La tecnica, come l’arte, è capace di capovolgere le nozioni usuali di visibile e invisibile: strati prima inaccessibili del cosmo appaiono grazie a una lente o a un congegno. Non si tratta però solo di potenza o grado, ma di generi di visione differenti. Dovremmo ricordarcene quando, per esempio, un dispositivo elabora l’immagine di una foresta animata da una brezza, non cogliendo la coesione istantanea e semplice dell’insieme, ma mappandola in nuvole di punteggiature. Nella traduzione di un flusso in poche operazioni matematiche, traccia un solco dal vivente stesso che l’ha prodotta, rimanendovi però paradossalmente coinvolta. Se è vero, quindi, che la macchina ‘vede’ solo qualcosa per cui è costruita e programmata a vedere (ed entro i limiti della propria costituzione), ciò che esprime è un altro mondo, diverso e complementare, eppure immanente alla vita.
Visitando Re-Coding, la personale di Davide Quayola allestita in via del Corso dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, si coglie subito una continuità di metodi con l’estetica generativa (qui un breve vademecum). L’idea alla base dell’intero movimento è che una varietà imprevedibile di forme si propaghi a partire da poche, elementari linee di codice (motivo antichissimo dell’atomismo, ripreso già nel Timeo platonico). Si aprono così orizzonti molto ampi, che congiungono le belle arti alla matematica e alla biologia. Gli algoritmi generativi sono infatti un manipolo di formule magiche stilizzate, di fiat o emét impressi su golem robotici, che ripropongono la tensione inesauribile tra differenza e ripetizione.
Scorrendo i vari lavori che compongono Re-coding, ci si rende conto che la ricerca artistica di Quayola tocca, più o meno consapevolmente, tutti i punti salienti della questione, declinandoli con una certa ammiccante eleganza, nel confronto costante con la tradizione iconografica, l’arte paesaggistica e l’astrattismo. Particolarmente presente è la ripresa di motivi di Kandinskij, come la natura sinfonica e sinestetica degli elementi spaziali. Così, ad esempio, nelle installazioni e tele delle Iconographies (2020) le figure si risolvono in partiture e contrappunti di più voci, rendendo il concentrarsi e dispiegarsi di un tema. Quayola accentua proprio questa tessitura armonica fondamentale: nelle Strata series gruppi di schermi trasmettono sequenze di pulsazioni e ticchettii che intonano l’avvicendarsi periodico delle strutture geometriche. Le sezioni dell’immagine si intrecciano e riscoprono reciprocamente, crescendo sovrapposte come arbusti: vita dalla vita ma di tipo nuovo, diverso. La presa di forma coincide con una polifonia di fasi che transitano sussultando l’una sull’altra: il diamante e il cristallo esaltano questa genesi poliedrica, individuando in ogni punto di equilibrio un momento della spinta a solidificarsi e sfaccettarsi. Tutto accade nello spazio numinoso del linguaggio algoritmico, dove regnano elementi figurativi minimi (triangoli, poligoni) che, come intervalli musicali o lettere dell’alfabeto, si dispongono in combinazioni volatili. La pura ars combinatoria mette in luce in tal modo le dinamiche computazionali di stratificazione: sotto o ‘dietro’ la forma compiuta c’è infatti un impulso compositivo, un sottile meccanismo di ripetizione che si individua in giochi di superficie sempre nuovi. Per la macchina, infatti, le traiettorie che presiedono alla figurazione sono inscindibili dalle figure stesse: sono appunto stratificazioni, giochi di dimensioni mutevoli e intersecate.

Lo studio analitico delle operazioni di superficie produce ancora risultati interessanti. In una grande installazione audiovisiva (Pleasant Places, 2019) si susseguono godibilissimi giochi di luce nelle riprese di giardini francesi disfatti e ricomposti. La macchina filma piante e fiori, ne traduce il movimento spontaneo nel passaggio da un insieme di rapporti funzionali a un altro. Isola i punti luce, li rende come fosforescenze e campiture simili a pitture impressioniste. Il colore condensa in mattoncini di nitore, i fruscii vegetali in bassi sintetici, mentre su uno schermo accanto (tutto è gemellare) permane il filmato originale intatto. Risolto in amebe, il secondo paesaggio ricresce in composizioni floreali: all’analisi segue una nuova sintesi. Ancora una volta viene completata e ricreata, procedendo per tentativi, un’immagine iniziale sfibrata: forma dalla forma, forma come materia di formazioni future. Operazioni analoghe, concentrate stavolta sulle densità volumetriche, animano la serie della Sculpture Factory, cui appartengono le straordinarie variazioni sul Laocoonte: frutto di un programma che, analizzando frammenti di statue classiche, affida a un braccio meccanico il compito di ricomporne l’interezza in guise innumerevoli, secondo quella scienza delle soluzioni potenziali che coincide qui tout court con l’articolabilità intrinseca dei materiali.

L’ultimo lavoro di Quayola, forse il più affascinante e pop, è la selva magnetica della serie dei Remains (2020), prodotta da scansioni laser fotografiche di vaste foreste di pini, successivamente stampata in getti d’inchiostro bianco su sequenze di pannelli neri. Espressione più evidente di quell’ibridazione dell’immagine che muove la ricerca dell’artista, qui il paesaggio è tramutato definitivamente in ossature numeriche, negativi del movimento vitale polverizzato in grani di luce. Ciò che emerge sono appunto queste tracce di flussi minimi, linee di forza e tensioni che imprimono sulle lastre, per così dire, l’aspetto codificabile dell’anima. Il remain è questo residuo di un’inconcepibile simbiosi tra il respiro collettivo dei boschi e il calcolo di un occhio inumano, ovvero tra l’ambiente e la tecnica, aprendo a un dominio più ampio di accoglienza e inclusione reciproci.
Ma l’opera invita ad altre considerazioni: presentando la forma come un insieme di vettori invisibili, sembra voler fissare l’attimo stesso in cui il movimento si ingenera. Come in Kandinskij, i primi volumi si costruiscono a partire da impulsi ritmici (ciò che il grande pittore russo chiamava «l’elemento spirituale»): anzitutto elasticità e tensioni sul punto di incominciare, fondo energetico dell’evento creativo. La cinetica originaria del colore è innescata, anche in questo caso, da poche stringhe di codice, traducendo l’energia in informazione, la forma in formula. In tal modo lo sguardo meccanico astrae ciò che il vivente non può cogliere, proprio perché vive immediatamente, ma che riscopre come spazio fecondo di costituzione. È questo incremento di potenziale in seno alla vita, anche in Quayola, l’orizzonte creativo che i nuovi media aprono all’arte.

Secondo una linea maggioritaria di pensatori – da Kapp a McLuhan, da Bergson a Merleau-Ponty – gli oggetti tecnici sono estensioni plastiche dell’organismo, costruite spontaneamente per amplificare questa o quella funzione sensibile. Pur non essendo propriamente macchine, in effetti, noi siamo fatti delle stesse macchine che produciamo. La macchina è parte della vita e del corpo, inclusa in essi, costituendone un’angolatura particolare e una proiezione. Viceversa, potremmo allora dire, il vivente è il limite del macchinale. Perciò le tecnologie non prolungano solamente le nostre capacità, ma ci dicono qualcosa su di noi che da soli non potremmo afferrare: a loro deleghiamo un’autoreferenzialità impossibile.
Kapp invitava soprattutto a cogliere il rapporto privilegiato che la tecnica intrattiene con l’inconscio: materializzando misteriose profondità della mente, viene performato uno spazio nuovo e ibrido. La macchina traccia così inedite vie di realizzazione di impulsi fondamentali, ricodificando quell’aspirazione alla forma che incomincia sempre, simile a un sogno, nei meandri della materia.
Davide Quayola
Re-Coding
Roma, Palazzo Cipolla
Fino al 30 gennaio 2022
In copertina: un’opera della serie Remains, 2020