Con Gianni, Celati

09/01/2022

Troppo lungo, come addio. Dalle Scogliere giungevano notizie malcerte. Sapere di più ci impauriva; della sua salute si diceva e non diceva; qualcosa di più preciso pareva volgare. Definitivamente, Gianni era altrove. Magari lo era sempre stato; ma quando l’ho conosciuto io, dal paese in cui mediocre permango, se n’era fuggito da un pezzo. L’ultima volta festeggiamo a Reggio Emilia i monumenti del «Meridiano», del Fondo alla Panizzi; travolto dagli abbracci, mi prende per un altro. Ci chiede di assistere in silenzio, in sala, un po’ defilato; accanto a lui Ugo Cornia. Va tutto come deve andare; alla fine però, dopo tutta la retorica sul «magistero», una signora ignara si alza e pretende che anche l’interessato dica la sua. Serpeggia un leggero panico. Ugo gli regge il microfono e Gianni, a voce ancora più bassa del solito, vocifera di un tale balordo al quale a un certo punto della gente, balorda quanto lui, ha preso ad andar dietro: finché sono finiti tutti giù nel burrone. L’apologo bruegeliano sigla perfettamente la situazione.

Il silenzio al quale la malattia lo aveva infine ridotto era quello del “suo” Bartleby; tradotto però, ormai, nella più spietata letteralità. Ci mentivamo che andava ancora bene finché poteva girare a piedi, come tanto amava. Fatto sta che ha ceduto al cancro, nella notte fra lunedì e martedì, dopo che un incidente gli aveva proibito pure quello.

Poche settimane prima, forse presago del capolinea, Paolo Morelli ha pubblicato un piccolo diario cui ha dato il titolo In viaggio con Gianni, Celati. La storia delle sue ultime pagine (che proponiamo qui per la cortesia di autore ed editore) Paolo me l’aveva già raccontata più d’una volta; temo anzi di avergli chiesto io di replicarla, come un juke box feticistico più che nostalgico. E ora tutto mi piace di questo libretto (con la grafica di Michele Zaffarano e l’immagine di copertina di Enrico Pantani, nella collana «ChapBooks» di Tic Edizioni, pp. 48, € 10), a partire dal titolo. È difficile, in questi giorni, evitare di dire «Gianni» (come ho appena fatto pure io). Imbarazza chiamarlo «Celati», come se lo allontanasse in qualche ufficialità burocratica; ma non meno inadeguato è «Gianni», con la familiarità loffia cui indulge, in casi come questo, la doxa mediatica che tanto lo indignava. «Con Gianni, Celati» – con quella virgola di precisazione, o ripensamento – è la cosa migliore.

Perfetto pure il set del viaggio a piedi, e l’insieme di affetto e fastidio del piccolo apologo che gli mette fine. Si sapeva che il comico – per Gianni, Celati – era l’altra faccia non dirò del tragico, certo della desolazione di Bartleby: della lieve mattana solipsistica – quella atrabiliare degli esordi, mai fugata del tutto – sottesa alla sua proverbiale dolcezza. Prende involontario valore d’emblema, allora, che l’amico «si sia allontanato e non si veda più all’orizzonte» – come scrive Paolo, qui, ricordandolo ex post – sbraitando di Woody Allen e dei fratelli Marx. Un po’ consola, persino, vederlo un’ultima volta un po’ incazzato: di questa recita dell’esistere. Le sue parole più celebrate sono quelle che concludono il suo testo più canonico, Verso la foce: «Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo». Le ho sentite ripetere troppo volte. Non sono tempi sereni questi, per niente; le persone, come le cose, se ne vanno una volta per tutte. E io, che resto, ci resto male.

A.C.

post scriptum, 6 gennaio 2022

Scrivo l’ultimo capitolo di questo libro ora che il protagonista si è allontanato e non si vede più all’orizzonte. Consola solo un po’ l’accorgersi che è vero quello che si credeva o almeno si sperava, vale a dire la trama di affetti che può tessere un uomo scrivendo dei libri, quindi il contenuto di un libro non è l’argomento di cui tratta, non è quello che passa al lettore ma l’intento con cui è stato scritto, la cerimonia dell’intelligenza che sta nella cortesia, il dare che viene prima del dire e crea una specie di forza rutilante e burrascosa.

Conforta, e quasi fa sognare, l’attenzione e la rilevanza che è stata data alla sua figura in questi giorni e un po’ dappertutto, come se sul serio si senta il bisogno di spalancare le finestre in questo paese che lui riteneva avvelenato, senza margini di riscatto, e l’ambiente che fa i libri ha il problema ulteriore di credersi esente, migliore degli altri. Idee tuttora entusiasmanti quelle dello scrittore C., ad alta dedizione, utili o perfino indispensabili, come ad esempio che non è vero che chi non ha il coraggio non se lo può dare e tornare a fare dello scrivere l’avventura giudiziosa che è sempre stata.  

Strano per strano, ma la prima cosa che m’è venuta in mente quando ho saputo della sua morte è una volta al Cimitero degli Inglesi dove andavamo quando veniva a Roma, mi sono ricordato che sulla tomba di Gadda ho preteso che leggesse il romanesco e un altro po’ litigavamo anche lì, secondo lui noi romani non abbiamo nessuna voglia di farci capire dal resto del mondo.

Se i libri non sono altro che prove di amicizia con il mondo come voleva lo scrittore C., anzi esercizi di fraternità e per questo il più delle volte fallimentari, allora anche questo piccolo che racconta di un viaggio sgangherato e di un litigio un po’ coglione, uno di quei tanti urti reciproci che ci inventiamo fieri della nostra debolezza, ma pure del fatto che essere vivi non è mai antipatico del tutto. E poi, dopo, «niente rimette a posto le cose».

12 maggio (sera)

Trattandosi di un comportamento molto strano dovrò andarci piano in questa parte della cronaca, essere preciso e circostanziato. Verso le sette di sera siamo a Villa S. Maria, paesetto sul fiume Sangro, accatastato nella valle e tagliato da una roccia di nome Penna. La casa di mia zia Emilia è disabitata da molti anni, ma ancora non è in rovina. Prendiamo alloggio dopo una faticosa salita di gradoni, durante la quale Pamich rimane indietro e io riguadagno i chilometri di distacco che ho perso in questi due giorni. Seduti davanti casa vedo lo scrittore un po’ svagato, penso sia la stanchezza, però dice che è stata una giornata bellissima.

Poco dopo riscendiamo verso il fiume e l’unico ristorante nel paese. È necessario che io ricordi e racconti per filo e per segno i discorsi. Parliamo e ascoltiamo un po’ per uno, potrebbe definirsi un dialogo amabile, se non fossimo parecchio stanchi. Si parte da mie domande sui suoi prossimi viaggi in America. Lo scrittore C. mi racconta che avrà da fare una serie di lezioni e di corsi in Università degli Stati Uniti, tipo Lezioni americane di Calvino, su una spasa di autori che vanno da Leopardi a Merleau-Ponty.

Quando arriva la pasta passiamo a parlare di cucina, di Villa S. Maria che è conosciuto come il paese dei cuochi, di mio padre e della sua abilità a disegnare sulle torte con il cartoccio di carta oleata ripieno di crema. Lo scrittore C. dice che pure sua madre sapeva usare quel metodo. Si parla anche della mia abilità di cucina in situazioni difficili, per esempio in galera, con contorno di aneddoti su come accada spesso che l’intera cella ti svegli in piena notte, in preda alla fame nervosa, e su come un buon cuoco di galera deve inventarsi dei piatti con poco. Se è capace di farlo crescerà in considerazione e non avrà niente da temere. Sorseggiamo una bottiglia di ottimo Montepulciano d’Abruzzo, Colle Nero barricato eppure un vino semplice e leggero, parlando di donne, degli amori, delle droghe (per dire quanto eravamo vicini).

Poi si va a finire a parlare di Lanciano, un paese non lontano, che possiede un Conservatorio stimatissimo, tanto che ci vengono perfino da Roma, e poi della grande tradizione bandistica della zona. Lo scrittore C. racconta di aver visto un documentario di un tale, che è solo il montaggio di vari gruppi bandistici di ogni parte del mondo, dal Tibet alla Nigeria.

E il discorso si ferma sul cinema. C. cita una lettera dell’artista Giacometti, nella quale racconta che una volta era andato al cinema e a un certo punto si era voltato e aveva visto la testa di quello accanto che gli sembrava di non aver mai visto una testa, e poi la sensazione era continuata uscendo dal cinema che gli sembrava di vedere solo cose nuove. Io ricordo le opere di Giacometti numerate col titolo Fallimenti e poi, tornando alle bande, mi viene in mente l’uso fanfarone che ne fa Kusturica, che però C. non conosce granché.

Cerco di essere il più preciso possibile, ora che scrivo di questa stessa sera, è necessario nonostante l’ora, la stanchezza, e il gran vento. Solo quello che ho visto e sentito, mi sforzo. E si passa così a Woody Allen, che lo scrittore C. ama moltissimo, mentre a me piaceva una volta, quando si ispirava ai fratelli Marx e al cosiddetto umorismo yiddish. Ora non mi piace più, dico, perché il suo è solo uno sfoggio di intelligenza. C. lo vedo subito che si incaponisce su Allen: ha visto, dichiara, un documentario di un suo concerto a Roma: a un certo punto la moglie di uno importante gli si avvicinava dicendo in inglese che era fortunato a essere così intelligente, e lui rispondeva che si, però pesa qui in cima, ha detto Allen e pure C., toccandosi la sommità della testa. È proprio questo il punto, ho detto, l’intelligenza può essere un peso, almeno nella sua accezione di accumulo di ragionamento, di calcolo, di furbizia. L’ho detto, ma con la sensazione di non essere riuscito a spiegarmi bene.

Ma lo scrittore C. non è d’accordo, Allen gli sembra un artista dal poco seguito, che fa film poveri e misconosciuti. Per me gli preferisco Scorsese, ho ribadito, pensando di partecipare a una discussione pacata. Preferisco Scorsese, ho ribadito, che è meno visibilmente intelligente, anzi è perfino un po’ rozzo a volte, ma ha rispetto per la tradizione, invece Allen mi piaceva di più all’inizio, ho ribadito, quando si ispirava ai Marx.

A questo punto lo scrittore C. si stava alterando, ma io ho equivocato, pensavo di partecipare a una discussione in crescita. Ha affermato che io ero solo un critico cinematografico, pieno di categorie nella testa. Al che io mi sono opposto, sempre nell’ambito di quella che credevo una discussione magari animata che si fa tra amici e compagni di un viaggio appena cominciato. Ho detto e non urlato che non c’entrava nulla il critico cinematografico, che per me l’intelligenza vera non è controllo, né sovraccarico di cultura, ma perdita e spontaneità. Quell’intelligenza lì è il vizio del mondo, ho ribadito parole precise, diventa un virus morale come la giustizia e la carità. E poi ho detto, per abbassare ancora i toni, che in ogni caso Allen Woody a me piaceva solo agli inizi, quando si affidava alla tradizione yiddish.

Ma non l’avessi mai detto. Lo scrittore C. ha preso cappello che io non capivo un cazzo di yiddish e di niente, che le mie erano affermazioni degne del gruppo politico dell’Autonomia Operaia, i fratelli Marx erano dei cialtroni (!) e io uguale con in più ero stronzo, così di brutto, ha sbraitato, facendo volare il tovagliolo attraverso il locale a malo modo. Questo gesto è il solo nella serata, prima e dopo, che mi ha dato una breve emozione. Ho ripercorso la traiettoria del tovagliolo nell’aria con l’indice sinistro, fino a raggiungerlo per terra, a puntarlo, niente di ironico, rivolgendomi a C. e dicendo, ecco cos’è rimasto per me dell’intelligenza, la maleducazione.

Apriti cielo! Lo scrittore intelligente C. si è immediatamente alzato, fuori di sé s’è rivoltato urlando che allora da domani ognuno va per la sua strada! e subito precipitandosi alla cassa. Io ho mormorato solo che lo sapevo, molto calmo, mi stava succedendo qualcosa di strano, con intorno una sensazione ferma e piacevole l’ho superato alla cassa e sono uscito, raggiungendo il fiume.

Tutte le immagini sono di Carlo Gajani, dalla Fotorecita su Beckett del 1975 (da Animazione e incantamenti, a cura di Nunzia Palmieri, «fuoriformato» L’Orma 2017).

Paolo Morelli

è nato e vive a Roma. Tra i suoi libri “Vademecum per perdersi in montagna” (2003, 2017), “Er Ciuanghezzù” (2004), “Caccia al Cristo” (2010), “Il trasloco” (2010), “Racconto del fiume Sangro” (2013), “Né in cielo né in terra” (2016), “Da che mondo è mondo” (2017), “Più di là che di qua” (2021) e il saggio “La postura del guerriero (addestramento etico e altre modeste proposte)” (2020). Ha tradotto Pseudo-omero, Zhuang Zi, Lao Zi, Rabelais, Stevenson, e l’inedito poeta cinese Yang Wanli, “La contrada natale dei sogni” (2020). Come performer ha curato gli spettacoli “Animali Parlanti”, “Jazzcéline”, varie edizioni di “Parentele Fantastiche”, “A passo di Walser nel senso di Robert” e dal 2015 la serie di “Letture Strampalate”.

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