Iper-ritorno. Un dittico (con un’intervista di Andrea Zanzotto)

Questo Dittico ripropone nella prima parte (Nervesa, Galateo in pietra) una sintesi di quanto da me detto di fronte al Sacrario del Montello a Nervesa della Battaglia (TV) il 9 ottobre 2021, nell’ambito del convegno Zanzotto, un secolo. Da Pieve di Soligo al mondo. Nel periodo in cui preparavo l’intervento, compulsando le mie guide ai Sacrari della Grande Guerra mi sono imbattuta in un’intervista dispersa ad Andrea Zanzotto, Ritorno sul Montello, a cura di Roberto Tessari, che ho qui trascritto integralmente, nella seconda parte del Dittico; è contenuta nella guida ai campi di battaglia Il Montello vol. 3. Gli itinerari: Resistenza e contrattacco; Con gli Arditi al Piave; La difesa del fiume; Ritorno sul Montello con il poeta Andrea Zanzotto, Udine, Gaspari, 2009, pp. 157-66 – editore che qui ringrazio per la gentile concessione a riprodurre testo e fotografie (alle quali ho aggiunto delle brevi didascalie). Tenevo in mano questo volumetto mentre parlavo, quel giorno a Nervesa, e ne ho letto alcuni stralci: si è trattato quindi di un ritorno nel ritorno, dunque di un iper-ritorno. La principale delle fonti storico-iconografiche è stata il volume Nervesa e la Grande Guerra, a cura di Lucio De Bortoli, Antiga, Crocetta del Montello (TV) 2016, in particolare i capitoli Tra vecchie pietre e antiche memorie. I segni della Grande Guerra a Nervesa della Battaglia della storica Lisa Bregantin, cui va la mia gratitudine anche per alcune delucidazioni.

Il Montello visto da Nervesa, nel periodo della Grande Guerra. Il Colle del Montello ha una superficie di circa 60 km quadrati e raggiunge un’altezza massima di 369 metri sul livello del mare; a livello geologico si compone di materiali alluvionali cementatisi in un conglomerato detto “croda”, che ne costituisce l’ossatura, ricoperta da un tipo di terra rossa detta “ferretto”. Come il Carso, anche il Montello è caratterizzato dal fenomeno carsico, che va a puntellare la superficie di doline di varia forma (a piatto, a scodella, a imbuto, a pozzo). Proprio nella sostanza del conglomerato si riassume appieno l’indissolubile, e oscillante, connubio tra geologia e storia che caratterizza di fatto tutta l’opera di Andrea Zanzotto. 

Nervesa, Galateo in pietra

Come sarebbe la visione di una battaglia, se si potesse avere simultaneamente il quadro complessivo di quel caos? Quale immagine ne risulterebbe? Questa domanda, fatta anche per la sanguinosissima Battaglia del Solstizio (15-23 giugno 1918), che si svolse più di cent’anni fa nei luoghi che ora calpestiamo, serve a comprendere che un evento limite come la guerra rende tangibile l’impossibilità di cogliere la vita nel suo complesso: la difficoltà risiede prima di tutto nella diacronia dei tempi dei singoli fatti, che noi inevitabilmente non riusciremmo a percepire come uno. E quindi ci risulta più facile ipostatizzare a posteriori questi singoli fatti in singoli luoghi, dei quali ci sfugge a volte il senso complessivo. La guerra, e il periodo post-bellico in generale, è la realizzazione perfetta dell’intento di creare un nuovo ordine, del tutto umano e percepibile, da un disordine umano agito ma anche subito. Il Montello è oggi disseminato di edifici, case, monumenti, ruderi, cippi, lapidi, luoghi con nomi parlanti che ricordano i fatti noti della Grande Guerra qui accaduti, e in particolare quelli della Battaglia del Solstizio: è il luogo dove noi siamo venuti oggi a rintracciare impronte del percorso tracciato da un’opera di Andrea Zanzotto, Il Galateo in Bosco (1978), indubbiamente il suo capolavoro, ma allo stesso tempo ho scoperto che stiamo in realtà calcando anche le impronte di un percorso memoriale, sconosciuto ai più, che Zanzotto, accompagnato da Roberto Tessari, compì nel 2008, poi pubblicato come intervista in questa Guida al campo di battaglia del Piave edita da Gaspari – libretti che noi appassionati della Grande Guerra collezioniamo quasi con venerazione.

Consolidamento del terreno sulla collina Collesel; il luogo prescelto per la costruzione del Sacrario (n. 11 nella cartina storica) subì pesanti sbancamenti. I lavori per la costruzione del Sacrario iniziarono nel 1932 e furono ultimati nel 1935.

Quello del “turismo di guerra”, che riguarda sia i luoghi dove si sono svolti gli avvenimenti, sia i cimiteri di guerra (come sarà poi gli ossari monumentali), non è un fatto nuovo. Nel primo dopoguerra escono guide a bizzeffe; le più famose sono quelle Michelin, pubblicati a partire già dal 1919: le Guide dei Campi di Battaglia Fronte Italiana, in vari volumetti corredati da cartine e fotografie; ma già durante il corso del conflitto i Fratelli Treves pubblicavano a Milano i grandi album fotografici intitolati La guerra. A cura delle varie associazioni di reduci escono anche guide specifiche ai cimiteri di guerra (per esempio, in epoca fascista, Il decennale. X Anniversario della Vittoria, a cura dell’Associazione Nazionale volontari di Guerra, 1929, che contiene un capitolo specifico sui Cimiteri di guerra), con titoli eloquenti come In pellegrinaggio ai cimiteri di guerra, pubblicazioni che però hanno anche lo scopo, nel Primo dopoguerra, di raccogliere fondi per la manutenzione di detti cimiteri, troppo numerosi per essere tutti mantenuti con decoro. A tutte queste pubblicazioni si sovrappone la narrazione popolare, particolarmente viva in Veneto nelle zone di guerra (come la Pedemontana del Grappa e del Quartier del Piave, e il fiume Piave stesso con il Montello, nel nostro caso), narrazione corroborata da precisi riti della memoria, ai quali ancora oggi si attende con regolare precisione (per esempio il 4 novembre) – perché i luoghi della storia diventano luoghi della memoria solo se si costruiscono segni e si svolgono riti, cioè se diventano, come afferma Lisa Bregantin, “luoghi di affezioni reiterate”.

Lavori di costruzione delle strutture fuori terra del Monumento Ossario, che già si intravvede sullo sfondo.

Il Galateo in bosco, pubblicato nel sessantesimo anniversario della Battaglia del Solstizio; la visita memoriale che Zanzotto compì nel 2008, in occasione del novantesimo anniversario della stessa Battaglia; e la nostra stessa visita oggi, a cento anni dalla nascita del poeta: sono prima di tutto, e tutti, degli atti reiterati di affezione, che ognuno ha compiuto o compie per motivi personali, e solo in un secondo momento collettivi. E noi oggi siamo qui per ricordare l’opera poetica che ha reso probabilmente eterno il Montello, e la Battaglia del Solstizio che qui si svolse nel 1918, in maniera ben più perentoria che la pietra del Sacrario monumentale. Ma in che modo? Con la forza del dubbio. Il dubbio che quest’opera insinua nella nostra mente, alla fine, non fa che sgretolarla, questa massa inumana di pietra che raccoglie solo ossa scarnificate per mano di altri uomini. Come si è arrivati all’ideazione di un “ecomostro” come di fatto è il Sacrario di Nervesa?

La costruzione del Sacrario giunta all’altezza dei finestroni del parallelepipedo della torre.

Il dibattitto che portò poi in epoca fascista all’ideazione e alla costruzione dei Sacrari militari della Grande Guerra iniziò in realtà già durante la guerra, per l’enorme quantità di cadaveri che la prima guerra industriale stava producendo; appena finita la guerra, si scelse, per motivi logistici ed ideologici, di sistemare i Caduti nei cimiteri militari sorti nei luoghi stessi del confitto, ma la Commissione preposta a tale compito avvertì da subito che tale scelta avrebbe presto creato problemi di sostenibilità, oltre ad essere inadeguata per celebrate il sacrificio di tanti uomini. In epoca fascista la vera svolta si ebbe negli Anni Trenta, quando un pacchetto di leggi affidò le decisioni a un Commissario per la Cura e le Onoranze ai Soldati Caduti in guerra, carica a cui fu designato prima Giovanni Faracovi (già attivo però negli Anni Venti), poi dal 1935 Ugo Cei, promotore dell’ideologia monumentale dei Sacrari. Quello di Nervesa, chiamato Sacrario del Montello, opera dell’architetto Felice Nori, venne iniziato nel 1932 e terminato nel 1935, ma verrà inaugurato solennemente solo il 19 giugno 1938, nel ventennale della Battaglia del Solstizio, e collaudato nel giugno del 1939.

Il Sacrario ultimato, in una fotografia del 1938, precedente al collaudo.

La struttura del Sacrario è imponente. Ai primi due piani sono collocate le sepolture dei soldati, in una struttura a labirinto quadrato (che non può non richiamare infatti il Castello di Atlante); al terzo piano, a cui si giunge dopo aver percorso una doppia serie di scale sovrapposte, è attualmente allestito un museo con residuati, divise, cartine storiche; il quarto piano si apre sul vuoto del grande parallelepipedo della torre (che di fatto occupa da solo due terzi della struttura dell’edificio), illuminato dalla grande vetrata del soffitto e dalle quattro terrazze laterali. La struttura ricorda quella di una fortezza: assieme al Sacrario di Pocol (BL), è l’ossario italiano della Prima guerra mondiale che più assomiglia alla struttura del “Castello dei Morti” tedesco. L’edificio non “legge” la collina su cui sorge, casomai la modifica pesantemente, come si vede dagli imponenti lavori di sbancamento, nelle fotografie dell’epoca. Siamo distanti dalla lettura simbolica del terreno, seppur altrettanto invasiva, che invece Castiglioni e Greppi sapranno dare a Cima Grappa e Redipuglia. Tutti i Sacrari militari fascisti italiani, però, sono accomunati dai principi di monumentalità, perpetuità e individualità (benché impossibile da memorizzare, tra migliaia di nomi). E aggiungo: sono accomunati anche dalla volontà di distruggere sul terreno le tracce dei campi di battaglia, troppo reali, per creare delle tracce inautentiche di memoria, appunto ideali. E questo accade già a partire dal trattamento riservato ai corpi dei Caduti, esumati dai vecchi cimiteri e scarnificati da qualsiasi rimasuglio di carne, pelle o divisa, affinché nella ricollocazione degli Ossari arrivino solo le ossa pure dei soldati.

Il Sacrario fotografato nel giorno del suo collaudo, il 26 giugno 1939. Si noti come la morfologia della collina Collesel sia stata pesantemente alterata.

È proprio sul terreno memoriale che si gioca la partita del Galateo in Bosco, in un continuo oscillare tra “realtà reale” della guerra, e in particolare qui della Battaglia del Solstizio, vero fulcro del libro, e la “realtà ideale”, quindi irreale, del Sacrario. Mi ha sempre colpito, in maniera interrogativa, che la cartina con la Linea degli Ossari, che Zanzotto riproduce a metà di Cliché, la prima sezione de Il Galateo in Bosco, sia una cartina bellica, che si trova nei libri di storia. In genere tutti gli interpreti si concentrano proprio sulla Linea, ivi tracciata, degli Ossari, che dalle Dolomiti giunge al mare. Il punctum della cartina sono invece i due luoghi sostanziali e contrapposti del libro, la Valle dei morti (n. 5 nella cartina) e l’Ossario di Nervesa, o Sacrario del Montello (n. 11 nella cartina): il primo incarna l’assoluta assenza di essere (il “gnessulogo” per eccellenza), ed è un negativo, in quanto dolina e in quanto luogo totale della morte (cfr. qui il commento alla fotografia 4a); il secondo è un positivo (monolite) che incarna l’assoluta norma dettata dal potere, il voler dare un ordine disumano e codificato al caos creato su questa porzione del Montello dalla Battaglia Del Solstizio, neutralizzando il potere della morte. La scelta di questa cartina non è dunque casuale: ci indica da subito la polarità contrapposta che sta alla base del Galateo, l’oscillazione tra il negativo formale (ma vero positivo sostanziale) della Valle dei Morti e il positivo formale (ma vero negativo sostanziale) del Sacrario, anche lui prodotto mistificato delle “alte guide”. In questo senso, mentre il linguaggio poetico arranca nella sua circolarità, assieme al poeta, nella palta, nelle schegge, nel circo dei sangui e trascina con sé le ossa dei morti (o ne viene trascinato?), diventando esso stesso palta, scheggia, sangue; la fissità petrosa ed esangue del Sacrario (tra l’altro contraria alla fluidità del fiume Piave che gli scorre accanto) trova nel parallelo monolite dell’Ipersonetto la sua perfetta riproduzione: la madre-norma incarnata nel padre-potere, il padre-potere ritratto nella madre-norma. Il Galateo, quindi, è un libro che non solo rispecchia a livello linguistico la realtà di quella zona del Montello, ma che a livello strutturale la rispecchia intendendo rappresentarla esattamente come se si trattasse di una cartina geografica. È il libro, in sostanza, nel suo livello formale complessivo, ad essere “specchio del mondo”: il primo libro di geo-storia della nostra poesia.

La cartina con la Linea degli Ossari che Zanzotto riproduce a metà di Cliché, la prima sezione del Galateo in Bosco.
Il Sacrario oggi. Contiene le spoglie di 9.325 caduti, di cui 6.099 identificati.

Cartina storica

Cartina allegata alla riproduzione anastatica del volume Battaglia del Montello. XV-XXII giugno MCMXVIII nel VI° Anniversario, a cura di Oreste Battistella, Soc. An. Longo & Zoppelli, Treviso 1924 (Crocetta del Montello, Grafiche Antiga, 2018).

legenda

  1. Fiume Piave
  2. Sito dell’attuale Isola dei Morti
  3. Fontana del Buoro
  4. Casa Serena
  5. Area dove si trovano la Valle dei Morti e il monumento al Generale Pennella (ovale giallo)
  6. Presa 5
  7. Collesel della Zotta
  8. Collesel delle Zorle
  9. Saliente di Falzè di Piave
  10. Comune di Nervesa
  11. Area su cui sorge l’attuale Sacrario del Montello (cerchio arancione)
  12. Abbazia di Sant’Eustachio
  13. Collesel Castelviero, sito dove cadde l’aereo di Francesco Baracca
  14. Comune di Giavera
  15. Sito dell’attuale Cimitero di guerra inglese (cerchio verde)

Ritorno sul Montello

Andrea Zanzotto a conversazione con Roberto Tessari

RT: Andrea, nel 2008 siamo ritornati sul Montello. Un pomeriggio alla Valle dei Morti, alla Fontana di Buoro, a Casa Serena e infine sulla Presa 5, e un altro pomeriggio lo abbiamo dedicato all’Ossario. Sono stati due pomeriggi faticosi; hai camminato parecchio e per ore sei rimasto sotto il sole dei primi giorni di settembre; ma mi è parso anche un affaticamento psicologico. Perché?

AZ: Terribile rivivere quello che avevo scritto nelle poesie, che a loro volta grondano di partecipazione.

Zanzotto e Tessari a Casa Serena (n. 4 nella cartina storica), terza tappa del tragitto memoriale. Casa Serena, una casa colonica costruita con i sassi del Montello, era uno dei belvederi durante la Grande Guerra; venne messa a dura prova, nel corso della Battaglia del Solstizio, ma resistette e rappresentò la salvezza dell’intera collina, in quanto caposaldo al margine occidentale della cosiddetta Linea della Corda, terza linea che correva verso Est fino a Nervesa (n. 10 nella cartina storica), passando per Collesel della Zotta (n. 7 nella cartina) e per Collesel delle Zorle (n. 8 nella cartina), e avendo come cuspide ideale il saliente di Falzé di Piave (n. 9 nella cartina). Da Casa Serena

RT: Perché… ti sentivi anche tu protagonista di quelle sofferenze?

AZ: Sì… Rivivevo il dramma dei crimini e … non saprei dire esattamente. Ero tanto provato, ma bisognava farlo lo stesso [il ritorno sul Montello – n.d.r.]. Più che un dovere, un essere. Lì, sulla Presa 5, io stentavo a risalire a piedi fino al luogo dove registrare “O boschi non defoliati / dalle guerre di tanti anni fa” e tu ad incitarmi ricordando i combattenti italiani che proprio lì contrattaccavano affardellati di 23 kg ed erano ricevuto dalle mazze ferrate degli ungheresi.

Nelle note finali del Galateo in Bosco scrivevo a proposito del Montello e della sua grande selva: “Restano oggi, di quel luogo unico, lacerti di zone selvose, ville per weekendisti, appoderamenti agricoli – eppure c’è sempre qualcosa della Grande Selva, della sua bellezza e vigoria che aleggia come un rimorso, un ricordo, in un terreno vago. Tutto è ancora possibile, su questo terreno ipersedimentato. La questione è aperta, come quelle di tutti i boschi, vegetali e umani. E di tutte le stragi, guerre e sacrifici umani: resta l’intimazione a vederne la squallida inutilità e, a un tempo, di patirli a fondo, di ricomprenderli in totale connivenza, ‘perché possano esserne sventati altri nel futuro’”.

RT: Quando eravamo alla Valle dei Morti, tu hai letto, sempre dal Galateo in Bosco, la 5a poesia del gruppo intitolato “Che sotto l’alta guida”. Questa poesia ha – caso unico – il sottotitolo “Casa solitaria con lapide / sulla str. 18 del Montello […]”. Ma di cosa parla questa poesia?

AZ: Il tema è la criminalizzazione dell’erba, cioè della terra stessa, perché accoglie i crimini. C’è un fantasma poetico. La criminalità diventa come un’atmosfera di cui l’erba stessa si imbeve. Il primo verso: “Ma tu fa che io resti all’altezza dell’erba” vuol essere la richiesta di condividere la sofferenza, il risultato di questa “criminalità”.

L’“alta guida” sono il re, i generali come Pennella, come il Fiorone[1] di cui mi hai raccontato. L’“alta guida” non si concretizza soltanto nelle persone fisiche, ma anche nel complesso di ordini venuti dall’alto, nel sistema di regole di obbedienza e di controllo, nell’insieme di convenzioni sociali e di etichetta che hanno provocato la morte assurda di oltre seicentomila uomini solo in Italia.

Zanzotto e Tessari mentre camminano sulla Presa 5, alla ricerca di un ciliegio sotto cui leggere una poesia (n. 6 nella cartina). Cinque sono anche le poesie del ciclo (Che sotto l’alta Guida) nel Galateo in Bosco, e questo fatto non è casuale: la Presa 5 si trovava all’interno del settore più esposto, quello subito travolto e maggiormente martoriato nei giorni della Battaglia del Solstizio; inoltre, in quanto corrispondente poi a uno dei due vertici della manovra a tenaglia della successiva controffensiva italiana, è menzionata qui anche da Zanzotto come un luogo di inenarrabili carneficine. Il termine “Prese” indica le 21 strisce, delimitate da strade, che attraversano da Nord a Sud i fianchi della collina del Montello, stabilite dalla Serenissima già nel XV secolo come controllo forestale (“presa” indica il “prendere il legname”).

In Intervento del 1981[2] dicevo che: l’“alta guida” è innanzitutto quella del re e l’espressione è tratta dal bollettino della vittoria: “La guerra contro l’Austria-Ungheria, che sotto l’alta guida di sua maestà il Re, duce supremo…”. Questo gruppo di poesie titolato Che sotto l’alta guida non vuole essere una presa in giro del re o d’altro, ma è la pura e semplice constatazione dell’assurdità che spesso si rivela nella storia. Ora non si ricorda neanche più che c’è stato un re, che ci sono stati più di 600mila morti; lasciare in Galateo in Bosco il verso così com’era mi sembrava eccessivo; perciò ho tolto la parte iniziale. Le vicende della Prima guerra mondiale meritano una considerazione rispettosa; non c’è niente che debba suonare ironico nel mio scritto. L’ironia deve semmai essere come un raggio radente, che non tocca quella che è stata la terribilità del sacrificio di questi uomini. E ormai, dalla nostra prospettiva, la sua totale assurdità.

Lettura del Galateo in Bosco alla Valle dei Morti (area n. 5 nella cartina). La valle, aperta e ondulata, si trova all’incrocio tra la Presa 8 e la Dorsale. Attualmente è recintata e vi è vietata qualsiasi costruzione.
Il cippo che segnala la Valle dei Morti reca al di sopra di due fucili incrociati un cartiglio con la scritta “Valle dei Morti 15-23 giugno 1918”: esso ricorda le centinaia di soldati di entrambe gli schieramenti caduti in questa località durante la Battaglia del Solstizio. A detta dei testimoni, tutta la vallata era interamente ricoperta di sangue. Anche in prossimità della Valle ci sono toponimi eloquenti: Casa della Vedetta, Casa dell’Ardito, Casa Mitragliatrici, Cucuzzolo della Morte.

RT: Poco fa, spiegando chi era l’“alta guida” hai ricordato anche il generale Fiorone, quello della “Casa solitaria con lapide / sulla str. 18 del Montello”. In un incontro precedente mi hai confermato che quando scrivesti questa poesia – che tratta proprio dei crimini delle “alte guide” – non sapevi nulla della fama inquietante di questo generale. Mi sembra che tu abbia – e questo lo ho percepito anche in altri tuoi testi – una capacità, quasi sciamanica, di intuizione e di ultraveggenza.

AZ: Non so se sia così. Può darsi che da piccolo io abbia anche sentito questi discorsi sul generale Fiorone-fucilatore, e qualcosa mi sia rimasto sedimentato dentro. Ma quando ho citato nella poesia la “Casa solitaria con lapide / sulla str. 18 del Montello”, di certo non avevo coscienza del soprannome dato dai soldati al generale.

Il monumento al generale Giuseppe Pennella, comandante dell’8a Armata, che difese il Montello nella Battaglia del Solstizio, sorge vicino alla Valle dei Morti. A fianco del monumento, costruito con blocchi di conglomerato, sorge un Sacello dedicato ai caduti di tutte le guerre; in una sua nicchia è conservato un tronco di castagno che conserva ancora i segni delle pallottole e delle schegge della Battaglia del Solstizio. Infine, ai due lati del monumento, sono posti due obici di artiglieria, mentre quattro proiettili di bombarda delimitano il sito.

RT: Il concetto dell’“alta guida” sviluppato in Galateo in Bosco lo avevi già anticipato venticinque anni prima scrivendo del Guidatore/Mussolini, i cui discorsi la signora Weizen[3] ascoltava con venerazione illimitata alla radio. Oggi, più che sentire la radio vediamo la televisione, ma non è che sia cambiato più di tanto. È proprio insito nel nostro DNA di italiani aver sempre bisogno di “alte guide” e di Guidatori?

AZ: Più che bisogno è supina accettazione. Alle elementari avevamo tanti maestri fascisti perché, altrimenti, senza tessera non lavoravano. Non solo l’Italia, ma anche la Francia ha avuto le sue “alte guide”. Charles de Gaulle, però, era simpatico, perché col suo nome – De Gaulle – si sentiva un guerriero, un condottiero medievale. Suo pregio: non essere stato succube dell’Inghilterra; e poi era noto per il suo coraggio. Forse, per avere la democrazia, in Francia, come in Italia, è stato necessario passare per la dittatura, o almeno per una semidittatura. Oggi, anche in Italia, forse non è proprio semidittatura, ma c’è qualcosa di strisciante…

RT: In “Sul Piave. Nel quarantesimo anniversario […]” a un certo punto la poesia diventa un invito-invocazione al fiume (a te stesso) di sottrarsi alla storia: “Resta, umano con noi. E cessa […] Non avere domani”. È dunque meglio uscire dalla storia, sottrarsi all’imperativo del partecipare, se la storia è fatta/gestita da “alte guide” e “Guidatori”?

AZ: Il mio non è un invito ad estraniarsi, ma a non trasformare il Piave in simbolo perenne. Ho sempre pensato – e anche Montale la pensava così – che la storia non è mai accettabile né rifiutabile completamente. È un andamento a sinusoide.

Zanzotto cammina sul grande prato sovrastante le rive della Fontana del Buoro (n. 3 nella cartina); sullo sfondo si intravvede, al di là del Piave, il sito chiamato oggi Isola dei Morti (n. 2 cartina). L’Isola dei Morti, in località Moriago della Battaglia, in origine si chiamava Isola Verde; oggi è un parco della memoria che deve il suo nome all’altissimo numero di perdite umane che la contesa di questo lembo di terra sulla riva del Piave causò a entrambi gli schieramenti.
Il Piave visto dalle rive della Fontana del Buoro.

RT: Ma il nostro impegno? Come comportarci?

AZ: Adesso siamo arrivati al punto zero. Non è neppure immaginabile un conflitto, perché sarebbe atomico. Saremmo alla fine della storia, allora. Quindi l’unica speranza e imperativo sono quelli di risalire. Due anni fa, in un libro sulla poesia di Ungaretti ho concluso la mia prefazione evidenziando che nella guerra da lui descritta era chiaro e tendo il passaggio dall’idea del combattimento-gioco fra aristocratici e quella di strage. Fino alla Prima guerra mondiale esisteva una componente ludica fra gli aristocratici che facevano la guerra (“Monsieurs les anglais tirez les primiers”); poi con la Grande Guerra questo spirito cavalleresco scompare quasi del tutto a eccezione degli aviatori che spesso duellavano.

RT: A settembre siamo tornati sui luoghi che percorrevi da ragazzo. Cosa allora ti attraeva?

AZ: Percorrevo spesso le strade del Montello, in bicicletta, dopo aver passato il Piave al Passo Barca di Falzè. Mi attraeva il gusto dell’avventura, l’andar dentro per le stradine del Bosco. Le scorribande in bicicletta erano come l’entrare in una foresta vergine. C’era anche la speranza di incontrare qualche ragazza. Non è che questi incontri fossero frequenti, ma neanche assenti. Li ho ricordati anche in Galateo in Bosco. Sul Montello c’era il Lago Turchino dove si ballava.

RT: Al Lago Turchino ci andai anch’io una domenica pomeriggio. Non avevo ancora trent’anni. Le ragazze erano tutte sulla ventina. Un’altra generazione. Fattomi coraggio, invitai una a ballare e al suo no, ci rimasi male.

AZ: Anche a me capitava, ma per evitare lo shock del rifiuto l’invito andava formulato diversamente: “Bàlea éla?” – “No!” la risposta. Allora un subito “Neanca mi”; così almeno “come un colpo di tamburello” si salvava la faccia.

RT: Come era il paesaggio all’epoca delle tue scorribande?

AZ: Lapidi e segni di guerra erano ancora molto evidenti. Si sapeva che lì c’era stata la guerra, ma non ci colpiva più di tanto: da ragazzi, gli interessi erano – come detto prima – altri. Invece, è stato quando ero bambino che ho vissuto un clima particolare, che ha influito sulla costruzione di Galateo in Bosco. Gli adulti raccontavano episodi personali di guerra e i ricordi si trasformavano in favole.

Le azioni di guerra più straordinarie erano state onorate dall’erezione di un gran numero di cippi, alla cui inaugurazione noi bambini dovevamo presenziare. Si viveva – ed è ricordato in Intervento – come dentro una specie di funebre leggenda; come se noi, che non avevamo vissuto la guerra perché nati dopo, fossimo stati costretti a riviverla, quasi ad esserne partecipi.

Poi, nei miei ricordi più antichi c’è quello dei fascisti entrati per il portone a prendere e portar via mio papà o forse a dargli una lezione. Ma mio papà si è fatto loro incontro e ha detto “Vediamo cosa si vuol fare contro un ufficiale combattente della Grande Guerra”. Mi è rimasto il ricordo ben preciso di come lui si slanciò verso l’arco dell’entrata, ben determinato e quasi aggressivo nei confronti di quei giovanotti, che – come intimiditi – rinunciarono. Mi ricordo anche le persecuzioni che venivano fatte a mio papà perché manifestava contro l’uccisione di Matteotti.

RT: Andrea, penso che sarai d’accordo nel concludere questo nostro “Ritorno sul Montello” con parte del testo da te preparato in occasione della visita del Presidente Napolitano a Vittorio Veneto, lo scorso novembre.

AZ: Certo. Ho veramente piacere di portare alla conoscenza dei lettori due testi tratti dal Galateo in Bosco, opera in gran parte dedicata a una rimeditazione della Grande Guerra in tutti i suoi aspetti. Innanzitutto una paginetta che può riassumere quello che è stata la Grande Guerra: “Un libro da proporre come fondamento delle bibliotechine di famiglia, di scuola ecc.: un puro elenco di nomi e relative date, sessanta righe a caratteri piccoli e stretti per ogni pagina: sarebbero circa 10.000 pagine. Solo per una guerra, per un Paese, e tralasciando gli impazziti i feriti e i mutilati”.

Zanzotto seduto davanti al Sacrario del Montello (n. 11 nella cartina); l’area dove attualmente sorge è quella indicata dal cerchio arancione), nel comune di Nervesa della Battaglia (n. 10 nella cartina), con in mano Il Galateo in Bosco, da cui leggerà Rivolgersi agli ossari.

E ai militari morti, feriti e mutilati deve essere aggiunto tutto lo strazio patito dalla popolazione civile: la fame, le malattie e la perdita degli averi per le popolazioni dei territori occupati, e – per quelli della Destra Piave – il profugato, in una diaspora per tutta l’Italia fino in Sicilia.

In alcuni nostri paesi, lapidi ricordano che i morti civili per fame furono ben di più dei compaesani morti combattendo.

E poi c’è la guerra postuma: tra i pericoli che insidiano l’ambiente esiste purtroppo l’infernale sigillo di scoppi di proiettili che ancora oggi uccidono le persone.

Del Galateo in Bosco desidero proporre dei miei versi; hanno per titolo “(Che sotto l’alta guida)”, chiaro richiamo alla prima riga del Bollettino della Vittoria. In tutto, sotto questo titolo ci sono cinque poesie; quella che segue, rispetto alle altre, prende una luce meno orribile e si conclude dando spazio alla speranza.

Ho ripreso da Giorni di guerra di Giovanni Comisso una pagina particolare per l’afflato di serenità e speranza che introduce nella terribilità della lotta.

O boschi non defoliati
Delle guerre di tanti anni fa,
quando un ciliegio ai disperati
urli ed al sangue opponeva un salto di qualità.

Nell’ora che più intenta al suo banco squartava la battaglia,
quando come ai pidocchi si sentenziavano destini,
neutrali a sé stavano le bestiepiante della boscaglia
e a divine fogliate pause portavano i cammini.

Stava il ciliegio con le sue gocce rosse
privilegiatamente dimenticato e dimentico
tra le piante qua e là per sbaglio ferite, tra fosse
di granate e il bruum delle artiglierie ardenti.

Giovanni Comisso saliva sul ciliegio,
l’ilare sangue ne gustava a sazietà:
di Giovanni e del ciliegio il privilegio
lascia ad ogni vivente, o umanità.

A questo afflato di serenità e speranza deve accompagnarsi un forte culto della memoria. Non bisogna infatti dimenticare che se oggi si parla di sacralità della pace, alla vigilia dello scontro decisivo sul Piave si parlava di ben altra sacralità: quella della guerra. L’impero austro-ungarico sapeva di mettere in gioco una tradizione millenaria; l’Italia, d’altra parte, rischiava di vanificare addirittura il Risorgimento.

E dopo essere ripiombati in un altro e orrendo conflitto, oggi, a novant’anni di distanza, queste paure ancora serpeggiano; ma dobbiamo impegnarci a superarle – speriamo definitivamente – raccogliendo tutte le energie positive per dar vita ad un’Europa unita.

Le foto storiche del Montello sono tratte da La guerra d’Italia 1915-1918, volume sesto, Dal Piave a Vittorio Veneto. La vittoria, Milano, Treves, 1924.

In copertina: Il sacrario militare di Nervesa della Battaglia.


[1] Si tratta del generale Vittorio Fiorone (Genova, 1861-1920); attualmente sul Montello esiste un’azienda agricola/agriturismo che porta il nome del generale (GF).

[2] Si tratta della trascrizione dei due incontri con gli studenti di Parma avvenuti nel 1980, raccolta nella sezione “Prospezioni e consuntivi” del “Meridiano” Poesie e Prose scelte, Mondadori 1999 (GF).

[3] Si tratta del racconto Ero farfalla, in Sull’Altopiano (RT).

poeta e studiosa. Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Venezia, è dottore di ricerca in Storia della Lingua all’Università di Padova; attualmente sta svolgendo un dottorato a Losanna. Tra gli ultimi libri di poesia: “Sara Laughs”, D’If 2007; “Il noto, il nuovo”, Transeuropa 2011; “Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda”, Arcipelago Itaca 2015; “Datità”, postfazione di Andrea Zanzotto, Arcipelago Itaca 2018 (prima edizione Manni 2001). È inclusa in varie antologie, tra cui “Parola plurale”, Sossella 2005; “Poeti degli anni Zero”, Ponte Sisto 2011; “Nuovi poeti italiani 6”, Einaudi 2012; “Grand Tour. Reisen durch die junge Lyrik Europas”, Hanser 2019. Come critica militante, co-dirige il lit-blog “Inverso. Giornale di poesia” e collabora con varie riviste. Come saggista, ha pubblicato saggi e recensioni sul Settecento e sul Novecento in volumi e riviste accademici.

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