Il caso Djokovic e l’uso delle metafore

16/01/2022

Leggo il commento di Srdjan Djokovic alla sentenza di espulsione di suo figlio dall’Australia. Si tratta di una frase sibillina affidata ai social media: “l’attentato al miglior sportivo del mondo è finito, 50 proiettili al petto di Novak”. Mi pare che questo tipo di uso del linguaggio sia divenuto consueto in un momento storico di generale amnesia. Dalle stelle di David alle citazioni decontestualizzate sul fascismo; dall’uso del nome dei morti all’innesto di argomenti di fantascienza sul discorso scientifico (noto l’esempio dei lemming, utilizzato da Agamben, per indicare il suicidio di massa dell’umanità), si ha l’impressione che l’uso distorto della retorica divenga una costante.

Non stupisce, allora, che il padre di un tennista di cui, alcuni mesi fa, circolarono le immagini sorridenti al matrimonio di Milan Jolovic, ufficiale in comando dei “Lupi della Drina”, tra i carnefici più efferati della strage di Srebrenica, si senta autorizzato a utilizzare la metafora delle pallottole in corpo per l’esclusione da un torneo di tennis, per comprovate – e passate in giudizio – irregolarità da parte di un atleta, rispetto alle leggi federali di quella nazione sovrana.  

Di fronte a questo uso del linguaggio, totalmente scollato dalla realtà, resta forse, come contrappeso, la potenza intatta delle immagini.

Viene, così, spontanea una domanda per Srdjan Djokovic. Lei sa cosa ritrae questa foto? Immagino che lo sappia. Ma nel caso l’abbia dimenticato, glielo ricordiamo: il cimitero delle vittime della strage di Srebrenica, compiuta dai “Lupi della Drina”, di cui uno dei capi, Milan Jolovic, è seduto di fianco a suo figlio a una tavola festosa.

Mi pare che, noi tutti, prima di usare metafore come quella delle pallottole, abbiamo il dovere di fermarci e cercare nella memoria cosa siano le pallottole e quali conseguenze sortiscano quando entrano nel corpo di un essere umano.

Come ebbe a dire Jean-Luc Godard, la guerra è un pezzo d’acciaio nella carne. Bisognerebbe ricordarsene e, allo stesso tempo, come ha detto recentemente un noto tennista, occorrerebbe anche sempre imparare a valutare la storia su una medesima scala, così da non confondersi sulla portata dei nostri allarmi, del nostro senso dell’ingiustizia e delle priorità del consorzio umano: “questi sono – e io ero – dei ragazzi in mutande che giocano con le pallette, e pensano di essere più importanti di Gino Strada! Non prendiamoci troppo sul serio, altrimenti diventiamo ridicoli”.

Federico Ferrari

(Milano, 1969). Insegna Filosofia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: “L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine” (Johan & Levi, 2013), “L’anarca” (Mimesis, 2014; 2a ed. Sossella, 2023), “Oscillazioni” (SE, 2016), “Il silenzio dell’arte” (Sossella, 2021), “L’antinomia critica” (Sossella, 2023) e, con Jean-Luc Nancy, “Estasi” (Sossella, 2022).

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