Quella di Adolfo Bioy Casares (1914-1999) è una delle voci più originali della letteratura sudamericana. Lo scrittore argentino, noto soprattutto per il romanzo L’invenzione di Morel (romanzo del 1940, dal 2017 di nuovo disponibile nella traduzione di Francesca Lazzarato pubblicata da Sur), torna nelle librerie italiane con L’avventura di un fotografo a La Plata, romanzo del 1985 che, dopo una prima versione uscita da Lucarini due anni dopo, è stato ritradotto anche in questo caso da Lazzarato per Sur.
«Verso le cinque, dopo un viaggio in pullman lungo quanto la notte, Nicolasito Almanza arrivò a La Plata», così inizia il romanzo. Abbiamo tutte le informazioni: l’orario di arrivo, la durata del viaggio, il nome del protagonista, il mezzo su cui si sposta e la sua destinazione. Eppure, già dalle prime pagine capiamo che l’avventura che aspetta Almanza metterà in discussione qualsiasi dato certo. Frasi come «non c’è da fidarsi», «credette di capire», «come chi si risveglia» connotano l’atmosfera del libro e ne chiariscono i temi: la fiducia, i limiti della comprensione e il sogno.
Inviato a La Plata con l’incarico di fotografare le bellezze architettoniche della città, Almanza non sa che il suo destino sta per incrociarsi con quello di una famiglia sconosciuta: Don Juan Lombardo e le sue figlie, Griselda e Julia, che lo invitano a colazione con un pretesto, notando in lui un’inquietante somiglianza con un figlio scomparso in circostanze strane. Da questo primo incontro, il fotografo rimarrà intrappolato nel mondo misterioso dei Lombardo e inizierà a dividersi tra la realizzazione del lavoro che gli è stato commissionato e le richieste di Don Juan e delle ragazze: «Il male è che i presunti amici formano una famiglia. Una famiglia di ragni e Almanza è già nella ragnatela».
Ma Nicolasito continua il suo soggiorno sotto il peso di una minaccia che non comprende e che, tutto sommato, sembra lasciarlo indifferente. Per la maggior parte del tempo, proprio come una macchina fotografica, percepisce tutto dall’esterno. Il suo ottimismo si manifesta come una forma di passività testarda ma arrendevole perché, in fondo, niente di ciò che accade sembra preoccuparlo. Certo non quanto quell’assegno che tarda ad arrivare e che lo costringe a nutrirsi di pane e caffellatte e a indebitarsi con gli amici.
Per quanto insolito e surreale, nessuno degli eventi che si verificano in pochi giorni a La Plata sembra interferire con la sua quotidianità fatta di uscite fotografiche, chiacchiere al ristorante e telefonate: in perfetta simmetria con la prosa di Bioy Casares, nebbiosa come la luce che avvolge la città, offuscando gli edifici fotografati da Almanza, con un effetto di quasi totale ambiguità. Come sempre, lo stile di Casares insinua l’elemento fantastico sotto un denso strato di realismo. Ma «realistico» è un aggettivo che potremmo usare per definire lo sforzo di assomigliare alla realtà e Almanza si sforza di far assomigliare la realtà alle sue fotografie. Non accetta che l’animo e le intenzioni di Griselda e Julia possano discostarsi dalla loro bellezza, tanto più evidente quando filtrata dall’obiettivo fotografico: «Guardandola attraverso l’obiettivo si disse: Che bel viso. È la prima volta che lo vedo. Come se vedessi soltanto attraverso la macchina fotografica».
Malgrado ciò, l’impressione è che Nicolasito riesca solo a sfiorare la realtà e che per lui la fotografia sia soprattutto esibizione della superficie. I suoi unici criteri di valutazione sono la giusta esposizione, l’equilibrio della composizione e l’attrattiva del soggetto. Al contrario, le fotografie hanno un effetto magico su tutti coloro che fotografa e che vedono le sue istantanee. Per mezzo di questo scarto, Casares insiste sulle molteplici dimensioni del reale. La pellicola è una superficie, come uno specchio, e come uno specchio può restituire a chi guarda una realtà diversa, raddoppiata, addirittura multidimensionale. Per questo dagli specchi Jorge Luis Borges – legato a Bioy da un’amicizia storica – ne era ossessionato. Nella poesia Los Espejos scrive: «Il cristallo ci spia. Se tra le quattro / pareti della stanza v’è uno specchio / non sono solo / C’è un altro». Questo timore che dietro il vetro possa nascondersi qualcuno che ci spia, sconosciuto e misterioso, è lo stesso che prova Almanza osservando il suo riflesso negli specchi di un paravento in una delle scene più intense dell’Avventura: «Mosse la faccia davanti a uno degli specchi e notò fuggevoli deformazioni, come se la superficie del vetro fosse ondulata […] quando gli sembrò di scorgere un’altra faccia».
D’altra parte, numerosi sono i riferimenti nel testo non solo agli specchi, ma ai cristalli e alle vetrate, immagini della coscienza e dell’autocoscienza dove la verità si perde. Ci sarebbe bisogno di qualcuno capace di trattare queste delicate questioni metafisiche, ma nessuno dei personaggi è attendibile. Non Don Juan che potrebbe essere un carismatico, ma tutto sommato innocuo approfittatore o un truffatore, una sanguisuga o addirittura il diavolo. Non Julia e Griselda che potrebbero essere due seduttrici in competizione tra loro o due ragazze che vedono in Nicolasito la speranza di sottrarsi a un padre accentratore. Né tantomeno Mascardi, il migliore amico del protagonista, un poliziotto forse pronto a tradire chi gli è più vicino.
È questa l’aria di sospetto e minaccia che si respirava tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, durante l’ultima dittatura militare argentina. Nonostante Casares non venga considerato un autore politicamente coinvolto, lui stesso ha confermato a suo tempo che nel romanzo si allude ai desaparecidos e che la sua storia sia come una metafora, alla sua maniera, di quello che stava succedendo. Lo ha fatto suggerendo che la verità sia fatta di una materia fragile, come il vetro, pronta a incrinarsi a ogni dubbio. L’impegno politico riesce a passare attraverso la leggerezza della trama nella misura in cui testimonia le idee del suo tempo, svela le illusioni del senso comune e ne denuncia le conseguenze.
Questo è quello che fa un buon romanziere, ma cosa farebbe un buon fotografo? Almanza riflette spesso sul suo ruolo, definendolo nella formula del «guardare per fotografare». Un imperativo, quasi una legge morale seguita tenacemente per non dimenticare. «Quell’ansia di fotografare all’istante ciò che aveva davanti» è la stessa di Antonino, il protagonista del celebre racconto di Italo Calvino L’avventura di un fotografo (pubblicato da Einaudi nel volume del ’70 Gli amori difficili) col quale sin dal titolo pare dialogare il Nicolasito di Bioy Casares, concordando con lui su un altro punto: «il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo». In entrambi i casi le fotografie mediano le relazioni sociali e lo stesso rapporto con la realtà, nel tentativo di salvare l’esperienza dall’inaffidabilità della memoria.
Basti questo a spiegare il caleidoscopio ricevuto in dono da Julia, un invito a osservare il mondo in modo diverso. Ogni capitolo del libro funziona come la rotazione di un caleidoscopio: a ogni scatto il lettore si aspetta un mistero dove non può esserci un mistero, una storia d’amore dove non può esserci una storia d’amore. Alla fine, il solo a conoscere tutto dei personaggi è il narratore – onnisciente e in terza persona – che si limita a registrarne le azioni e i pensieri: è lui il fotografo.
Adolfo Bioy Casares
L’avventura di un fotografo a La Plata
traduzione di Francesca Lazzarato
Sur, 2021, pp. 212, € 16
In copertina:Adolfo Bioy Casares