semplice, naturale, è frutto di una relazione profonda con l’esterno, come tutto nasca molto più lontano dal momento e dal luogo dello scatto effettivo, in una meditata relazione col tempo, con il luogo, con la propria visione e con quella dell’altro». Mentre in una riunione einaudiana del giugno del ’55 (riportata da Alberto Ferraboschi) così si difendeva Zavattini dall’accusa – ricorrente in ogni discussione sulla fototestualità – di subalternità della parola all’immagine: ai dubbi espressi da una scrittrice innominata (forse Sibilla Aleramo, che aveva preso parte alla presentazione romana di Un paese) secondo la quale «la parola in un libro di questo genere viene sacrificata» replicava che «fare un libro di questo genere è anche un modo di vita, o prima di tutto un modo di vita, il quale influirà sulla parola»: una parola «nata da un contatto così diretto, schietto, da un obbligo di avere visto, di aver fatto delle scale, di avere fatto delle domande e udito delle risposte, insomma di averci spiato un po’ fuori dalla solitudine».
Moralismo e logistica a parte, un modus operandi concettuale – a monte della tecnica e dello stile – in comune c’è. Zavattini lo fa capire con l’aneddoto del dito puntato a caso sulla carta geografica: quel paese deve essere così intimamente conosciuto proprio per farne uno qualsiasi; deve diventare, cioè, tutti i paesi: proprio come i pochi luzzaresi che ha potuto interrogare stanno lì in vece, e in funzione, di tutti i loro compaesani. Nella prefazione a Sia lode ora a uomini di fama Agee lo dice, senza volerlo ma assai esplicitamente, usando una parola quasi tecnica: «non trovammo una singola famiglia che potesse rappresentare adeguatamente l’intero mondo dei fittavoli in quel paese, ma decidemmo che grazie alle tre famiglie con le quali nel frattempo avevamo fatto conoscenza, il nostro lavoro, pur con alcuni limiti, si sarebbe potuto fare. Con la famiglia che era circa la più rappresentativa delle tre ci vivemmo un po’ meno di quattro settimane, avendo con loro e con altri contatti diretti e costanti» (miei i corsivi).
È la stessa concezione democratica, in senso trascendentale e non politicistico, che aveva ispirato il più grande poeta del paese da cui venivano tanto Evans e Agee che Strand: tanto che i traduttori italiani hanno potuto usare come titolo, con calembour eloquente, Giorni rappresentativi. Walt Whitman aveva intitolato invece Specimen Days quel suo libro uscito nel 1882: formidabile proprio perché quelle pagine di diario e riflessione erano state da lui trascelte a specimen, appunto, di una vita tutta intessuta, dall’inizio alla fine, di pensieri e parole. Ma lo stesso “io” che monumentalizza sé stesso nelle Foglie d’erba lo fa in quanto individuo-specimen: «un comune individuo» del Nuovo Mondo, come scrisse Whitman presentando l’edizione britannica della sua “autobiografia”. Questo moderno everyman si vuole esemplare rappresentativo di quanto più ama e venera: cioè l’umanità tutta, e anzi tutte le forme di vita del pianeta (tutte foglie, infatti, di un’erba comune: «mi lascio in eredità alla terra, per rinascer dall’erba che amo», aveva cantato in Song of Myself; di qui al consapevole e radicale panteismo di Wallace Stevens non c’è che un passo). Le immagini più amate da Whitman erano quelle di Millet («le Leaves non sono in realtà che un Millet in altra forma», confesserà in una lettera), il pittore che aveva saputo toccare un’«unica maestà di espressione» ancorché trattasse sempre, e anzi proprio perché trattava, «temi che definiremmo luoghi comuni». Non ci potrebbe essere contrapposizione più chiara, in tal senso, di quella che in una pagina di Giorni rappresentativi Whitman esprime, con tutta l’ammirazione, al gusto per l’eccezionale e il sensazionale di Edgar Allan Poe. Quello che oltre Atlantico era stato riconosciuto come il profeta di ogni «arte d’eccezione» era perfettamente agli antipodi dell’«armonia con la Natura» che, citando Marco Aurelio nelle ultime righe del suo libro Whitman rivendicava, per sé, come omaggio alla «divina media, senza prezzo, originale e concreta».

Se si confronta il decoro appunto “classico” della famiglia Lusetti, nella più celebre delle fotografie di Strand che sta in copertina a Un paese, con la medesima famiglia ritratta sorridente, off records diciamo, da sua moglie Hazel (come consente di fare il libro di Ghirri e Costantini), si capisce subito la postura “whitmaniana” e “milletiana”, la solennità rappresentativa che lo stile straight di Evans e Strand ha voluto conseguire.



Ma l’originalità di Un paese, e forse la sua irripetibilità, sta nella distanza – sottile quanto evidente – fra la “serietà” delle foto di Strand e la vivacità irresistibile delle “didascalie” di Zavattini: mélange di ispirazioni a contrasto che (come per quello tra il fervore febbrile di Agee e la compostezza imperturbabile di Evans) ha fatto, in definitiva, la fortuna del libro. Anche Whitman era attratto dallo «slang», la parlata viva delle classi popolari che di lì a poco, al tornante fra Otto e Novecento, rinnoverà radicalmente la letteratura del suo paese; in un’altra lettera all’amico e biografo Horace Traubel se ne dice «industrioso raccoglitore», e sostiene che il suo «elemento germinale» sta al fondo di ogni autentica poesia: anche se in Leaves of Grass, in effetti,ne fa un uso limitato. Ma se a sua volta, mezzo secolo dopo, lo tiene il più possibile a bada il mistico Agee, ben più attratto dal «sensuous thought» metafisico e dall’eloquenza di Shakespeare e della Bibbia di Re Giacomo, il demotico oltre che democratico Zavattini davvero non vede perché resistere a quella tentazione. Non adotta ancora direttamente il dialetto della sua terra, come farà vent’anni dopo nelle poesie di Stricarm’ in d’na parola (per l’entusiasmo, in Descrizioni di descrizioni, di un Pasolini in precedenza invece con lui sempre ambivalente; ma Comizi d’amore non poteva essere stato indifferente agli episodi dell’Amore in città, da Zavattini raccolti nel ’53), ma trascrive con gusto irresistibile e contagioso la fragranza idiomatica di quei giri di frase, la spericolatezza sintattica di quella lingua tutta corporalità e immediatezza, la brachilogia fantastica di quelle frasi che contengono ciascuna, quasi neofuturisticamente, intere “saghe” di quelle che i romanzieri senza romanzo di oggidì redigerebbero a oltranza per il pubblico pagante. Virtuosistiche, in tal senso, le trascrizioni in clausola dei «diari» degli scolari di Luzzara: «A quel vitello morto ho fatto una tomba e sempre lo ricorderò come un mio fratello»; «Io sono un bambino molto povero. Ho quattro fratellini. Oggi è una bella giornata. Il cielo è azzurro, il sole è caldo e si sta bene all’ombra»; «Mio babbo è senza lavoro, io sono malcontento». L’esplosività della sintesi – si esagera, ma forse non tanto – è degna degli ultimi quattro, celeberrimi versi del Quinto del Purgatorio («ricordati di me, che son la Pia» con quel che segue).Alla fine dell’ultimo si legge: «Dopo è venuto mio zio che era venuto a parlare per delle cose interessanti che a me però non interessavano». Sono queste le ultime righe di Un paese: le cose interessanti del “normale” romanzo borghese, davvero, non potevano interessare di meno a uno come Zavattini.

Tra i libri-inchiesta materiati d’interviste, che nello stesso periodo s’infittiscono (come negli stessi anni spesseggiano foto-libri nessuno dei quali avvicinerà l’esemplarità di Un paese), viene da pensare alla materica concretezza (senza sorriso, però) delle voci dei Contadini del Sud raccolte da Rocco Scotellaro (pubblicate nel ’54, da Laterza, qualche mese dopo la sua morte precocissima)[1]; o ancor più da vicino alla ribalda energia picaresca delle fantastiche Autobiografie della leggera, raccolte dal cremonese Danilo Montaldi e pubblicate nel ’61 dalla stessa Einaudi (la prima era uscita però, su «Nuovi Argomenti», nello stesso ’55 di Un paese; del ’59 è l’unica traduzione audiovisiva di quel repertorio, il documentario La matàna del Po realizzato con Giuseppe Bartolucci; la morte a sua volta precoce di Montaldi, nell’aprile del ’75, gli impedirà di raccogliere in un libro, come avrebbe voluto, le voci dei contadini della sua terra). Proprio la «matàna» padana, secondo Montaldi, «trattiene un fondo di amarezza contadina e di allegria confuse»: sarà questo registro “lunatico” a farsi canonico, nel tempo più vicino a noi e con sensibilità più vicina alla nostra, con la vasta e notevole letteratura originatasi dal discepolato di Gianni Celati, la cosiddetta “scuola emiliana” (ultimo fragrante esito, che – a differenza di tanti “lunatici” a rischio ormai di serialità – ha saputo trattenere l’amarezza insieme all’allegria, è l’Organsa di Mariangela Mianiti, uscito l’anno scorso nelle Edizioni del Verri). Celati non ha fatto mistero, però, di aver guardato piuttosto alla qualsiasità di Zavattini, quale antecedente diretto del lavoro con Ghirri in Viaggio in Italia e in Esplorazioni sulla via Emilia. Ma c’è appunto la lingua di Za, prima di tutto, al fondo della “scuola emiliana”: mai normativamente italiana, mai davvero dialettale.
Il rischio di scivolare nel bozzettismo vernacolare c’è, ma la fantasia di Zavattini – una fantasia lunare, più che lunatica – lo dribbla sempre con classe. Eppure, nello scrivere di Un paese, non a caso Ghirri sentirà il bisogno di discostarlo dallo «strapaese, la provincia, il neorealismo, il “genius loci” della Padania». Siamo nel 1989. Nel ’55, invece, la maggior parte della discussione sul libro verteva proprio sulla sua appartenenza o meno a un indirizzo, il neorealismo, che da un pezzo ormai tanto il cinema che la letteratura si stavano lasciando alle spalle (è lo stesso anno della polemica su Metello di Vasco Pratolini, che di quella stagione è la pietra tombale). Leonardo Sciascia per esempio (sul quotidiano palermitano «L’ora», il 5 luglio 1955) si attardava a difendere Un paese in nome di un «realismo» come «opposizione» (in senso squisitamente politico), così continuando la polemica sulla Terra trema di Visconti, un film di sette anni prima, non senza insistere sull’immagine consunta (da un innominato Stendhal) dell’arte come «specchio che si muova dentro una strada»; delle immagini di Strand in quanto tali, invece, un appassionato di fotografia come Sciascia non dice quasi niente. Ma quel suo entusiasmo fruttificherà un decennio dopo: quando la sua storia di foto-scrittore verrà inaugurata da Feste religiose in Sicilia, un libro da lui realizzato insieme a un giovane Ferdinando Scianna.
Visto invece a posteriori – come fanno sia Celati che ora Belpoliti – di Un paese non può non spiccare la qualità, preterintenzionale, di archivio di «un mondo scomparso»: annichilito da un tempo che in quei luoghi, proprio all’indomani delle “campagne” di Strand e Zavattini, ha preso un’accelerazione «scorsoia» (per parafrasare Zanzotto). Non a caso intitola il suo pezzo, Belpoliti, C’era una volta Un paese. Anche dal punto di vista del linguaggio fotografico, se si guardano i fotolibri di un autore come William Klein (New York esce nel ’54, Roma nel ’59) con la loro contingenza assoluta, sembra passato un secolo.


Eppure guardando le immagini scattate negli stessi luoghi appunto a posteriori da Berengo Gardin, o ancor più quelle di Shore, si percepisce che – sotto la superficie di mutamenti evidenti quanto ovvi – un quanto di quell’anti-contingente che cercava Strand resta ancora vivo.

Aveva ragione Ghirri: «rivedendo il lavoro di Strand e Zavattini, mi sembra che non si possano coltivare nostalgie di nessun tipo, perché la modernità e la freschezza dell’opera rimangono inalterate». Il passato di Un paese, meglio che dal punto di vista politico o tecnologico, si misura allora su una scala più trascendente (anche se, ripeto, laicamente tale). Ci restituisce un senso di comunità che a Ghirri ricordava «le cantate di Bach […] scritte per la gente del villaggio, che ogni domenica venivano suonate e cantate nella chiesa». Un paese è un resto monumentale, il fossile vivente di uno ieri assoluto, edenico, originario (dice Zavattini che «essere dentro a questo nero serale lunghissimo, un tunnel materno, è così bello quando si ama che tutte le cose diventano di un valore enorme»).
Così per esempio lo ha interpretato un artista che, nato a Luzzara nel 1943, poteva essere nella torma di bambini che accerchiavano festosi quel fotografo venuto di là dall’oceano, coi capelli bianchi e gli occhi calmi: in un suo libro straordinario, Incipit (pubblicato da Allemandi nel 2008), Claudio Parmiggiani ha ritrovato a posteriori, sul palinsesto delle immagini di Strand, l’origine delle proprie: «con la sua camera oscura montata sul cavalletto, in silenzio e con calcolo estremo ritraeva nella campagna, nelle vie, nelle case di Luzzara, nella mia stessa casa, i luoghi e le cose della mia vita di ogni giorno. Ritraeva l’umiltà e l’umanità di uomini dai volti dolorosi e nobili come quelli di Mantegna, Figure, motivi, reliquie di una totalità perduta». Parmiggiani usa una metafora eloquente (mio il corsivo): «riaprendo le pagine vi riconosco, dormienti, le forme primigenie che dischiudendosi in lenta metamorfosi si sarebbero, nel filtro degli anni, trasfigurate in opere». Nella sua magnifica prefazione a Un paese, in apparenza senza motivo, Zavattini riporta un’espressione del sapere contadino (che nel 1997 Jolanda Insana userà come titolo di una sua raccolta poetica, forse il suo capolavoro): «In luglio si innesta “ad occhio dormiente” la vite e il contadino riposa un’ora verso le due, mentre la moglie mette in fila contro il muro davanti alla casa mestoli, padelle, l’alluminio ammaccato e il fuligginoso paiuolo tutto caldo di rame dentro».
Gli oggetti, muti ed eterni, sono gli stessi di Strand. Ma più m’interessa quell’occhio. Le piante vengono innestate l’una sull’altra, si sa, per formare una nuova specie che grazie a quella mescola risulti più fresca e produttiva. Un po’ come si è fatto con la fotografia in letteratura. E si parla di innesto a occhio dormiente quando il trapianto viene svolto a fine estate, in modo che la parte trapiantata (l’occhio) e coperta dalla pianta ospite (dormiente) fiorirà, sì, ma solo a distanza di tempo. È quello che succede, ogni volta, coi classici.

Paul Strand e Cesare Zavattini
Un paese
«Frontiere» Einaudi, 2021, pp. XII-91 ill. b.n., € 40
[1] Accolto soprattutto da sopraccigli alzati – per esempio da Corrado Alvaro, Carlo Muscetta ed Ernesto de Martino, ma ancora da Alberto Maria Cirese negli anni Settanta – da quanti non accettavano la fusione della voce, e della prospettiva, dello scrittore con quella dei contadini intervistati: formula evidentemente troppo etnografica per i letterati (che la trovano «fredda») e troppo letteraria per gli antropologi (che non le conferiscono patenti di «scientificità»). Del ’56 è poi – ma con episodi usciti su «Avanti!» già dal ’52 – I minatori della Maremma di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola (ripubblicato da minimum fax nel 2019), nella stessa collana «Libri del tempo» di Laterza che aveva pubblicato il libro postumo di Scotellaro.
L’immagine di apertura è tratta da Gianni Berengo Gardin, Un’idea di paese. Una versione molto più breve di questo articolo è apparsa su «Alias» il 23 gennaio.