Romeo Castellucci a colloquio con Velia Papa
È uscito presso Cronopio (pp. 101 ill. col., € 20) Attore, il nome non è esatto. Il teatro di Romeo Castellucci nelle foto di Luca Del Pia, volume fotografico che in occasione della mostra omonima (tenuta al Teatro delle Muse di Ancona dal 27 aprile al 27 giugno) documenta venticinque spettacoli storici della Societas Raffaello Sanzio, da Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco (Cesena 1992) a Orfeo ed Euridice (Vienna 2014). Il volume è concluso da una conversazione di Romeo Castellucci con la direttrice di Marche Teatro, Velia Papa, che per la cortesia degli autori si propone in questa sede accompagnato da una scelta delle immagini di Luca Del Pia.
Partiamo dalle origini. Anche tu eri in scena, come attore, nei primi lavori della Raffaello Sanzio.
In principio eravamo un gruppo di sette amici che avevano deciso di affrontare la disciplina del teatro. Era un modo di stare al mondo. Sono arrivato a Bologna come studente di liceo artistico quando entravano i carri armati in via Zamboni. Erano gli anni dell’impegno politico ma personalmente non ho mai aderito a un movimento perché preferivo, come altri della mia generazione, esprimere la necessità di un cambiamento più radicale attraverso il linguaggio artistico. Il desiderio politico di rovesciare il sistema mi appariva come una fede rovesciata in quello stesso sistema.
A diciassette anni, in Piazza Maggiore, a Bologna, assistetti alla Sagra della Primavera di Igor’ Stravinskij eseguita da un’orchestra. Niente mi apparve più epifanico, più sovversivo di quella musica, scritta nel 1914. Non c’erano Sex Pistols che potessero reggere il confronto. Fu un vero shock estetico. Capii che la violenza poteva essere veicolata e disciplinata in una forma. Quella fu la mia prima lezione di Estetica: un’esplosione di forza controllata fino al midollo in una forma artistica. Stravinskij stava utilizzando le parole che io non avevo ancora trovato per dire le cose che avrei voluto dire e che non sapevo di voler dire. Ma non erano parole.
Nella compagnia appena formata tutti facevano tutto. Io stesso ‘facevo’ l’attore, ma mi sono sempre più allontanato da questo compito. Quando ho acquisito una maggiore coscienza rispetto al dispositivo della messinscena sono sceso dal palco per poter ‘vedere’. Era necessario avere controllo sulla forma, che andava affilata per penetrare meglio nel corpo dello spettatore.
C’è stata una prima fase iconoclasta del nostro lavoro. Un lavoro basato sul paradosso, perché si malediceva il teatro ma l’unico posto per poterlo fare era il teatro stesso. Si malediceva il teatro perché la sua colpa originale era quella di replicare la realtà anziché allontanare il suo finalismo realista. Santa Sofia. Teatro Khmer era improntato sulla maledizione di sé stessi perché, per odiare l’arte e con l’obiettivo di sgomberare il campo da essa, era necessario utilizzare proprio l’arte per farlo. Una contraddizione capace di gettare pensieri ancora impensati.
In seguito a questa concezione iconoclasta è nato un interesse verso la mitologia mesopotamica, verso gli albori dell’oriente semita. Grande fu l’entusiasmo per lo studio filologico dell’arte sumera e accadica. A partire dall’azzeramento è seguita così una rigenerazione dell’icona, o della super-icona, come amavamo definirla.
Più avanti negli anni, riconsiderando il pensiero mitico, siamo approdati alla tragedia attica; siamo, se così si può dire, tornati a casa.

Cos’ha comportato l’affondo nella Tragedia in relazione alla concezione dell’attore?
Il grande incontro con la Tragedia è avvenuto sulla base della considerazione che vi è un anacronismo essenziale rispetto all’epoca in cui viviamo. La Tragedia è stata còlta come filosofia di vita. Questa consapevolezza ha portato a un lavoro di scavo radicale che ha investito anche la concezione dell’attore. Era troppo semplice relegare la tragedia all’archeologia del teatro. La sua marcatura continuava a operare con più forza ed efficacia proprio perché immersa nell’amnesia, indicando una concezione ‘tragica’ dell’attore, che potesse richiamare, come un appello lanciato dall’ombra, la povera vita quotidiana, la vita ordinaria, ma profonda, dello spettatore di oggi.
Come dicevo, all’inizio avevo praticato in prima persona la disciplina dell’attore; poi, finita quell’esperienza, l’attore era svanito sotto il peso della maledizione iconoclasta di dover essere presente sulla scena – presenza necessaria all’anatema della scena –. In una fase successiva c’è stato poi il ritorno trionfale dell’attore che, al contrario, aveva il compito di dire la potenza del non dire. Uso il verbo ‘ritornare’ non a caso: l’attore ritorna sempre sulla scena perché questa è il retaggio del tragico. La Tragedia, abbiamo studiato, nasce quando l’antico istituto del sacrificio entra in crisi e quando l’ultimo Dio, il vecchio Pan, muore. Il cielo tragico è un cielo azzurro, freddo, nuovamente vuoto. Non c’è più nessuno. Non c’è senso, non ci sono risposte. Questo cielo è un luogo inaudito, nuovo, disponibile. L’attore ritorna e prende il posto del capro macellato. È il fantasma dell’animale che ritorna sulla scena e riprende ciò che era suo. Sullo sfondo, la memoria dell’istituto sacrificale come parodia per irridere il sacrificio. Palco versus Altare.
Cosa ha significato e cosa significa per te l’incontro con gli attori?
Con l’uscita del mio corpo dalla scena rimaneva il solco luminoso dell’attore. Una stella. Avevo la possibilità inaudita di poter scegliere i corpi da collocare dentro il vuoto di questa mandorla di luce. Ma incontrare gli attori significava incontrare persone reali, non semplici idee che uscivano dalla mia testa.
A fianco degli attori – stelle – ho vissuto i momenti tra più ricchi e felici della mia esistenza. Non sono un pedagogo, non sono un regista che usa uno stile, un metodo o una frusta. Non mi ritengo qualcuno di così speciale, tale da imporre la mia volontà su altri esseri. La mia attitudine è piuttosto quella di una pedagogia rovesciata, là dove, cioè, sono io che mi metto in loro ascolto. Certo, scelgo arbitrariamente uomini e donne sulla base dei corpi che posseggono; ma aggiungo qui una cosa: non sono sicuro di essere davvero io a scegliere. Qualcosa mi scavalca da dietro. È la Drammaturgia a farlo.
Quando il mondo reale fa irruzione nel teatro (ho trovato persone completamente all’oscuro del teatro, persone che non vi avevano mai messo piede, neppure come spettatori) vi è un principio di movimento, cioè una potenza. Occorre lasciare che accada il reale, per sospendere la realtà.
Sono stati gli anni di Orestea e Giulio Cesare, per i quali facemmo il casting letteralmente sulla strada (così era stato anche per Gilgamesh, in verità, qualche tempo prima). In quel periodo vedevo la professionalità dell’attore con sospetto, proprio perché il professionista conosceva – con i metodi acquisiti – come gestire la vergogna; ma, per come la vedevo io, così facendo neutralizzava la parte migliore. Volevo delle persone che si mettessero a nudo, esposte al fuoco del palcoscenico, senza il riparo di una tecnica, di un sapere. Tutto doveva essere compreso nella vampa di una forma. Incontravo persone reali le quali erano attonite nel ritrovarsi a camminare su un palcoscenico. Non sapevano quello che stavano facendo, come me. Questi uomini e donne portavano la tremenda forza e il peso del loro vissuto e del loro corpo. Me ne dovevo fare carico nella ricerca di una forma esatta.
Oggi, quando incontro una persona per coinvolgerla in scena, parlo. I dialoghi sono impersonali e non prevedono implicazioni psicologiche o emotive. Non entro nelle vite degli altri. Ho bisogno dell’anonimato, ho bisogno di lavorare con il mistero di qualcuno. Questa distanza è essenziale perché è lo spazio comune di lavoro. Quello che ci terrà insieme è la ‘forma’, perché è la forma che ha chiamato il nostro nome, non le mie intenzioni (non ne ho). Insieme entriamo nell’alveo apodittico del suo fiume, trasportati dalla forza della sua corrente.

Come affronti uno spettacolo?
Ogni volta che affronto uno spettacolo cerco di mettermi in una condizione di minorazione, di idiozia. Gli strumenti del mestiere sono pericolosi. Occorre affilarne di nuovi, ogni volta.
Qual è il tuo rapporto con il testo e con la lingua?
In estrema sintesi, in teatro la parola non è strumento, non serve a comunicare e fabbricare concetti (la parola circolare della comunicazione lo sa fare bene, essendo un groviglio di intenzioni nascoste). In teatro, il leggendario “ciò di cui non si può parlare si deve tacere” diventa “si può parlare solo di ciò che dobbiamo tacere”, perché su un palco la parola denuncia lo scacco originale, rivelando a noi le prede linguistiche che siamo.
Che qualità deve avere la presenza dell’attore sulla scena?
Non lo so. So solo che una delle tecniche migliori è quella che consiste nel lasciarsi agire dalle potenze esterne, che pre-esistono. L’attore dovrebbe saperlo. Vi è precisamente un elemento primitivo che rende gli attori uguali: la passività, cioè il fatto di essere dotati di un corpo; un corpo che l’attore sa di dover consegnare alle potenze esogene. Da questo deriva il titolo Attore, il nome non è esatto. Spogliarsi dell’azione, spogliarsi della divisa da agente.
Quando hai lavorato con non professionisti hai scelto persone che avevano il corpo segnato da una sofferenza visibile.
Sono entrati nel modo più diretto e onesto, con la loro vita, che non era la mia. Non era una vita presa in prestito, erano persone che entravano sul palco come se si fosse trattato di un errore: il massimo dell’efficacia, il massimo della bellezza. Sono stati gli incontri più belli della mia vita. Entravano con paradossale autorevolezza. Erano monarchi. Capitava che fossero persone marcate dalle cicatrici della vita, persone che avevano attraversato delle difficoltà, l’affronto della società, il pericolo della morte. Ho scoperto le loro storie solo dopo molto tempo, stando con loro. Vedevo queste donne e questi uomini come le espressioni di una altissima bellezza. Non c’era alcun discorso da fare. Non c’era nessuna volontà di ‘inclusione’ – una parola da prendere con le pinze oggi – al di fuori di ogni ovvio commento sociologico o politico, di ogni sentimentalismo interessato. Erano compagni di strada severi, con i quali ho condiviso tutto e dai quali ho appreso come vivere. Erano loro che si spingevano sul baratro della finzione. Io ponevo dei limiti e loro li spostavano avanti. Io ero il vigliacco, loro mi trascinavano nel fuoco della lotta.

Qual è il rapporto dell’attore con il tempo della scena?
Il palcoscenico è il luogo dell’errore che si manifesta in un tempo sbagliato. Niente corrisponde alle leggi della morale qui. Persino le leggi fisiche e il tempo sono sospesi. Malgrado la finzione si arroghi la duplicazione della vita, il reale della scena non combacia mai con la realtà. Una faglia tettonica, uno scarto residuale impedisce il bacio simbolico della mimesi. Il reale del palcoscenico è lo spettro della realtà. Il vento che soffia nella fessura di questa cesura è il tempo dell’attore, la sua occasione. È ora, ma anche non-ancora.
Come lavori con gli attori in relazione al personaggio?
Insieme parliamo della forma. Per usare un termine un po’ desueto si lavora insieme sullo scavo del personaggio. In quest’ottica l’attore, in solitaria, scava fino ad arrivare al nulla del suo personaggio. Occorre studiare con rigore filologico e risalire alle sorgenti di Amleto, Clitennestra, Bruto, eccetera. Si tratta di mettersi nei panni di chi ha scritto attorno a quel personaggio e lo ha portato alla luce attraverso ciò che, in ambito di spionaggio industriale, si direbbe reverse engineering. Smontare per entrare nell’oggetto, capirne le funzioni e la struttura, capirne la filosofia compositiva che ha portato quell’autore ad arrivare alla soluzione di quella forma. Mettersi al suo posto, ricominciare da capo. Occorre arrivare alla radice della necessità stessa dell’invenzione di quel personaggio per poterlo affrontare. È un lavoro preso alla lettera, e lo scavo divora tutto; l’oggetto della ricerca svanisce. Lo scavo diviene matrice. E il personaggio a cui si arriva, alla fine, è sempre uno: lo spettatore. L’attore scavato è lo specchio oscuro su cui, dal fondo della sala, si riflette il volto anonimo dello spettatore, perché la domanda da porsi non è: “Cosa significa Amleto per me?”; quanto, piuttosto: “Cosa significo io per Amleto?”. È il corpo reale dello spettatore il palco del dramma definitivo.
Il tuo è un teatro ‘cólto’ che ha solide fondamenta culturali ma al tempo stesso è capace di immagini semplici e folgoranti. Come deve porsi lo spettatore?
Come spettatore non vorrei sapere nulla dello spettacolo che mi accingo a vedere. Non vorrei avere protezioni culturali. La parola chiave è abbandono. Abbandona! Abbandona la retorica certezza della protezione culturale. Al contrario, esponiti al tuo sguardo, sii presente a te stesso.

Il teatro è il luogo dello sguardo. In che senso “guardare è un atto politico”?
Nell’epoca in cui viviamo siamo immersi in un flusso ininterrotto di immagini spazzatura; viviamo una disfunzione dello sguardo. Guardare è diventato un gesto passivizzante e bidimensionale, dolorosamente ovvio, privo di profondità. Credo che rimangano pochissimi ambiti della nostra vita sociale e collettiva in cui ci si possa rendere conto di cosa significhi guardare. Non è scontato. Nell’arte vi è una sorta di lotta di liberazione dello sguardo, che si chiede cosa è importante guardare, imparando che guardare ha delle conseguenze e significa comprendere sé stessi nel quadro umano della visione. Gli artisti hanno il compito di curvare lo sguardo. Lo sguardo che interroga è anche uno sguardo gittante, che ‘fa’ la cosa.
Uno spettacolo richiede lo sguardo partecipe dello spettatore perché qualcosa manca. Ciò che manca è esattamente la parte dello spettatore. Se vogliamo, il teatro non avviene sul palcoscenico, non avviene neanche solo nella sala, avviene a metà, tra il palco e la sala, là dove vi è un velo invisibile. L’incontro dello sguardo con la cosa è la quinta parete – non la quarta –; la mente dello spettatore come quinta parete. È questo il palcoscenico definitivo.
Nella scena di apertura di Inferno i cani sbranano l’artista dissolvendone il nome appena pronunciato. In questo modo decreti l’autonomia dell’opera?
Sono profondamente convinto che l’opera, in quanto forma, sia universale e come tale appartenga a tutti. Come spettatore non mi interessano gli ambiti autobiografici, sociali e culturali relativi all’autore, i temi ‘politici’, l’impegno e l’attivismo della denuncia. Sono, a mio avviso, elementi di superficie che distraggono dal problema dell’opera e dal suo fuoco centrale.
L’artista deve scomparire per dare accesso a qualcun altro, a qualcos’altro. È il movimento dello tzimtzum descritto nella mistica ebraica: Dio si ritrae per permettere alla creazione di esistere. Se Dio non si facesse fuori, la creazione non avrebbe spazio di esistenza. Ogni creatore, piccolo Dio che si espone al ridicolo nella creazione, deve farsi da parte con il movimento dello tzimtzum. Non deve rivendicare, giustificare, imporre la sua presenza. Creare è fare spazio. Uno spazio che non è più mio.
Cosa intendi quando parli dell’“attore lapidato”?
Sul palco gli attori si espongono alla durezza dello sguardo, a una lapidazione che riduce e consuma il loro corpo. Gli attori sanno che devono farsi fuori. L’uscita dal palco è il movimento essenziale. Lasciare lo spazio, dopo averlo costruito. La recitazione è lotta, corpo a corpo con lo spettatore, dove la vittoria di quest’ultimo è scontata. La sconfitta dell’attore è però splendida. È come vedere il proprio volto. Quando il teatro funziona percepiamo un’autentica sensazione di pericolo. Lo si avverte per il fatto di essere presenti con il corpo al proprio corpo. Ciò che vedo è il mio ritratto, percepisco il pericolo di essere messo a nudo; anzi, si tratta di questo: qualcuno mi sta spogliando. Questo sentimento essenziale di paura, lungi dall’essere evitato, era per il greco sommo piacere. Il piacere di esporsi alla cattiveria del teatro, alla paura di morire davanti a uno spettacolo e ritrovarsi vivi, più di prima. Il teatro è un incontro con l’ignoto. Il metodo, ogni metodo, anestetizza la vergogna ontologica del palcoscenico, l’errore sostanziale, il non-avere-parole. Ogni metodo anestetizza il proprio del teatro.
Sul palcoscenico hai messo animali, bambini, macchine. In Le Sacre du Printemps addirittura gli attori sono scomparsi e le macchine assumono la funzione di personaggio. Come lavori con queste presenze?
Sono potenze esogene, irriducibili, letteralmente fuori da ogni pretesa del linguaggio. Non si viene a patti con queste potenze. Non abbiamo le parole per negoziare con loro. Si obbedisce. Obbedisco al cane, obbedisco al bambino, obbedisco al serpente, obbedisco al pistone oleodinamico. Gli animali, i bambini e le macchine entrano in palcoscenico come forze apodittiche sotto il cui peso il tessuto della finzione si deforma, si sfonda. Nel teatro borghese è tradizione evitare accuratamente i bambini o gli animali perché, si dice, “ammazzano gli attori”. Il teatro borghese aveva capito tutto, avvertendo la devastante forza di queste presenze, tremendamente più efficaci di ogni attore.
In Le Sacre du Printemps le macchine erano quarantotto, ognuna delle quali faceva una sola cosa. Nel contesto mitologico del Sacre, rappresentavano gli antenati che chiedono alla eletta di danzare fino alla morte. Facevano letteralmente danzare la polvere di ossa. Erano macchinari appesi al soffitto, come una forza celeste che impone la morte. La macchina cala sempre dall’alto, c’è sempre qualcosa di freddo, di calcolato, di teologico.
Secondo te è possibile formare una nuova generazione di attori consapevoli?
Non credo alla parola formazione a meno che non sia un moto autonomo e spontaneo. Noto nei giovani attori coraggio, generosità, disponibilità, in alcuni casi anche incoscienza, che, a mio avviso, corrisponde allo stato perfetto. Molti di loro preferiscono definirsi performer. Ma per me la parola attore è una parola più bella, perché antica, monumentale, contraddittoria.
Le cose poi si apprendono per contatto, attraverso incidenti di percorso, cose che vedi e non avresti dovuto vedere. Difficile che accada un’epifania attraverso canali prestabiliti come quelli di una lezione. A me non è mai capitato. Non ho mai creduto al rapporto insegnante-allievo. Chi si avvicina a questa arte dovrebbe rapinare, che non significa copiare, significa rubare gli strumenti.
Non credo che si possano insegnare l’arte del cinema, della scrittura o del teatro. Nelle scuole si impara a fare la cosa giusta, il che è omologante e condiscendente. Ai giovani registi dico: andate nei musei a guardare le tavole di Rembrandt, studiate e analizzate Velázquez. Se proprio ne avete bisogno, questi sono i maestri. Sono pittori e scultori, difficile che possano essere registi o professori. Andate al Prado, là ci sono le più alte lezioni sul corpo e sulla luce, sulle catene morali dell’essere, sui conflitti umani e divini. Sono condensati di apprendimento perché sono forme, non concetti.

Ci sono stati spettacoli che ti hanno colpito all’inizio della tua carriera e rimangono tuoi riferimenti?
Riccardo III di Carmelo Bene che vidi quando avevo sedici o diciassette anni. Punto di rottura del Carrozzone, poco più tardi. Il libro di Grotowski Per un teatro povero[1], in particolare le tavole fotografiche sul lavoro di Ryszard Cieślak. Carmelo Bene, ha segnato più profondamente; nel suo lavoro non vi era pedagogia. Il suo era un sistema che, attraverso un’immensa manovra formale, portava al parossismo la questione linguistica, affinché non vi potesse essere risposta. L’uso dell’amplificazione in Bene eccedeva la voce rivelando la lingua che manca. Il suo era un teatro fatto di eclissi continue, i cui fantasmi balenavano per combattere l’assolutismo della realtà.
È necessario, il teatro?
Il teatro è necessario perché è inutile. Non cambia il mondo e non l’ha mai fatto. La giurisprudenza cambia il mondo. Il teatro che io rispetto è sempre una scena di crisi e non l’espressione dei buoni sentimenti. Assumo il male del tempo perché è identico a quello che abita nella mia vita ordinaria. Sul palco la colpa è sempre mia.
In che senso continui a considerarti ‘greco’?
Considerarmi greco non ha niente di saccente. Per me significa pensare l’impensato. La Grecia significa essere altrove perché non si può rimanere in questo mondo. Significa essere inattuali per poter pensare il contemporaneo. Per dire di questo mondo non si può usare questa lingua. Bisogna sospenderla, come faceva il più perfetto dei ‘greci’ tra noi, Hölderlin. Per fare la Tragedia bisogna averla persa. Essere greco: non avere lingua.

[1] Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970.
VELIA PAPA, direttore di Marche Teatro, si occupa di progettazione, produzione artistica e ricerca multidisciplinare. Esperta di relazioni internazionali ha dato vita a numerose reti per la promozione dello spettacolo dal vivo con particolare riguardo alle nuove generazioni artistiche e ai progetti di innovazione. Ha seguito il lavoro di Romeo Castellucci e della Societas fin dagli esordi, dedicandogli, nel 1993, l’intera edizione del Festival Inteatro di Polverigi.
LUCA DEL PIA, fotografo e videomaker, collabora da anni con artisti della ricerca teatrale, che segue con “uno sguardo materico e anti-illustrativo, andando ben oltre la semplice documentazione per farsi visione, dialogo intimo, presenza e non rappresentazione”, come recita la motivazione del Premio Hystrio-Anct assegnatogli nel 2019. Del Pia ha allestito mostre in diversi spazi tra cui il Palazzo delle Esposizioni di Roma e il Moma di Chicago. Sul lavoro di Castellucci ha pubblicato Itinera (Actes sud, 2008).
Tutte le fotografie che accompagnano l’articolo sono di Luca Del Pia. Le immagini sono tratte dall’Archivio Storico della Societas Raffaello Sanzio, riconosciuto dalla Soprintendenza Archivistica dell’Emilia-Romagna e digitalizzato dal Progetto ARCH.
In copertina:Genesi. From the Museum of Sleep, 1999. Nella foto: Demetrio Castellucci, Teodora Castellucci, Agata Castellucci. ph. Luca Del Pia