Alcuni anni fa, Antonella Moscati ha scritto, probabilmente, il più bel libro mai pubblicato sulla menopausa, Una quasi eternità (nottetempo 2006). La sua lettura è una di quelle esperienze che segna profondamente il lettore, indipendentemente da quale sia il suo genere. È ancora vivida in me la percezione della scoperta di un lato dell’esistenza a cui non avevo mai davvero pensato e di cui, in ogni caso, nulla avevo compreso. Molto semplicemente, Moscati mi aveva posto di fronte alla realtà. Ed è una cosa rara, ancor più in questi anni in cui si stenta a trovare scrittori e pensatori che scrivano a partire da un’urgenza reale, coinvolgendo il proprio lettore in un’esperienza trasformatrice della propria percezione del mondo. Ovviamente, questa esperienza è possibile solo quando l’urgenza trova una forma capace di contenerla, di renderla visibile, leggibile, sperimentabile, senza scadere in quella sorta di autobiografismo dove la singolarità dell’esperienza nulla dice dell’universalità di un oscuro sentire o in quella letteratura d’accatto che strizza l’occhio al melenso e alla pappa del cuore. Detto altrimenti, raro è trovare un testo che sia davvero il frutto di un atto di scrittura. Moscati appartiene, sicuramente, al novero, assai ridotto, di coloro che hanno questa dote.
Nel suo ultimo libro, Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta, Moscati compie un atto riparatore, quello che Benjamin avrebbe chiamato un gesto di rammemorazione (Eingedenken), capace di rendere giustizia a coloro che non ne hanno avuta in vita. Viene, così, tratteggiata– sullo sfondo di una società prossima all’avvento dell’eugenetica nazista e caratterizzata da categorie di pensiero forgiate su una visione del fenomeno umano fortemente maschilista e patriarcale– la figura di Ellen West, nome di fantasia, dato da Ludwig Binswanger a una sua paziente, affetta da anoressia, per la quale lo psichiatra svizzero avallerà, in accordo con il marito, la pratica del suicidio come unica soluzione possibile per porre fine a uno stato di sofferenza, a suo avviso, incurabile. Attraverso una ricostruzione assai accurata delle fonti, in primis il testo di Binswanger (Il caso Ellen West, SE 2019), e dei diari di Ellen West, Moscati traccia il ritratto di un’ossessione o di una idea fissa che governa la vita di una giovane donna (Ellen morirà, per l’appunto, suicida a soli trentatré anni) per quasi tutto l’arco della sua esistenza. Gran parte del libro, come accennato, è dedicata alla disanima delle dinamiche socio-politiche dei primi anni del Novecento, come anche agli incerti equilibri tra una visione compassionevole della sofferenza psichica e una normatività ontologica, dispiegata dalla nascente Daseinanalyse, che porta Binswanger a non diagnosticare l’anoressia di Ellen. Proprio a causa della sua visione essenzialista dell’umano, all’interno della quale si profilano destini e colpe, mancanze ontologiche e dimensioni di inautenticità, contrapposti a scelte autentiche e pienezze di senso, l’analitica esistenziale binswangeriana viene mostrata, nella ricostruzione di Moscati, come totalmente incapace di cogliere la profonda umanità del disturbo alimentare, che viene infatti interpretato da Binswanger come una regressione allo stato animale. Un disturbo che diviene incomprensibile una volta negata l’inscindibilità tra psiche e soma, quell’inscindibilità che, a differenza di Binswanger, aveva portato Freud a definire l’Io “come una proiezione psichica della superficie del corpo” o, ancora più radicalmente, la psiche come l’estensione inconscia del corpo (il tardo Freud che in alcuni appunti sparsi del 1938 scrive, “la psiche è estesa, non ne sa niente”). Ecco, questa ossatura teoretico critica, che si rivela anche come un risarcimento postumo di una barbarie terapeutica inflitta a Ellen West, è, però, a mio avviso, seppur importante e completamente riuscita, solo una faccia, la più visibile, del libro di Moscati.
La stessa Moscati, nelle primissime pagine del testo, confessa di essersi interessata al caso di Ellen West perché lei stessa ha sentito, nel corso della sua esistenza, di essere abitata da un’idea fissa. E non fu probabilmente aliena a questa sua sensibilità – alla luce della quale ogni suo testo è la tappa di una resa dei conti autobiografica con le proprie ossessioni – l’uscita, alcuni anni orsono, di un volume dedicato al delirio (Deliri, nottetempo 2009). Ma, a differenza del delirio – che mantiene pur sempre i connotati di un indirizzarsi all’altro, seppur nella dimensione frammentaria di un discorso tendente al solipsismo, alla comprensione di sé attraverso l’esposizione al radicalmente altro, oltre l’ordine del discorso – l’idea fissa si impernia su un’immagine o visione, sorta di ripetizione ossessiva di uno sguardo che si fissa in figura, in una figura che sfigura il soggetto e l’oggetto della visione. È, nel caso di Ellen West, l’ossessione, la paura e la vergogna dell’anoressica per il proprio corpo, per la visione, prima, allo specchio e, poi, negli occhi di un altro immaginario, della propria silhouette, della propria linea che si deforma, ritornando trasfigurata, in una non coincidenza tra il sé reale e il sé – per l’appunto – immaginato. L’immagine primaria, il proprio corpo o il corpo altrui magro, diviene, poco alla volta, un ideale regolatore, l’oggetto di un desiderio smodato di magrezza che nulla ha più a che vedere con la stessa immagine primaria che dà origine all’idea fissa. Il soggetto ossessivo inizia a desiderare la propria immagine ma la fissa in un ideale astratto, smaterializzato, incorporeo, oggetto di un desiderio infinito e inappagabile.
D’altronde, l’idea, secondo l’insegnamento platonico, è essenzialmente forma ideale; e l’idea fissa è una mania della forma. Si tratta, sempre, di un’immagine che si imprime sullo sguardo e spinge a vedere il mondo all’interno di quella figura deformante. “L’idea fissa è diventata l’ottica, il punto di vista, l’orizzonte [si noti tutto l’apparato metaforico scopico messo in campo da Moscati] nel quale tutte le altre cose, anziché acquistare un senso, lo perdono, perdono cioè il loro senso proprio”. Chiaramente, l’immagine può variare da mania a mania, l’anoressia non è che un esempio. L’immagine può assumere tratti sessuali e feticistici o distruttivi, l’immagine del morto o della morta che ritorna. A tal proposito, non resta che notare che quell’immensa storia dell’occhio e delle sue immagini fisse, che va dagli spettri di Amleto sino ai romanzi di Bataille, sembra mostrare come l’influenza dell’immagine fissa travalichi il campo del patologico o, a seconda di come si vuol inquadrare la questione, getti l’ombra della patologia ben oltre quella della clinica, ponendosi come il nucleo segreto e propulsore dell’opera di molti grandi scrittori, artisti, pensatori.
È come se sempre all’inizio fosse l’immagine. Ma all’inizio di cosa? All’inizio di ogni pathos e della necessità di esprimere ciò che si sottrae ad ogni espressione, pur soggiacendole tacitamente. Non sfugge, naturalmente, a questa mania il libro di Moscati che è, per molti versi, un nuovo tentativo di questa sottile scrittrice di confrontarsi con la propria idea fissa, con la propria fobia per il disfacimento, per l’intrusione del patologico, del deformante all’interno della propria integrità. Nel suo percorso letterario di chiarificazione o di resa dei conti con questa intrusione certamente un peso ha avuto il ruolo centrale da lei rivestito nella pubblicazione dei due volumi Corpus e L’intruso di Jean-Luc Nancy. Ma, a differenza del filosofo francese, Moscati declina l’intrusione dell’altro, dell’altro come elemento anche tossico – la malattia, l’ipocondria, la paura dell’invecchiamento – come linea di fuga di un’identità alla ricerca di se stessa proprio là dove l’identità va in crisi, là dove il soggetto trema e perde il controllo di sé, nel terrore della visione di sé, del proprio corpo che si trasforma al di là di ogni volontà. Se in Nancy l’intruso è osservato e accettato, quasi con distacco, nella sua estraneità che fa tutt’uno con l’estraneità del proprio corpo, in Moscati si assiste a una lotta, spesso angosciata, tra l’idea fissa, con il suo carattere idealizzante e sterilizzante, e il corpo metamorfico che riapre lo iato tra il possibile e il reale. La scrittura di Moscati è un agone tra la mania e il soggetto scrivente. Il vero obiettivo della mania è, infatti, quello di “negare la distinzione fra il possibile e il reale e scongiurare nella ripetizione dell’identico ogni mutamento. Così, il possibile è sempre saturato dal medesimo pensiero, e il reale del corpo e dei corpi viene negato perché il corpo è misura, teatro e scena del mutamento in maniera ben più irreparabile di quanto sia il pensiero”. Di qui l’interesse di Moscati per l’anoressia, per questa ossessione per la propria linea, per un corpo definito e non soggetto a mutazione. L’anoressica è ossessionata dal suo corpo perché ha solo un corpo ideale, un’immagine del proprio corpo la abita e sostituisce il corpo mutante, quel corpo che si nutre dell’introiezione dell’altro, del corpo altro, del cibo. Il cibo va negato perché rompe l’immagine ideale del mio corpo, la contamina, la trasforma. L’altro (il cibo) rappresenta il rischio del mutamento, del divenire altro da quel che si desidera essere, per mezzo di un desiderio non cieco, ma acciecato dall’immagine ideale, dall’idea fissa. Ellen West porta all’estremo questa ossessione; non riesce più sostenere il peso del suo ritorno senza fine, in un loop in cui il cerchio si chiude su se stesso evitando scrupolosamente di intersecare la linea di fuga dell’alterità. Una sorta di eterno presente senza un futuro possibile. Ellen cerca di contenere l’ossessione attraverso la scrittura, in quelle che, giustamente, Moscati descrive come pagine di grande spessore letterario; cerca di dare alla muta e inafferrabile immagine fissa una forma attraverso la scrittura ma, alla fine, soccombe, schiacciata, oltre che dalla potenza dell’immagine, da un clima di incomprensione, tanto da parte dei medici, quanto da parte del marito. Cosa che, al contrario, non accade a Moscati che, da anni e non solo in questo libro, costruisce un’iconografia dell’idea fissa, trasponendola in un discorso che assume ogni volta una diversa fisionomia. Rintraccia e ritraccia l’idea fissa per liberarla dalla sua fissità. E, d’altronde, cos’altro sono la scrittura e l’arte se non questo tentativo, spesso disperato, di liberare un’immagine che ci ossessiona dal suo carattere definitivo e paralizzante?
La scrittura è questo infinito intrattenimento con un’immagine traumatica, con una cicatrice visiva. Ma se la scrittura ha a che fare con una ferita dello sguardo, questa ripresa infinita della visione traumatica che la frase articola non è certo animata dalla speranza di spiegare l’ossessione, di inserirla in un mondo di significati che la giustifichino, quanto piuttosto dalla ricerca di un’altra possibilità, capace di illuminare l’immagine fissa di altra luce, sottraendo la dimensione del vedere tanto allo sguardo di Medusa quanto a quello di Orfeo. La scrittura descrive la visione. La de-scrive, la sottrae alla dimensione significante del linguaggio comune per inscriverla nello spazio di una parola sorgiva, aprente e spalancata sull’indeterminatezza del futuro. Se si dà un fine della scrittura è quello di dare voce a una figura muta e al terrore che il silenzio di un desiderio senza un’immagine reale porta con sé, per esporre il soggetto scrivente e, in parte, il lettore a un altro silenzio, allo splendore di un’immagine in movimento che ci fissa rendendoci infine liberi di decidere se distogliere lo sguardo o vedere quel che non abbiamo mai davvero visto: lo sguardo dell’altro, cioè lo sguardo che può davvero mostrarci qualcosa di noi, sottraendoci all’idea fissa. L’altro da sé, l’altro sé, il sé che si fa altro nelle sue alterazioni infinite, nella sua lenta e ineluttabile metamorfosi verso qualcosa che non ha né inizio né fine: la nostra identità. O, forse, traslando l’identità dallo spazio al tempo, la scrittura ci sospinge verso l’eternità, come suggeriva il titolo del testo più riuscito di Moscati. Un’eternità ben lontana da una infinità durata dell’identico, in una sorta di onnipotente padronanza e coincidenza di passato-presente-futuro. Al contrario, un’eternità che noi possediamo solo come un quasi, un non già e un non ancora, sempre sul punto di fuggire. Come un’immagine, un’idea che ritorna senza tregua, senza darci tregua, sfinendoci. Ma che, allo stesso tempo, ci anima e ci spinge a immaginare il mondo che viene a noi e che ci fa essere quel che non sapevamo di essere. L’eterno ritorno di un’immagine, ma che lascia che anche questa immagine conosca l’esperienza della sua fine, della sua messa a morte. Vivere è l’esperienza del lento morire di questa immagine, di quest’immagine a cui diamo il nome di Io. Vivere è ripetere, variandola sul basso continuo dei giorni, quest’immagine sino alla sua fine. Scrivere è fare esperienza, lasciandone traccia, di questa ossessione e della sua necessaria condanna a morte, in un circolo vizioso o virtuoso senza via d’uscita, se non al prezzo di uscire dalla vita. Scrivere è immaginare, esporre l’immagine fissa al ciclo della vita, renderla mortale. Scrivere significa rendere l’immagine all’immaginazione.
Antonella Moscati, Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta
Quodlibet 2021, 150 pp., 15 €
In copertina: Lars von Trier, Antichrist, 2009