“Lo schermo del cinema è lo scudo lucido di Atena”
È un pensiero del regista e sceneggiatore Radu Jude – questo talismano – scritto e sovrimpresso sulla ripresa notturna di uno stradone cittadino dove il traffico scorre lento per via della nevicata in corso e i fari delle automobili sbavano pittoricamente in super8. Siamo al lemma Cinema di quel «Piccolo dizionario di aneddoti, segni e profezie» che è la Parte Seconda di Bad Luck Banging or Loony Porn, lungometraggio narrativo dalla vena surreal-documentaria, opera coerente (nella sua eterogeneità di registri) e originale (finalmente), sprigionante ironia e talento da ogni cine-poro. Bad Luck Banging ha conquistato l’Orso d’Oro alla Berlinale 2021, dopo che l’autore s’era portato a casa l’Orso d’Argento 2015 col suo antropo-western valacco, Aferim!
Qualcosa di artisticamente straordinario sta accadendo in Romania e sta facendo di Bucarest una delle capitali della migliore cinematografia contemporanea. Proprio così: da quella nazione a forma di pesce palla che scodazza nel Mar Nero è partita una Nuova Onda che vanta tra le sue creste gli ormai veterani Cristi Puiu e Cristian Mungiu nonché i recentemente acclamati Radu Jude e Adina Pintillie.
A proposito di quest’ultima, bucarestina classe 1980, per chi si fosse posto la domanda, la risposta è no: Adina non è parente ma soltanto omonima (oltre che estimatrice) del grande connazionale Lucian Pintillie, morto ottantaquattrenne nel maggio 2018, tre mesi dopo che la giovane collega conquistava a Berlino un controverso Orso d’Oro (ea quoque) con quella spiazzante esplorazione della sessualità fuori tabù che è Touch Me Not.

Veniamo al talismano. Cosa vuol dire: «Lo schermo del cinema è lo scudo lucido di Atena»? Il riferimento è al mito di Medusa e Perseo. In due parole: siccome la testa anguicrinita della Gorgone è così tremenda da pietrificare chiunque s’azzardi a incrociarne lo sguardo, l’eroe la sconfigge guardandola indirettamente, ovvero guardandola riflessa su uno scudo, e decapitandola con una spada a falcetto detta harpe. Lo scudo fatidico è di Atena ed è lei a suggerire a Perseo la strategia per far fuori il mostro. Non solo: la dea si prende pure la briga di scendere in campo e posizionare lo scudo nella caverna delle Gorgoni affinché funga, al momento del dunque, da schermo. Insomma possiamo dire che, se Perseo è l’attore protagonista, la regia dell’uccisione di Medusa è firmata da Atena.
La morale è presto tratta: se non possiamo vedere direttamente gli orrori reali perché ci paralizzano, se siamo accecati dalla paura ch’essi suscitano in noi, possiamo però conoscere il loro aspetto attraverso le immagini che li riproducono. Ecco perché il cinema – quand’è più d’un flusso audiovisivo finalizzato all’intrattenimento – può coltivare l’ambizione di diventare lo scudo che consente di affrontare le Meduse del mondo.

Ho sempre associato il mito di Medusa alla parabola biblica del Serpente di Bronzo contenuta nei Numeri (21, 4-9). In fuga dall’Egitto e diretti verso il Mar Rosso, affamati e stanchi per le traversie del viaggio nel deserto, gli Ebrei osano lamentarsi e Dio – a causa di questo passo falso – li punisce scatenando contro di loro un branco di serpenti velenosi che fanno una carneficina. Impartita la solenne lezione, l’Altissimo s’impietosisce e perdona il popolo eletto. Rivolgendosi a Mosè, prescrive questo antidoto: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque lo guarderà dopo essere stato morso resterà in vita» (8). E così va: chi guarda il bronzeo simulacro ha salva la pelle.
Viviamo in un mondo sfregiato da orrori nominabili e innominabili e la paura è la condizione della contemporaneità. Sul tema della paura Mircea Cărtărescu, scrittore rumeno in odore di Nobel, s’accanisce in uno dei suoi capi d’opera, Solenoide. Leggiamo in questo abissale romanzo del 2015: «Ho sempre avuto tanta paura di fronte al mondo enorme in cui sono seppellito, che alla fine non posso non pensare che la realtà è soltanto paura allo stato puro, paura rappresa. Vivo nella paura, respiro paura, deglutisco paura, verrò seppellito nella paura. Trasmetto la mia paura di generazione in generazione, così come l’ho ricevuta anch’io da genitori e nonni». Non confondiamo però questa paura ontologica con gli spauracchi contingenti, con le paure monopolizzate dagli ordinamenti nell’ottica del controllo sociale e del consolidamento strutturale, con le paure indotte facendo leva sulle quali i sistemi di potere ci tappano in casa come sorci e ci amministrano come rimborsi spese.

La paura di cui parla Cărtărescu è la paura radicale che viene dalla conferma di essere senza se né ma esseri senza senso e senza protezione. È la «sostanza del mondo in cui viviamo». È l’intimo panico di ognuno davanti all’orrore, al cospetto del cuore di tenebra che pompa nerezza nell’arterie dell’umanità. Per farne esperienza non è più necessario risalire un fiume tropicale. L’orrore di cui parlano i Kurtz di Conrad e Coppola è esondato nelle nostre città, nei nostri uffici, nelle stanzette dove consumiamo i nostri giorni. L’orrore è diventato finalmente democratico, a portata di laptop, senza distinzioni di ceto o censo. La società civile è un cinematografo dove i più medusei orrori vengono proiettati ventiquattr’ore su ventiquattro, suddivisi in generi e sottogeneri, serie e saghe, adattamenti e remake, sequel e prequel.
Che fare? Se chiudiamo gli occhi davanti all’orrore, siamo perduti. Se cerchiamo lo scontro frontale, siamo perduti. Dobbiamo farcelo amico, l’orrore, come consiglia quel saggio un tantino truculento del Colonnello Kurtz, altrimenti siamo perduti. Dobbiamo entrare in intimità con l’orrore, con gli orrori specifici che offendono e avvelenano la nostra realtà organica e relazionale. Dobbiamo irretire Medusa e imprigionarla nel suo riflesso più insostenibile, senza però restare pietrificati perché – una volta pietrificati – diveniamo parte dell’orrore.
Dobbiamo usare i nostri linguaggi espressivi per «inquadrare» Medusa in senso tauromachico. Nell’ultimo terzo della corrida (tercio de muerte), il matador soggioga il toro al fine di fargli assumere una posizione caratterizzata dalle zampe ben salde e la testa bassa, la posizione propizia al colpo di grazia (descabello). Quando il toro assume questa che è la posizione della sua messa a morte si suole dire che è stato «inquadrato» (Cadré è anche il titolo di una poesia di Michel Leiris contenuta nella raccolta taurina del 1969 Abanico para los toros). Come fare per «inquadrare»nell’opera il corno dell’orrore? È questa la domanda che un artista valiente non può aggirare. Un artista – per capirsi stringendo sul cinema – quale è stato Pier Paolo Pasolini o quale è Michael Haneke.

Per divenire lo scudo meravigliosamente lucido di Atena il cinema – inteso come pars pro toto dell’arte – deve restare mentalmente lucido: deve tenere presente che, pur usando la realtà come materia prima, la realtà è un’altra cosa. Il cinema deve riconoscersi media per svolgere con la realtà una mediazione medianica, se mi si passa la locuzione. Possiamo convenire che il cinema sia realtà sublimata trasfigurata intensificata o come preferite definirla per dire che il cinema sia qualcosa che si avvicina – più che a una Realtà con la erre maiuscola – a verità plurali con la vu minuscola. Il punto è che un film vale qualcosa al di fuori dello spettacolo inscenato solamente se – rivelandosi in quando apparenza, distanziandosi dall’immediatezza della vita – strappa lo spettatore dal torpore della fruizione passiva e dalla foia dell’identificazione regressiva per farlo pensare, semplicemente pensare, inducendolo a interrogarsi sul senso della rappresentazione e di conseguenza sull’esistenza, la propria.
L’arte non può proteggerci dal mondo. Nemmeno l’arte più lucente e tagliente ci garantisce che saremo in grado di schermirci dall’orrore quand’esso, un giorno come un altro, ci taglierà la strada. Però una cosa dall’arte, da una certa arte, possiamo aspettarcela: aiutarci a conoscere e riconoscere i veri mostri in un’attualità dove i mostri più insidiosamente mortiferi sono mostri sotto mentite spoglie. Anzi, questo dovremmo proprio esigerlo dall’arte, da un’arte che consideriamo maiuscola: acuire la nostra capacità d’intercettare l’orrore, allargando il nostro orizzonte conoscitivo, riducendo il raggio d’azione di quella paura che è figlia dell’ignoranza. Va da sé che l’arte non può fare tutto da sola: è necessario avere occhi per vedere per meritarsi l’epifania.

Torno al mito di Medusa per affrontare una questione tecnica sulla quale le fonti principali tendono a glissare. Senza girarci intorno: come avviene, concretamente, la decapitazione della Gorgone? Fermo restando il divieto di sguardo diretto, sono almeno tre le ipotesi maggioritarie. Ipotesi uno, il pilotaggio: la mano di Perseo è guidata favorevolmente dal Fato se non da Atena stessa. Ipotesi due, la traslazione: Perseo taglia la testa riflessa e la testa tridimensionale ruzzola alle sue spalle. Ipotesi tre, l’atletismo: visualizzata la Gorgone, Perseo la colpisce alla cieca colmando la distanza con un avvitamento aereo da Kung Fu film.
Ma c’è qualche ma. «Tutto ciò non sta in piedi nella logica razionalista che poi è la nostra», rileva l’autorevole grecista Jean-Pierre Vernant nel delizioso C’era una volta Ulisse (2004). Avanzo un’ipotesi ulteriore, non contemplata da Esiodo né da Apollodoro, non riportata da Kerényi né da Vernant, un’ipotesi che a mio avviso mette tutto al suo posto, concertando simbolo e causalità, e che battezzerei: ipotesi della paralisi orrorifica.

Secondo la suddetta ipotesi, quel furbastro di Perseo non si limita a guardare Medusa attraverso il riflesso ma la costringe a specchiarsi nello scudo. Ed è così che – inorridendo alla vista del proprio sembiante orroroso – Medusa resta bloccata tra il confuso e lo sbigottito per un lasso di tempo che consente a Perseo di ridurre la distanza, prendere repentinamente le misure e, con una calibrata giravolta, decollare il mostro a colpo sicuro, tenendo gli occhi ben chiusi.
Fatto trenta, faccio trentuno e condivido pure la mia proposta d’intervento sull’Antico Testamento. Ebbene: il serpente di bronzo è salvifico non solo perché chi lo guarda ha salva la vita anche se è stato morso (come leggiamo nel capitolo 21 versetto 9 dei Numeri), il simulacro è salvifico pure perché spaventa i rettili e li mette in fuga. La reazione dei serpenti non viene esplicitata nelle Scritture ma nemmeno esclusa e non è ipotesi peregrina ritenerla implicita, alla luce del fatto che la richiesta degli Israeliti a Mosè è la seguente, come da versetto 7: «Prega il Signore perché allontani da noi questi serpenti».

Mi rendo conto che emendare in poche righe Teogonia e Bibbia non è presunzione da poco. Ma non si pensi che abbia operato alla leggera o che la mia rilettura sia una forzatura irrelata dal presente contesto talismanico. Tale variante allegorica calza a pennello agli esiti di Radu Jude, scout di un cinema col dente avvelenato, guerrigliero di un’arte che non vuole curarci le ferite come un infermiere ma vuole indagarle come un aruspice mentre attacca con destrezza chi ce le ha cagionate, le ferite. Satira brillante che indulge nel grottesco e al contempo radiografia implacabile del presente nonché del passato (inquietantemente) prossimo della Romania, il suo Loony Porn è tanto un film contravvelenico quanto un film controffensivo.
Theodor W. Adorno, nella Teoria estetica (1970), lo ha detto una volta per tutte ma noi lo rimuoviamo sistematicamente o abbiamo le nostre buone ragioni per fare gli gnorri: «Se non le fosse mescolato del materiale velenoso, virtualmente negazione del vitale, la protesta dell’arte contro l’oppressione civilizzatoria sarebbe fra consolante e sprovveduta».
Vogliamo essere consolanti? Vogliamo essere sprovveduti?

In copertina: Bad Luck Banging or Loony Porn (2021), lemma Cinema