“La mia pittura è questa: vivere, essere qui”, così Lourdes Castro, una delle più significative artiste portoghesi, descriveva il proprio gesto. E, sempre lei, che io conobbi una quindicina di anni fa, appena arrivato a Lisbona, mi disse, forse riprendendolo da altri, che una persona, dopo una certa età, ha il volto che si è formata negli anni. Il volto di Lourdes, lo ricordo ancora con nitore, era bellissimo. C’era in lei una trasparenza e una gentilezza che andava molto al di là dell’ospitalità. Lourdes aveva la rara dote di mostrare le cose, senza togliere loro ombra. Le sue ombre, quelle che percorrono tanti suoi lavori, passando da una stagione all’altra della sua proteiforme produzione, sembravano aver preso alla lettera l’indicazione celaniana, dà senso anche al tuo pensiero: / dagli ombra. I suoi quadri erano sottili, pieni di grazia e di forza.

Aveva studiato alla Scuola di Belas Artes a Lisbona, ma era stata espulsa, nel 1956, perché, nel clima salazarista di quegli anni, la sua pittura era ritenuta “non conforme”. Dal 1957 vive da esule, prima a Monaco e poi a Parigi. Lì, fonda, assieme a René Bértholo, Costa Pinheiro, João Vieira, José Escada, Gonçalo Duarte, Jan Voss e Christo, il gruppo di KWY. Seguiranno, negli anni successivi, moltissime mostre in tutta Europa. Tra gli anni settanta e gli anni ottanta vedrà la luce il grande ciclo, in collaborazione con l’amato Manuel Zimbro, sul Teatro delle ombre. Rientrerà in patria, nella sua nativa Funchal, solo nel 1983.
Per oltre settant’anni, Lourdes Castro ha scandagliato lo spazio pittorico, passando attraverso la lezione del Nouveau Réalisme, ma andando molto oltre. Ha moltiplicato i piani di quello spazio bidimensionale, introducendo, ad esempio, l’uso del plexiglas, utilizzato proprio per far coesistere la trasparenza con l’ombra, la realtà con la finzione, l’esser-ci con l’aldilà. La sua opera è stata forse, all’interno del panorama portoghese ed europeo, una delle più sensibili e attente nel mostrare quella che non saprei come altro chiamare se non la transimmanenza del mondo, il suo essere ancorato nella materia pur rinviando sempre anche ad altro, per l’appunto a un’ombra, a un oltre che non esisterebbe senza la cosa. Nessuna fuga dalla realtà, ma la volontà di amplificarla, di mostrarla nelle sue infinite sfumature, nella sua ricchezza semantica. Ancora Celan:
Dagli ombra che basti, tanta
quanta tu sai
attorno a te divisa fra
mezzanotte e mezzodì e mezzanotte.
Guardati intorno:
vedi come in giro si rivive —
Per la morte! Si rivive!
Dice il vero, chi parla di ombre.
In tanti dei suoi lavori, Lourdes riflette sul passare del tempo, sullo svanire delle stagioni e delle cose. Non separa il sì dal no, la mezzanotte dal mezzodì, la vita dalla morte. Se ne fa testimone, senza nulla fissare, ma lasciando che l’ombra dell’opera muti con il mutare del fascio luminoso che la illumina. Il mutare dello sguardo costituisce l’opera. L’opera è nello sguardo che la illumina. Ma senza opera lo sguardo non ha nulla a cui appigliarsi, nulla che resista e si mostri.

Lourdes era curiosa della vita, i suoi occhi ne erano la testimonianza. Aveva curiosità per le giovani generazioni (memorabile la sua collaborazione, nel 2000, con Francisco Tropa, allora trentaduenne, alla Biennale di S. Paulo). Non c’era nulla di passatista in lei. Amava il fluire della vita, la sua metamorfica capacità di venire e irrompere nel presente. Se amava le forme era per la loro capacità di metamorfosi. Era, molto semplicemente, curiosa della vita. La sua arte non era che il riflesso o l’immagine di questa curiosità.

È morta nella sua isola a novantuno anni. Esposta al vento e alla luce cangiante dell’oceano. Lì riposa, all’ombra della flora impareggiabile di Madeira.