Les images sont les fragments du corps
De notre corps ne reste que des fragments
Les hérissons des images
Pourtant, des hérissons qui
Recueillent dignement les champignons forestiers
à l’aube
au crepuscule
(Boyan Manchev, Le virtuose de la vie)
La fotografia, così si dice, ferma il tempo e dà un’istantanea del presente. Come ogni luogo comune, anche questo contiene una sua verità. Ed è sicuramente mirando a questo prodigio, a questa capacità di fermare il tempo che buona parte degli umani della nostra epoca dedica grande quantità dei propri sforzi per scattare, in modo sempre crescente, immagini del proprio vissuto. La fotografia come elisir di immortalità, come amuleto per scongiurare la morte, la fine di ogni cosa.
Guardando le immagini che compongono Archeologia dello sguardo di Marcello Grassi, però, si ha la sensazione che la fotografia possa essere anche altro. Anzi, viene il dubbio che la fotografia possa essere tutto il contrario di quell’esercizio scaramantico nei confronti della morte.

Grassi ha speso anni e anni di vita per fotografare la statuaria antica di alcuni musei italiani ed esteri. Il risultato è sorprendente. Il suo sguardo si posa sulle statue, sottraendole all’Ade museale, e mostrandone la profonda vitalità. In più di uno scatto lo spettatore percepisce la statua come vivente, grazie a una sorta di effetto Pigmalione, attraverso il quale la pietra si fa carne. Una carne così viva da portare su se stessa i segni del tempo: ferite, sfregi, amputazioni. Una carne tremula e in decomposizione appare nelle raffinate immagini in bianco e nero che compongono il bel volume di Electa.

Lo sguardo del fotografo dà vita alle morte statue per mostrare, però, in loro, in un eccesso d’amore, il germe della decomposizione, cioè, nuovamente della morte. Così il gioco degli sguardi si chiude e si ritorce contro se stesso: dalla morte alla morte – è questo il percorso della fotografia di Grassi. E, in questo suo ossessivo e amorevole tentativo di riportare in vita ciò che giace morto nel passato, Grassi fa l’esperienza più profonda dello sguardo di Orfeo, di quello sguardo che percorre tutta l’ampiezza dell’equivoco di ogni opera d’arte: salvare l’insalvabile, sconfiggere la morte.
Lo sguardo fotografico non salva. Mostra solamente che ogni opera, ogni immagine, è la manifestazione della morte, dell’impossibilità di fare opera, di fare un’opera al di fuori del tempo. L’opera è, paradossalmente, sempre morte all’opera; opera della morte che si dà una forma per poi dissolverla; composizione visiva destinata alla decomposizione.

Il fotografo è Orfeo. Ama di un amore sconfinato la peritura esistenza. Cerca di salvarla dalla morte, dall’impossibilità del suo permanere, dalla necessità della sua scomparsa. Ma il suo sguardo, il suo sguardo salvatore, è, in realtà, la sua seconda morta, la prova che nessuna opera può sottrarsi al suo svanire, alla sua impossibilità di essere opera eterna. Maurice Blanchot l’ha scritto con una precisione insuperata: “in questo sguardo, l’opera è perduta. È il solo momento in cui essa si perde completamente, in cui qualcosa di più importante dell’opera, di più destituito d’importanza che l’opera, si annuncia e si afferma. L’opera è tutto per Orfeo, eccetto quello sguardo desiderato in cui essa si perde; cosicché essa può appunto superarsi soltanto in quello sguardo, per unirsi alla sua origine e consacrarsi nell’impossibilità.”

L’impossibilità di salvezza è forse il solo e vero compimento dell’opera. Una sorta di atto d’amore senza impiego, senza contenuto possibile, al di fuori dell’origine di ogni cosa: il movimento della vita come miracolo. La vita come folgorante e fragilissima immagine di ciò che non ha immagine possibile: la morte. Se la vita vuole una forma, la morte è il movimento stesso della forma, la sua prassi deformante. Ogni forma ha in sé la propria anamorfosi, il germe della propria dissoluzione. Chi fa dunque l’opera? La vita. Cosa fa dunque l’opera? Mostra il movimento inarrestabile della morte. Nascere, cioè, iniziare a morire. La vita, cioè, la morte all’opera. La gioia dell’occhio, la percezione di questo movimento, in cui l’origine coincide con la fine, è forse l’esperienza più profonda dell’umano esistere. Essere umani significa sapersi dare immagini di questa metamorfosi infinita.

Tutte le fotografie riprodotte sono di Marcello Grassi, il quale è rappresentato dalla Galleria IAGA Contemporary Art
In copertina: Centrale Montemartini, Roma, 2014, Musa Polimnia, marmo, da originale di età ellenistica (particolare)