Fantocci di legno e di suono, edito da Aragno per le cure di Antonio Pane, raccoglie due studi giovanili del grande poeta e slavista Angelo Maria Ripellino (1923-1978). I due articoli, usciti entrambi nel ’49 sulla rivista «Convivium», sono dedicati rispettivamente al teatro di marionette del romanticismo boemo e alla poesia di Velimir Chlèbnikov. Antonio Pane racconta nell’introduzione come il volume nasca – anche per sollecitazione dell’editore – come contralto “agile” al poderoso Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), che raccoglie l’intera produzione militante di Ripellino in campo letterario (Nino Aragno 2020, a cura di Umberto Brunetti e Antonio Pane). Scherzosamente Pane richiama un titolo di Dylan Thomas, per sottolineare come Fantocci di legno offra un «“ritratto dell’artista da cucciolo” […] colto a un discrimine del suo destino». Nel ’49 Ripellino è senz’altro ancora cucciolo, anche se non proprio di primo pelo. Insegna Filologia slava e Lingua ceca a Bologna, è attivo come saggista da svariati anni e nel ’45 si è laureato a Roma con lo slavista Ettore Lo Gatto. Nel ’47 ha inoltre sposato Elisa Hlochovà, conosciuta a Praga in un periodo di lettorato presso l’Istituto italiano di cultura. Oltre la biografia, svariati motivi ci spingono a riflettere sul carattere incipitario e insieme già maturo dei due studi raccolti nel volumetto. In sintesi, almeno una ragione disciplinare e un’altra “estetico-epistemologica”, relativa ai moventi profondi del pensiero e della creatività di Ripellino. Da un lato, infatti, l’iniziale eclettismo di Ripellino – si era occupato anche di ispanistica e di Novecento italiano – si semplifica con la messa a fuoco dei due assi portanti della sua attività di studioso: la letteratura russa e quella ceca. Dall’altro, sebbene distanti dall’oltranza argomentativa e verbale dei lavori maturi, i saggi anticipano compiutamente il metodo di Ripellino. La sua esplorazione critica, infatti, è intesa come “itinerario nel meraviglioso” segnato dal gusto per i mirabilia dell’aneddoto e del racconto: un rifacimento gioioso in cui l’oggetto dell’analisi è «in qualche misura sempre connotato affettivamente» (Michele Colucci). Ma anche gli orientamenti estetici dello slavista trovano nei saggi di Fantocci di legno e di suono una seminale ma già decisiva manifestazione, che è interessante verificare seguendo da vicino lo svolgersi dell’argomentazione.
Il primo saggio, Il teatro di marionette nel romanticismo ceco, manifesta sin dal titolo l’interesse teatrale di Ripellino, specie in riferimento ad aspetti e generi tradizionalmente e a torto ritenuti minori (come appunto le marionette ma anche il circo o il varietà; trasversalmente, si pensi alla sua passione per la materialità dello spettacolo: costumi, colori, ciarpame di scena, vocalità e corporeità degli attori, etc.). Ripellino mette subito a fuoco come il teatro di marionette boemo fosse un’arte squisitamente popolare, inserita in una diglossia tedesco/ceco che incarnava sul piano linguistico le disuguaglianze feudal-imperiali (il ceco era un «idioma morto per le classi nobiliari […] e vivo solo per l’umile popolo villereccio»). Cerca poi di ricostruire i contorni leggendari della figura di Matěj Kopecký, che la tradizione addita come «patriarca» del marionettismo boemo ma che in realtà fu uno dei molti collettori/interpreti del mestiere. Ripellino procede sul doppio binario del rilievo formale e della ricostruzione storiografico-contestuale, tra aneddoto gustoso e affresco d’insieme. Colpisce in particolare la sensibilità per l’intreccio tra generi e condizioni materiali: le commedie di marionette «appartengono […] alla scala dei tipici generi da fiera», «sono quasi sempre anonime» perché perlopiù si tratta di «rifacimenti», si appoggiano, nelle trame, a un gusto popolaresco per la cronaca sensazionale o per il prodigioso, al modo delle canzoni. Le marionette – pimprlata, in ceco – sono «fantocci mossi da fili di ferro dall’alto», tipiche del gusto romantico e «tagliate nello stile dei romanzi cavallereschi e dei romanzi neri». Tra motivi “briganteschi” e magico-meravigliosi, come ad esempio l’anacronistica mescolanza di eroi antichi e moderni à la Dr. Faust, le opere per marionette propugnano una lingua «goffa e grossolana, irta di parole tedesche boemizzate, con una tortuosa e grandiloquente grammatica da fiera». Interessante poi il rilievo su come questo repertorio sia stato collezionato e tramandato da umoristi più tardi, che a partire dal secondo Ottocento lo storpiano in senso parodico: «Queste parodie riprendono tutti i procedimenti in uso presso i marionettisti del tipo Kopecký e li mettono volutamente a nudo per mostrarne la goffaggine». Oltre alla sensibilità per il mutare di generi e funzioni attraverso le epoche, il brano mostra come Ripellino fu pionieristico utilizzatore (in Italia) degli strumenti critici del formalismo.
Il secondo, più esteso contributo, Chlèbnikov e il futurismo russo, è dedicato a uno degli autori-feticcio di Ripellino. Il padre dello zaum’ viene da subito ritratto come un outsider, un folle per il mondo: «un sognatore […] sempre smanioso di progettare mirabolanti utopie», come ad esempio la trasformazione dei laghi in grandi pentole-serre per produrre minestre. Ripellino passa poi a descrivere le specificità del futurismo russo, distinto e a tratti addirittura opposto rispetto a quello italiano, specie nel rifiuto della guerra e nel ruolo centrale di un certo primitivismo slavo-asiatico. Gileja, il primo nome del gruppo dei futuristi russi, indicava infatti una regione piena di memorie antiche (Ripellino cita i «Kurgany», antichi tumuli funebri, e le «“baby” di pietra», idoli femminili che li ornavano). Anche nel saggio sui teatrini boemi Ripellino si era soffermato sui rapporti con la pittura: nel caso dei futuristi russi il legame tra le arti sorelle si fa centrale, dato che gli scrittori del gruppo si propongono di «portare nella poesia la sintassi del cubismo»: «i colori drogati, la simultaneità di piani, la scomposizione volumetrica dei versi dicono chiaramente che quella poesia si ispirava alla pittura».
Per rimarcare la distanza tra il futurismo russo e quello italiano, Ripellino dedica diverse pagine alla visita di Marinetti in Russia del 1914: troviamo, ad esempio, uno scandalizzato Chlèbnikov che tenta di boicottare una lezione di Marinetti distribuendo un manifesto stampato ad hoc (per nulla accomodante: «Gli uomini di volontà sono rimasti da parte, essi ricordano la legge dell’ospitalità, ma il loro arco è teso la fronte corrugata. Straniero, ricorda in che paese sei giunto!»). Nella seconda parte del saggio il gusto per l’aneddoto lascia il passo a notevoli affondi nello stile e nella poetica di Chlèbnikov. Siamo lontani dalle tirate virtuosistiche del Tentativo di esplorazione del continente Chlèbnikov, che apre l’ampia scelta di poesie edita da Einaudi nel ’68, con traduzione e commento Ripellino. Tuttavia, lo slavista sfodera sin da ora il suo estro critico, con singolari e acute trovate che punteggiano – invariate nel concetto e talora persino nella forma – anche il saggio della maturità: si va dal «disordine lirico» del futurista, che costruisce i suoi testi per immagini-monade, a una pervasiva predilezione per il catalogo epico o l’iteratività incantatoria («l’impressione che si tratti di un linguaggio da incantesimi e da esorcismi pagani è confermata»); dall’«esotismo fonetico» dei sostantivi, con cui Chlèbnikov produce mirabolanti effetti sonori, all’infantilismo della sintassi e dello sviluppo logico, per cui i suoi poemi si costruiscono «con una sorta di fatalità vegetale». E si noti en passant come questi rilievi valgano pure per la poesia di Ripellino, dallo scialo di toponimi ai parossismi iterativi fino al rutilante cubismo figurale (tali caratteristiche sono anche alla base della sua marginalizzazione nel canone poetico novecentesco, tracciato e ritracciato su binari molto più nostrani).
Un piccolo inciso filologico contribuisce all’apprezzamento del saggio: diversi excerpta di Chlèbnikov e il futurismo russo confluiranno in due lavori di Ripellino degli anni Cinquanta. In particolare, la descrizione delle peculiarità del movimento russo e il ritratto di Chlèbnikov ritornano – in certi casi letteralmente o con leggere modifiche – nell’introduzione all’antologia Poesia russa del Novecento del 1954 (si vedano i paragrafi 15-16; anche diverse citazioni dalle poesie di Chlèbnikov sono identiche). Gli aneddoti sul viaggio di Marinetti, invece, trovano spazio nella monografia Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, uscita nel ’59.
Tornando al saggio “giovanile”, Ripellino definisce con precisione lo zaum’ di Chlèbnikov, differenziandolo da quello «più facile e più grossolano» del poeta futurista Kručënych: invece di «imbastire articolazioni verbali, suoni informi, sequenze di lettere senza significato», Chlèbnikov «si sceglie radici russe, aggiungendo prefissi e suffissi, per creare altre parole, ma senza forzare le norme della lingua russa». Lo zaum’ resta nella lingua per rinnovarla radicalmente, «penetra più addentro» aprendola a un’inesauribile anarchia creativa (quella realmente neotenica e senza compromessi che fu ad esempio dei dada). L’operazione riduce la lingua alle sue componenti atomiche per farne un incantesimo sonoro che produce novità e meraviglia: «par di vedere tutto il segreto intreccio di fili e di corde che anima queste marionette-suoni. E in ogni parola autonoma dello zaum’ par di scorgere un pullulante mondo di esseri pagani».
Questa animazione rimanda alla radicale performatività del linguaggio (poetico e non) ma anche del teatro, aspetto a cui Ripellino fu estremamente sensibile durante tutta la sua carriera. La poesia e il teatro, in quest’ottica, sono intese come un evento che, mentre strega il fruitore suscitando in esso effetti e modificazioni patetiche, restituisce l’incantesimo al mondo. La comprensione estetica della performance innerva la carriera critica e artistica di Ripellino, dalle raccolte poetiche alle importanti monografie slavistiche fino alle recensioni teatrali per «L’Espresso», raccolte postume in Siate buffi (1989). Ripellino la assorbe, probabilmente, perché contagiato e stregato a sua volta dagli oggetti primi del suo lavoro: il teatro russo d’avanguardia di Mejerchòlˊd, ad esempio, ma anche il poetismo praghese di Karel Teige, che si proponeva di rendere la vita un «eccentrico carnevale, un’arlecchinata di sentimenti e di rappresentazioni, un ebbro montaggio filmico, un meraviglioso caleidoscopio» (Teige, citato da Ripellino in Storia della poesia ceca contemporanea, 1950). Ripellino mette sulla pagina, attraverso le bravure e gli artifici dello stile, questo senso di stupore e di meraviglia – spesso anche fortemente disforica – per il mondo della vita e dell’arte. Uno stupore patito ai massimi livelli in prima persona e poi trasformato in “scienza-spettacolo”, offerta al pubblico dei lettori grazie alle trovate, ai trucchi della scrittura.
Angelo Maria Ripellino
Fantocci di legno e di suono. Due studi giovanili (1949)
a cura di Antonio Pane
Aragno, 2021, pp. 87, €12